Capitolo XLVIII
Fabrice guardava Louise e non poteva non pensare ad altro che non fosse il modo in cui le sue mani - le mani di un povero diavolo diventate per caso quelle di un pianista - l'avevano accarezzata; non poteva non ripensare all'intensa esplorazione dei sensi nei morbidi polpastrelli che l'avevano plasmata, temprata, suonata e raffinata, fino a cavarle dalla gola le note più acute, i gemiti più lunghi con cui culminavano sempre le sue sinfonie amorose.
Aveva tanto pensato a lei quando era così lontana e così vicina, quando erano separati solo dalla distanza intrusa che c'è tra due corpi divisi dalle lenzuola, e non poteva non pensarci anche in quel momento, mentre sentiva scorrergli nelle vene, ora come allora, un leggero calore innamorato.
Erano soli, sotto il cielo scialbo e distante dell'alba.
Fabrice non sopportava il modo in cui lei lo guardava. «Ti faccio paura?» si azzardò a chiedere.
Louise scosse la testa. Lui allora si sentì in dovere di aggiungere: «Non ho ucciso io Arturo Bosco».
«Lo so» rispose lei, aprendo lo sportello del passeggero. «Togliamoci da qui.»
Fabrice salì sulla Packard senza dire una parola. Louise guidò verso la periferia. Aveva la testa altrove e la destrezza al volante era una specie di pilota automatico. Non sapeva se ad agitarla di più fosse la vicinanza dell'uomo o il fatto che avrebbe dovuto dirgli la verità. Lo guardò di sottecchi e si chiese come avrebbe fatto a confessare all'uomo che aveva amato più di tutti il motivo per cui lo aveva lasciato.
Il verbo al passato fu uno schiaffo in pieno volto.
Tornò a guardare la strada mentre lui taceva. Era finita su Canal Street. Imboccò la prima traversa e si tenne sulla sinistra, girando intorno a una casa che sembrava disabitata; si diresse verso il parcheggio sul retro. Mise in folle, tirò il freno e scese dall'auto. Lui la seguì.
Fabrice si guardò intorno. «Anche la prima volta che ci siamo incontrati siamo finiti in un posto così» disse, indicando l'ambiente desolato.
Louise non seppe cosa rispondergli, si sentiva timida, la sua presunta disinvoltura era sempre stata imposta, niente altro che un tentativo di avvicinarsi a un mondo che non aveva mai capito fino in fondo. Non riusciva a trovare le parole con cui spiegare a lui cosa aveva provato. Avrebbe dovuto scrivergli una lettera, dopo aver confessato l'omicidio ed essere fuggita lontano. Una lettera che lo avrebbe informato di quanto le era successo dopo aver stabilito una certa distanza, quando la dichiarazione non avrebbe implicato più un desiderio di avvicinamento, ma sarebbe stata la semplice constatazione di un sentimento che era esistito, punto e basta.
«Di chi era il bambino che hai perso?»
La domanda di Fabrice arrivò violenta come uno schiaffo, la strappò dalle sue riflessioni e le tolse il respiro. Non poteva più rimandare. Lui era appoggiato alla fiancata dell'automobile, a pochi passi da lei, e la guardava all'apparenza in modo calmo, ma a Louise non sfuggì l'irrequietezza, a stento trattenuta, delle mani che nascose nelle tasche dei calzoni, appena si rese conto che lei le stava fissando.
«Chi te lo ha detto?» sussurrò.
Lui fece una smorfia. «Ha forse importanza?»
Louise si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli. Lui sembrò perdere la pazienza e si staccò dall'automobile, avvicinandosi di più. «Non cercare di rifilarmi la storia che era di tuo marito. So che non ti ha mai toccata da quando siete sposati o così dice lui. Mente per caso?» sputò fuori.
«Devo andare» disse Louise con urgenza disperata nella voce.
Aprì lo sportello, ma la mano di Fabrice con delicatezza la fermò. La domanda che voleva farle gli rimase in gola, bloccata da uno scrupolo di non - qui - non - ora e fomentata da una buona dose di allora - quando. All'improvviso capì che non era necessaria, in fondo conosceva già la risposta. Sospirò. «Voglio renderti le cose più facili: mi hai lasciato prima o dopo aver saputo di aspettare il mio bambino?»
Louise strinse le mani a pugno e conficcò le unghie nei palmi, fino a che il dolore andò al cervello. Alla velocità della luce. Sentì la fitta di dolore che la inondava interamente. Poté sentire il peso del vuoto, del cielo blu sul sangue rosso. Non le sembrò così orribile. Copriva, almeno, l'altro dolore. Il dolore che le suscitava la risposta alla domanda di lui. L'angoscia che la strozzava dentro. Il dolore che non sanguinava, quello che non si vedeva. Il dolore fisico però non durò molto.
«Sì... lo sapevo già» si arrese.
Il pugno di Fabrice si abbatté sulla fiancata dell'automobile. «Mi hai lasciato perché sei rimasta incinta?» chiese, indignato.
Lei aveva lo sguardo fisso sui suoi piedi.
«Louise!»
Era rimasta schiva, com'era sempre stata, talmente brava a evitare le risposte che finiva per conferire un significato occulto ai gesti più insignificanti.
«Cosa?»
«Ti ho chiesto se mi hai lasciato perché sei rimasta incinta.»
«Sì...»
Una violenta ondata di tensione si impossessò di lui e si rifletté nell'espressione della sua faccia. «Ti avevo fornito la soluzione per i tuoi problemi matrimoniali» disse, amaro. La voce gli uscì roca, se la schiarì. «Avresti fatto passare il bambino per figlio di Paul e...»
Louise lo interruppe con un secco: «No! Non ci sarebbe stato nessun bambino».
Fabrice batté le palpebre. Sembrava cercasse di conciliare i suoi pensieri con il no di Louise.
«Avevo già preso accordi per...»
«Volevi sbarazzartene perché era mio?»
La voce con cui formulò la domanda risultò spenta.
«No... Io ti ho amato alla follia. Ti ho amato come non avevo amato nessuno e come non ho amato più, e se fossi stata un'altra donna, con un passato diverso, non ci avrei pensato due volte a lasciare tutto e creare una famiglia con te...»
«Non raccontare bugie, non me ne ha già dette abbastanza? No, non volevi né me né lui... Potevi parlarmi e invece hai pensato bene di lasciarmi senza dirmi niente. Non ne avevi il diritto. Non avevi il diritto di farlo...» Terminò con un gemito.
Fabrice cercò di ricomporsi. «Io non ti ho mai mentito. E ora mi sento morire.»
In quel posto desolato, con il passato che appesantiva sempre di più l'atmosfera, la frase risuonò dentro di lei. «Ti prego, Fabrice, tu non puoi capire.»
Lui rimase immobile, la fissò, chiuse gli occhi e poi li riaprì, sgranandoli. Non era tanto l'espressione sconcertata quanto il silenzio spaventoso che calò all'improvviso a stringere il cuore di Louise.
In quell'istante si videro uno riflesso negli occhi dell'altra e presero fiato insieme, una boccata breve e concitata. Eccoli lì, uno davanti all'altra, con tutto quello che avrebbe potuto essere.
«Dimmi, era necessario, era giusto, era sensato che io finissi nelle trappole della tua vita, che dovessi affogare nelle tue stesse sabbie mobili?»
Poi inaspettatamente si avvicinò e le prese la mano. La strinse con forza tra le sue. «Da piccolo mia madre mi raccontava un sacco di fiabe. La mia preferita era quella in cui all'eroe venivano mostrate tre scatole perché ne scegliesse una. La prima conteneva una pietra magica che rendeva felice chi la possedeva; la seconda un anello; la terza un drago. Adesso che non sono più un bambino credo di aver alla fine capito la morale della storia. Quando sei un uomo e ti avvicini a una donna che ti desidera, ti ritrovi davanti a tre porte magiche: dentro la prima c'è il piacere; dentro la seconda, l'amore della vita; e dietro la terza, un mostro. E quando hai aperto la porta è troppo tardi per cambiare il tuo destino. E io, senza saperlo, ho scelto la scatola del drago, la porta dell'infelicità. Tutto qui.»
Louise trattenne la mano di Fabrice e rispose alla sua stretta. Le loro emozioni, addormentate da così tanto tempo, si erano risvegliate e rivivevano. Louise non poteva dire di essere stata innamorata di Fabrice. Perché lo amava ancora. Lo sarebbe stata sempre.
Quel preciso istante racchiuse tutto il tempo del mondo: la vita di entrambi. Louise poteva anche continuare a cercare per l'eternità, e non avrebbe ritrovato il tempo di Fabrice. Lui rappresentava qualcosa di strano, desiderabile, qualcosa per cui, in un dato momento, aveva lottato, e l'aveva prima conquistato e poi perso. Per sempre. Ma esisteva un altro tempo di Fabrice, meno preciso, più intangibile, racchiuso in quell'istante e proiettato nel futuro: perché lei Fabrice l'avrebbe sempre portato dentro di sé, anche se non l'avesse più rivisto.
Alzò gli occhi e si ritrovò quelli di lui inchiodati addosso.
«Quello che forse non capisci, Fabrice, è che non viviamo le storie, sono le storie che ci possiedono. E non sta a noi scegliere i finali.»
L'espressione di Fabrice si alterò. Aveva le labbra strette e gli occhi fiammeggianti di rabbia. Aprì la bocca come se stesse per parlare, ma non disse nulla, inspirò e basta, come se gli mancasse il fiato. Poi si staccò da lei all'improvviso e si allontanò di corsa.
Louise lo seguì con gli occhi attoniti, troppo stanchi per piangere.
***
In centrale, mentre la foto segnaletica di Fabrice Gautier lo fissava dalla cartelletta, Billy Rothe era sicuro che il ragazzo in questione con l'omicidio di Arturo Bosco non c'entrasse niente.
«Non mi convince» disse infine, spostando lo sguardo su Tommy Childe. Questi lo guardò a sua volta come se avesse perso il bene dell'intelletto.
«Billy, io non voglio sminuire il tuo intuito, ma anche il Procuratore non ha dubbi sulla colpevolezza di Gautier.»
Billy scrollò la testa. «Pellier è troppo coinvolto...» Lasciò la frase in sospeso.
«Non vorrai insinuare che si sia fatto corrompere?» replicò Tommy con un sussurro. Si guardò alle spalle per accertarsi che nessuno avesse sentito. A quell'ora il distretto era tranquillo, quasi tutte le pattuglie erano in strada. C'era solo qualche agente impegnato a esaminare scartoffie lontano dalla loro postazione.
«Non in quel senso. Ho scoperto che Gautier aveva una tresca con sua figlia.»
Dopo un attimo di confusione Childe prese la parola.«Mi chiedo come tu faccia a sapere sempre tutto!» esclamò, ammirato.
L'altro alzò gli occhi al cielo. «Faccio le domande giuste.»
Si alzò con fatica in piedi. «Gautier ha una sola colpa: gli piacciono troppo le femmine», guardò Childe in modo eloquente, come a fargli sapere che era a conoscenza che pure il suo collega aveva la malattia delle femmine. «E poi è pure un gran testardo. Sono sicuro però di poterlo convincere a collaborare con noi, sempre che non l'abbiano già ammazzato. Al momento risulta disperso» aggiunse.
«Allora bisogna trovarlo prima che qualcun altro arrivi a lui.»
«La morte di Bailey è stata accidentale, probabilmente miravano a lui.»
Childe assentì e prese posto alla scrivania lasciata libera da Billy. Picchiettò sul dossier. «E per il caso Bailey, come ci muoviamo, capo? Non abbiamo uno straccio di prova...»
Rothe si passò una mano sul volto. Con disgusto si rese conto di non essersi fatto la barba quella mattina. Sua moglie gli avrebbe fatto una bella lavata di capo, se fosse stata ancora viva. Ci teneva in modo particolare che lui si presentasse a lavoro sempre in ordine. Dall'inizio dell'anno, con tutti i casini successi, omicidi, agguati e robe varie, stava diventando sciatto. Si passò una mano sullo stomaco, doveva aver messo su pure qualche chilo. 'Fanculo! A chi importa se non mi faccio la barba tutte le mattine e ingrasso quando devo risolvere due omicidi e un'aggressione? E che un fulmine mi colpisca se non sono tutti e tre collegati!
«Farò fare un confronto alla ragazzina con gli uomini dei Bosco. Sto andando a casa dei Baker.»
Tommy abbassò lo sguardo sulla cartella che aveva davanti. «Capo, credi sia prudente pungolare i Bosco?»
«Starò attento. Conosco la fama di Luigi Giacalone.»
Billy si avviò verso l'uscita con la caratteristica andatura claudicante. Quando arrivò alla porta si girò. Childe era a capo chino, immerso nel dossier, le sopracciglia corrugate, le mani appoggiate sul tavolo. Aveva un'espressione ostinata sul volto. Non era molto intuitivo, ma era abbastanza determinato da volere scoprire la verità. A tempo debito lo avrebbe sostituito degnamente.
Billy Rothe aveva appena oltrepassato il portone del distretto, quando due agenti lo fermarono. «Capo Rothe!»
Sembravano piuttosto trafelati. Le loro facce non promettevano niente di buono: avevano le labbra serrate e gli occhi iniettati di sangue. Venivano di sicuro dal turno di notte.
«Cos'è successo?» domandò con una punta di aggressività.
Uno dei due, Kevin Fuller, imprecò prima di rispondere. «Capo, stanotte c'è stato un furto...»
Fu la volta di Billy di tirare giù dal cielo qualche santo. «Non posso occuparmi anche dei furti ora! Ho casi più gravi su cui lavorare.» Si stropicciò la faccia così forte da scartavetrarsi il naso.
«Il furto è stato al Pyro City Firework» disse l'altro, John Perry.
Billy alzò gli occhi al cielo. «Trovate qualcun altro che se ne occupi, io non ho proprio il tempo di rincorrere qualche teppistello del cazzo che vuole divertirsi con i fuochi il Mardi Gras!»
Fuller e Perry esitarono un momento, poi risposero all'unisono: «D'accordo, capo».
Li lasciò lì e arrancò verso la sua automobile, maledicendo il marciapiede disastrato. Aprì lo sportello e salì in macchina, ma prima di avviare il motore diede voce a un dubbio che gli era appena venuto: «Ma perché quei due sembravano così preoccupati? Dovevo fare qualche domanda in più. Qualche anno fa non sarei stato così superficiale. Sto proprio invecchiando». Con un sospiro chiuse lo sportello e costrinse il catorcio della sua auto a mettersi in moto.
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