Capitolo XV
Di fronte ai goffi tentativi di Paul di bofonchiare una scusa per essere piombato nel cuore della notte a casa sua, Lee Bailey non chiese spiegazioni; gli disse solo: «Seguimi». E lui lo fece, grato.
Il grande lampadario di cristallo, sospeso al soffitto alto, illuminava a giorno l'atrio. La villa coloniale dei Bailey conservava l'antico splendore. Paul guardò ammirato le pareti in legno chiaro della balaustra e i pannelli dorati e intagliati delle porte-finestre. I mobili erano in stile Reggenza, con festosi arazzi d'Aubusson, stuoie persiane, lacche, giada e avori d'Oriente, marmi italiani e altri pezzi rari raccolti intorno al mondo che abbellivano con gusto le stanze. I soldi della famiglia venivano dalle piantagioni che un tempo avevano posseduto. Dagli schiavi, pensò Paul, con un moto di disgusto.
Lunghi corridoi si protendevano in opposte direzioni dallo spazioso ingresso, conducevano alle ali del palazzo. Alla sinistra c'erano gli appartamenti di Lee che comprendevano la biblioteca e lo studio dove lavorava, un soggiorno, la camera da letto e una stanza da bagno.
Le camere del resto della famiglia Bailey - di cui Lee era rimasto l'unico esponente - erano sopra le curve scale, sulla destra, ben lontane dagli appartamenti del proprietario. Paul si sorprese di sapere che Joseph era stato ospitato lì. Gli antenati del padrone di casa sarebbero inorriditi al pensiero, ma Lee era un uomo 'diverso'.
Prima di raggiungere la camera, dovettero attraversare il salotto, dove le pareti tappezzate di stoffa marezzo di un caldo color crema si armonizzavano con le sfumature marrone delle sedie e del divano. Un lussuoso arazzo d'Aubusson combinava tutti i colori della stanza in un gradevole insieme. Ricca seta color avorio ricopriva le pareti della camera da letto. Sul pavimento era steso un tappeto di varie tonalità del beige. Un baldacchino di seta avorio sormontava il largo letto, su cui il corpo nero e fasciato di Joseph spiccava.
«Se avete bisogno di qualcosa, sono al piano di sotto. Il medico gli ha somministrato della morfina per il dolore, ma non dovrebbe aver riportato danni gravi, mi ha detto», gli sussurrò Lee, prima di uscire dalla stanza.
Gli occhi socchiusi di Joseph si aprirono confusi, li strizzò per mettere a fuoco chi era arrivato. Quando capì che si trattava di lui, scostò le coperte e si alzò; aveva anche la gamba destra fasciata, oltre al petto, constatò Paul. Tentò di avvicinarsi, ma si arrestò e poi ricadde sul letto. La gamba gli faceva male e gli mandava fitte di dolore in tutto il corpo. Si massaggiò l'anca e la coscia per calmare le pulsazioni. Fu Paul allora ad avvicinarsi. Allontanò la mano del ragazzo e prese a carezzarlo con delicatezza. Sotto le sue tenere attenzioni, Joseph si addormentò di nuovo.
Paul si sedette sulla poltrona accanto al letto e aspettò. Non aveva fretta, voleva restare lì, con lui. Ne osservò i lineamenti tumefatti e, nonostante le sciupature, li trovò belli come sempre. Era giovane e... delicato, il suo Joseph. Suo. Una lacrima gli scivolò furtiva dall'occhio. Portava su di sé la colpa di averlo fatto ridurre così. Non era stato in grado di proteggerlo. E la prossima volta? No, non ci sarebbe stata. Nel silenzio della stanza, interrotto solo dal respiro affannoso di Joseph, l'orribile verità rialzò di nuovo la sua mostruosa testa e il dolore gli impedì di nascondere ciò che aveva sepolto in quelle ore, da quando aveva saputo dell'aggressione. Avrebbe voluto chiudere gli occhi come a volere dimenticare.
Joseph li aprì proprio in quel momento. «Mi... mi riprenderò... non c'è bisogno di piangere.»
«Non sto piangendo...», si premurò subito di contraddirlo, asciugandosi con il dorso della mano le lacrime che gli bagnavano il volto.
«Tipico...» sussurrò Joseph.
Paul Bosco era intelligente. E bello. E centomila altre cose in cui, Joseph doveva ammetterlo, nessuno riusciva neanche lontanamente a eguagliarlo. Aveva però un grosso difetto, e non era il fatto di nascondere la sua vera natura e condurre una vita finta. Ciò era inevitabile, visto come venivano trattati gli omosessuali. Certo, Paul era bianco e ricco e, magari, non avrebbe rischiato la vita se si fosse venuto a sapere, come invece sarebbe successo a lui; venire appellati con "schifoso", "invertito", e tante altre parole simili da chi ti circonda, e un tempo diceva di volerti bene, sarebbe stato comunque doloroso. Divenire un reietto in una società che ti aveva sempre osannato come uno dei suoi gioielli, poteva portare anche alla morte. Un tipo di morte diversa. Ma oltre a tutto ciò, Paul non era capace di gestire l'emozione. Per niente. Lui era sempre scappato davanti alle difficoltà... pur restando immobile. Poteva restare seduto proprio di fronte a lui e annuire e parlare, ma quando le emozioni diventavano troppo forti per lui, usciva dalla propria pelle. Se ne andava e basta. E se cercavi di costringerlo ad affrontarle? Beh, era impossibile.
Nessuno poteva costringere Paul Bosco a fare alcunché, eccetto la madre. Quella madre insuperbita dal fatto che il suo secondogenito si era fin da ragazzo dimostrato pieno di talento, perspicace e sagace. Inoltre era amabile e discreto, dolce nei modi di fare e si rivelò anche un bravo studente, precoce, saputello, con la dedizione di un santo. Fu sempre il migliore della classe. E, come se non bastasse, era davvero bello. L'errore fu di non dare peso alle imperfezioni latenti sotto una facciata tanto impressionante. Perché le virtù che il figlio esibiva non sembravano renderlo felice. Oh, sì, certo, c'erano motivi per essere infelice: la famiglia pretendeva da lui uno standard molto alto e lo avrebbe trattato come una sciagura al minimo segno di umana imperfezione. Figurarsi se avesse confessato di essere frocio e amante di un negro!
Quali che fossero gli agenti stressanti, alla fine della fiera Paul sarebbe scappato da tutto ciò che era troppo complicato o che gli creava obblighi. Ecco perché aveva ceduto solo quando pensava che lui stesse dormendo; ecco perché ora si era asciugato con stizza le lacrime e aveva messo su il viso delle occasioni mondane, quelle in cui si faceva ritrarre accanto alla moglie, con cui non aveva mai diviso il letto, ma che era donna, bianca e cattolica e questo non gli creava alcuna difficoltà con la famiglia e il mondo. Una moglie pure accomodante, a cui non importava sapere se il marito passava il tempo con uomini o donne, bianchi o neri. A lei bastava poter fare la stessa cosa, senza recriminazioni di sorta. Che bella coppia! Ipocriti fino al midollo. Ecco perché, tra qualche istante, Paul avrebbe pronunciato la frase per mettere fine alla loro relazione.
Joseph sapeva, come lo sapeva Paul, quale fosse la vera causa dell'aggressione subita. Uno degli energumeni, prima di cominciare a pestarlo, gli aveva detto: «Arturo Bosco ti manda i suoi saluti». Non era stato aggredito perché nero, ma perché se la faceva con Paul. Joseph non voleva rinunciare a lui, a costo della vita. D'altronde essere nero e omosessuale metteva in ogni caso la sua vita continuamente a rischio. E se doveva morire che fosse almeno per un buon motivo, e Paul lo era. L'amore è sempre un buon motivo.
***
La vita dovrebbe essere come un calendario, pensava Tabitha, mentre prendeva in mano il violino. Ogni giorno bisognerebbe poterne strappare una pagina per iniziarne un'altra bianca. E invece la vita è come uno strato geologico. Tutto si accumula, tutto influisce. Tutto contribuisce. E il temporale di oggi può scatenare il terremoto di domani.
Spiragli di luce filtravano dalle tende e graffiavano il pavimento per ricordarle che fuori c'era una giornata da vivere. Il pensiero di uscire invece di suonare non le passò nemmeno per la mente. La musica era l'unica cosa che dava pace al tumulto del suo animo adolescente.
All'inizio, quando Fabrice si era trasferito al piano di sopra, non le parlava quasi; lei, invece, ne fu da subito affascinata. Era così bello... così bello. Non lasciava indifferente nessuna. E non se ne curava. Ciò che conquistò Tabitha definitivamente fu però sentirlo suonare il pianoforte.
Se lui era in casa e suonava, lei usciva sul pianerottolo o, sempre più spesso, si avventurava fino alla porta dell'appartamento di lui. Un pomeriggio l'aveva colta in flagrante.
«Cosa ci fai qui?» le aveva chiesto, perplesso.
«Ti ascolto suonare» gli aveva risposto. Era stato grazie a Fabrice se lei aveva imparato prima ad ascoltare musica e poi a suonarla.
Prima dell'arrivo dell'affascinante vicino, in casa Baker non si conosceva la musica classica. Ma dal giorno in cui Fabrice si installò al piano di sopra, essa si mescolò all'aria, al profumo di sua madre e agli aromi di spezie e fritture provenienti dalla cucina. Un sottofondo perenne di note, e spesso Tabitha lungo distesa sul tappeto del salotto di Fabrice a sentirlo suonare. Presto diventò la sua cocca.
E quando gli comunicò: «Voglio suonare il violino», lui si fece in quattro per trovarle un maestro, uno strumento e, soprattutto, convincere i genitori a farle seguire la sua passione.
La musica divenne il linguaggio comune di entrambi. Fu così che tutti i problemi, le storie e i sentimenti che lei provava cominciarono a confluire in essa.
Con gli accordi nelle orecchie e il petto sfinito da un'attesa, che sapeva vana, chiuse gli occhi e attraversò da un'estremità all'altra la vasta regione della nostalgia. A occhi chiusi non si poteva piangere. A occhi chiusi non si poteva vedere che la stanza era vuota, lui era di sopra con addosso ancora il profumo della donna che probabilmente amava e che gli avrebbe spezzato il cuore.
Nello stesso tempo le si aprivano i canali della memoria e le note vi si intrufolavano per andare a ballare con i suoi neuroni. E ritornava così a tutti i momenti passati con lui, ritornava a parlare con lui attraverso le note e non con la voce.
Fabrice si era svegliato di soprassalto, riemergendo da un sogno informe e appiccicoso, che gli lasciò a malapena una traccia nella memoria inconscia. Confondeva le immagini del sogno con quelle che aveva vissuto durante la notte. Come lui era stato lei, e lei era stata lui.
Si lavò e vestì in fretta. Voleva sincerarsi delle condizioni di Joseph e della situazione al Louisiana. Chissà se potevano riaprire quella stessa sera. Il locale non aveva subito danni, ma il fatto che erano intervenuti gli sbirri avrebbe tenuto lontano gli avventori più prudenti.
Prima di uscire diede un'ultima occhiata al letto sfatto, vedeva ancora il corpo di lei, che invece era andata via qualche ora prima, mentre lui dormiva. Il candore lunare e argentato della sua pelle contro il bianco concreto della stoffa delle lenzuola. La sua schiena: il chiarore perlato, il sapore salino. Come si era smarrito nella luminosità verdognola che cancellava il tempo, come bruciava il sangue silenzioso!
Quanto aveva baciato e quanto aveva desiderato baciare, come lei era diventata materia e voce del desiderio.
Raccolse tre profilattici dal pavimento - lo sperma torbido e secco, sprecato e ormai morto, come ultima traccia del loro amplesso - e chiuse la porta senza far rumore, come se lei fosse ancora lì, addormentata nel suo letto.
Scese le scale, dolorante, i postumi della scazzottata e della passione si stavano facendo sentire, riportandolo alla realtà.
Si fermò sull'ultimo gradino quando le note dell' Adagio, molto appassionato di Mendelssohn lo investirono. Tabitha! Sparivano nelle pieghe delle sue mani il mondo e la concretezza, slavinava di bianco... colore di un'orma, che fu remota, e crebbe in un bosco fitto di note, neve, pentagrammi a passeggio, betulle. Si preparava per l'accordo finale. Musica che si accordava sempre al secondo movimento della sua sonata. Sorella di struggente malinconia.
Ah, musica con la tua eco di afflizione!
Bussò alla porta dei Baker, poco dopo Cheryl gli aprì.
«Come sta?» chiese subito Fabrice, prima che la donna gli riversasse addosso il solito fiume di parole.
«C'è bisogno che te lo dica? Non la senti?» gli rispose, scrollando le spalle.
«Posso parlarle... ieri non ci siamo lasciati benissimo.»
Cheryl gli lanciò un'occhiata interrogativa, prima di voltargli le spalle, diretta verso la stanza della figlia.
Bussò alla porta. Nessuna risposta. Prese un respiro ed entrò.
Tabitha la ignorò e rimise il violino in posizione.
«C'è Fabrice di là.»
Nessuna risposta. Poi con un moto di fastidio, la ragazza parlò: «Digli che non ho tempo, devo esercitarmi». E ricominciò a suonare.
Cheryl alzò gli occhi al cielo. Era la prima volta che tra i due c'era maretta e pensava di conoscerne il motivo. Una madre sa sempre tutto. O quasi.
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