Capitolo XLVI
Cheryl aspettava la figlia minore all'esterno del Lafayette Cemetery, vicino al passaggio ad arco che costituiva l'ingresso del camposanto. Quel giorno aveva abbandonato i vestiti eccentrici e indossava una gonna nera e una blusa verde scuro sotto il cappotto dello stesso colore. Aveva raccolto i lunghi capelli ricci in uno scomposto chignon.
Appena vide Tabitha si staccò dal muro e corse ad abbracciarla.
La morte di Lee Bailey aveva sconvolto tutti nel Quartiere, sua figlia in particolar modo.
«Chérie, come ti senti? Hai mangiato qualcosa prima di venire qui?»
Cheryl era uscita presto quella mattina, non aveva svegliato la figlia per la colazione, come faceva sempre, perché l'aveva sentita singhiozzare tutta la notte, così aveva preferito lasciarla dormire.
Tabitha si tirò indietro e ignorò la domanda. Gli occhi, gonfi di pianto, sembravano enormi nel viso dai lineamenti delicati.
«Perché?» singhiozzò. «Perché proprio Lee?» ripeté.
Cheryl si strinse nelle spalle. «Era un uomo troppo buono per questo mondo» sospirò.
Passarono sotto l'arcata di ferro. C'erano tombe su entrambi i lati. I viali formavano una croce. Cheryl non era sicura che fosse stato fatto di proposito, ma supponeva di sì.
«Jim mi ha detto che Fabrice è al sicuro. In un primo momento l'agente Rothe voleva riportarlo in carcere per sicurezza. Poi è intervenuto l'avvocato che lo ha dissuaso» spiegò con dolcezza alla figlia, guidandola verso sinistra. Oltrepassarono un grosso albero spoglio.
«Non riesco ancora a credere che Lee non sia più tra di noi... I Bosco devono pagare anche per questo...»
Tabitha tacque, mentre superavano un gruppetto di persone accalcate intorno a una tomba.
«Tabby, non abbiamo la certezza...»
Lei scosse la testa, i folti capelli che sobbalzavano, e superò la madre.
«No, però...»
«Però la situazione è già difficile così, confidiamo nella giustizia e che Fabrice si tolga da questa situazione.»
Cheryl le fissò la schiena. Era rigida. Il silenzio si protrasse più del dovuto.
Alla fine, Tabitha si voltò verso la madre. In mezzo a tutte quelle tombe fatiscenti e incolori, lei scoppiava di vita, ma mentre le restituiva lo sguardo era più pallida del solito.
«Devi avere fiducia.»
Ricominciò a camminare senza replicare, fino ad arrivare alla tomba che erano venute a visitare.
Lee Bailey era stato seppellito qualche giorno prima. Il terreno intorno a essa era infatti ancora fresco.
Un raggio di sole battè su un angelo in preghiera bianco perlaceo, quasi luminescente, scolpito al centro della lapide.
Tabitha si protese e vi fece correre le dita. Cercò di ricacciare indietro le lacrime e squadrò le tombe un tempo perfette, sbiadite in un grigio spento, lo sguardo che le sorvolava e si fermava su di una il cui rivestimento, del tutto sgretolato, metteva a nudo i laterizi consunti.
Quel posto emanava un fascino misterioso e triste, ma il cuore palpitava in modo doloroso mentre cercava di dare un senso a tutto ciò che era accaduto nell'ultimo mese.
Prima di rientrare a casa, Cheryl le chiese di accompagnarla dall'avvocato Givry, nel cuore del Garden Distric. Aveva un messaggio da consegnargli da parte di Jim. Con la morte di Lee e nessun erede diretto, il barista non sapeva proprio che pesci prendere con la gestione del Louisiana.
Givry viveva in una villa che risaliva a prima della guerra civile, un bellissimo edificio a due piani con quattro massicce colonne bianche che sostenevano l'ampia e asimmetrica veranda anteriore e una balconata al primo piano. Una recinzione in ferro battuto circondava la proprietà.
Cheryl aprì il cancello, che cigolò come un mucchio di vecchie ossa. Il vialetto era sempre stato pieno di crepe, cosa che lo faceva assomigliare all'intonaco rovinato dal tempo. Raggiunsero la veranda e le assi scricchiolarono, le due donne trasalirono.
Appese al soffitto, felci ipertrofiche ondeggiavano al vento che si era alzato.
Dopo un attimo di esitazione, Cheryl bussò. Non rispose nessuno. Strano, pensò. Non si vedeva in giro neanche la domestica, Dorcas.
Indietreggiò di un passo e si guardò intorno. Gli splendidi mobili in vimini erano disposti un po' a casaccio. Anche quella era una cosa anomala. L'avvocato e, soprattutto, la domestica ci tenevano all'ordine.
«Vado a vedere nel giardino sul retro» disse Tabitha. Era già stata lì molte volte da bambina, Cheryl e Dorcas erano amiche da tempo.
Seguì la veranda che girava intorno alla casa e scese i tre gradini che conducevano allo strepitoso giardino. Alberi da frutto e fiori profumavano l'aria anche in inverno. Ricordava quel luogo come un posto incantato. Contrariamente alle aspettative, però non trovò Dorcas inginocchiata a strappare erbacce o potare i cespugli, o l'avvocato seduto su una delle numerose poltrone imbottite o su una panchina con un libro in mano.
Il giardino era vuoto che più vuoto non si poteva.
Si girò per tornare sulla veranda, ma con la coda dell'occhio scorse un movimento improvviso che catturò la sua attenzione. Si avvicinò alla siepe rigogliosa, uno strano brivido le corse lungo la schiena. Le si accapponò la pelle quando vide dietro a un cespuglio l'inconfondibile sagoma di un uomo steso per terra. Fece un altro passo tremando, aveva la sensazione di essere osservata. Era talmente intensa da farle percepire una presenza fisica appena accennata dietro di lei. Il cuore le batteva all'impazzata. Si guardò alle spalle, ma non vide nessuno.
Quasi inciampò nel corpo dell'avvocato Givry. Si chinò e notò del sangue all'attaccatura dei capelli. Un lieve movimento del corpo le fece capire che era ancora vivo.
Sospirò di sollievo alzando la testa. Tutti i suoi muscoli si irrigidirono quando vide uno sconosciuto che la fissava. Pallidi occhi azzurri slavati. Capelli grigi e viso squadrato. Senza mostrare alcuna emozione, l'uomo alzò il braccio. Aveva in mano una pistola che le puntò addosso. Tabitha si raddrizzò del tutto e indietreggiò.
«Tabby, dove ti sei cacciata?»
La voce vicinissima di sua madre la fece voltare di scatto. Le urlò con quanto fiato aveva in gola di fermarsi, poi si girò verso l'uomo con la pistola e scoprì che non c'era più.
***
Antony guardava Giacalone parlare con l'agente Rothe vicino alla porta sul retro della villa. Di solito non perdeva occasione di impicciarsi, ma stavolta non gli importava niente di quella conversazione. Giacalone, Mister Non Sbaglio Mai, aveva ucciso per sbaglio Lee Bayles, un uomo che aveva il solo torto di fare del bene ai disgraziati.
Sua nonna era una iena. Gli aveva sbraitato contro perché non era riuscito a uccidere il vero bersaglio, l'amante di Paul. E ora Giacalone aveva toppato anche con l'avvocato di Gautier.
Qualche giorno prima aveva origliato la conversazione in cui Giacalone aveva sostenuto con Carmela la necessità di sbarazzarsi anche dell'avvocato, per lasciare Gautier completamente solo e in balia di qualche avvocato d'ufficio, facile da corrompere. La vecchia strega, manco a dirlo, si era fatta convincere con facilità. Era ormai tutta calata nella sua missione vendicativa.
«Antony!» Luke era di fronte a lui. Nessuna risposta. «Ehi» insistette.
Antony aggrottò la fronte. «Che c'è?»
«La signora Bosco ti vuole parlare. Ti aspetta in biblioteca» gli disse in tono cupo. Poi scoccò un'occhiataccia verso Giacalone e Rothe. «Quello sbirro non mi piace, sempre a ficcanasare.»
«Hai la coscienza sporca, Luke?» domandò.
«Fila dalla signora, moccioso del cazzo!» replicò l'uomo, aspro.
Ogni volta che Antony faceva il tragitto dall'ampio ingresso fino alle scale per il piano superiore rimaneva sorpreso dalla quantità di pietra lucida che c'era nella villa. Si domandava quante cave fossero servite per arredarla. E i mobili! Cristo, i divani e le poltrone parevano gioielli, rivestiti in foglia d'oro e seta dai colori sgargianti. Tutto questo luccichio non basta a nascondere il marcio delle persone che abitano qui!
Mentre si avvicinava alla biblioteca rifletté sul fatto che era la prima volta che sua nonna lo mandava a chiamare. Di solito non lo voleva in casa e le poche volte che lo incontrava, per caso, si limitava a ignorarlo.
Entrato nella stanza la vide subito, era seduta sulla grossa poltrona sotto la vetrata e lo stava fissando. No, lo guardava torva. Senza rivolgergli parola gli fece cenno di sedersi sulla sedia di fronte. Puntò gli occhi duri e rabbiosi su di lui, quasi infastidita non solo dalla sua presenza in casa, ma dal respiro stesso dei suoi polmoni e dal battito del suo cuore. L'espressione non le donava. Era invecchiata molto, in verità, dalla morte di Arturo. E quello non era l'unico cambiamento: aveva perso molto peso. Era pelle e ossa, il viso segnato da due guance scavate e una mascella troppo ossuta; gli occhi incavati erano offuscati, sopra e sotto, da ombre scure.
«Ho un lavoro per te.» La voce di Carmela riempì la stanza, sommessa ma dura. «Giacalone ha combinato un altro guaio.»
«Sta perdendo colpi» intervenne Antony.
«Non ti permettere!» Tremava di rabbia, minacciando di scoppiare da un momento all'altro come un palloncino. Seguì un lungo silenzio. Antony tossicchió e sembrò sforzarsi nel tentativo di tenere a freno la lingua per buona educazione.
«E quel poliziotto è sempre tra i piedi. Purtroppo non è corruttibile come alcuni suoi colleghi...» Carmela sembrava parlare tra sé.
«Che devo fare?» chiese Antony, inarcando un sopracciglio.
Carmela spostò lo sguardo su uno scaffale zeppo di libri, come a scegliere le parole con cura. «Ho mandato Luigi a sistemare Givry, come sai, ma è stato interrotto e l'avvocato è ancora vivo. Non sarebbe grave perché Giacalone lo ha colpito alle spalle e lui non l'ha visto... Però la ragazzina sì» sbottò.
Si accorse di aver assunto una posa aggressiva, protesa in avanti. Si raddrizzò. «Hai l'occasione per dimostrarti utile per la famiglia. Togli di mezzo la ragazza. Tabitha Baker mi pare si chiami. Giacalone ti dirà dove trovarla.»
Antony si spazzolò via dalla giacca un invisibile pelucco. «Va bene. C'è altro?»
La porta della biblioteca si aprì in quel momento. Luigi Giacalone entrò nella stanza: stravolto, i capelli in disordine come se li avesse tormentati con le mani, gli occhi vitrei e cerchiati di rosso, il cappotto che pendeva sghembo. «Sei qui» disse ad Antony, la voce roca, dopo aver salutato con un cenno del capo la signora Bosco.
Carmela fece un gesto di noncuranza con la mano. «Alla ragazza ci penserà lui.»
Giacalone restò a fissarlo come se cercasse di leggervi dentro il futuro.
«Posso occuparmene io...» disse infine.
Carmela socchiuse gli occhi. «No, è meglio che tu non ti faccia vedere nel Quartiere. Cerca invece di rintracciare la tenutaria del bordello, sembra sparita nel nulla. Voglio che anche lei sia tolta di mezzo. Non voglio più aspettare.»
Giacalone spostò lo sguardo avanti e indietro fra lei e Antony. «Sarà fatto. Per quanto riguarda Gautier e il negro? Anche loro sembrano essersi volatilizzati...»
Carmela scrollò il capo e alzò una mano. «Una cosa per volta.»
«Con la morte di Lee Bailey, Gautier non ha più motivo di restare qui, potrebbe fuggire lontano.»
«Non provarci, è il momento di piantarla con le chiacchiere e fare come ti dico io. Gautier si presenterà al processo.»
L'altro esitò, non abituato a sentirsi apostrofare con quel tono. Poi disse: «Sì, signora».
Mentre usciva dalla villa con Giacalone accanto, Antony si sforzò di tenere a freno la lingua, non di certo per pietà verso il mastino, già mortificato a dovere dalla sua padrona, quanto perché non era stupido. Sapeva che tenersi buono l'uomo era l'unico modo per sopravvivere.
Giacalone si guardò indietro con espressione corrucciata, poi tornò a scrutare il ragazzo. Quando incrociò il suo sguardo, le labbra si aprirono in un sorrisetto maligno. Un secondo dopo lo afferrò per il bavero della giacca e lo strattonò. Antony oppose resistenza, ma la pressione sul collo rendeva difficile respirare. Un gomitolo di panico gli s'insediò alla bocca dello stomaco, pesante come un macigno. Si aggrappò alle grosse mani dell'uomo di riflesso.
«Lotti pur sapendo che è inutile.»
Giacalone allentò la stretta. L'aria tornò a scorrere nella gola di Antony e il panico fu domato. «Non credere che sia cambiato qualcosa per te, bastardo!»
Antony cercò il il suo sguardo, ma si rifiutò di replicare.
L'altro inarcò un sopracciglio e si sporse in avanti, sfiorandogli l'orecchio con la bocca. «Impara a stare al tuo posto o te ne pentirai.»
Antony si girò dall'altra parte. «Ha deciso tutto lei, io non c'entro nulla.»
«Ah, no? Secondo me, invece, sei stato tu che hai cercato di farmi le scarpe... Non ci riuscirai.» Ancora una volta Antony non replicò.
Fuori dalla porta fu investito dall'aria fredda. Scese in fretta i gradini e si fermò sotto un raggio di sole che filtrava dalle fronde degli alberi che adornavano il viale. Chiuse gli occhi e inspirò, cercando di fare ordine nei pensieri. C'era un profumo intenso e terroso simile a quello dell'erba tagliata.
Quando li riaprì vide Billy Rothe venirgli incontro e fissarlo.
Si girò per cercare Giacalone, ma questi non c'era già più.
«Ragazzo, cercavo proprio te!» esordì il poliziotto.
«Be', mi hai trovato» commentò atono.
Calmo, freddo, razionale. Furbo come una volpe, e per niente codardo.
Billy Rothe aveva il dono di capire le persone al primo sguardo. Era raro che si sbagliasse. «Mi dicono che sei uno che sa il fatto suo...»
Antony si strinse nelle spalle. «Così dicono.» Un'ombra gli passò sul volto.
«Mi dicono anche che la notte di Capodanno sei uscito subito dopo il signor Bosco.»
Antony ghignò. Poi fissò gli occhi scuri su Rothe, l'aria di colpo greve. «Senza offesa, capo, ma come investigatore fai un po' schifo.»
«Non è vero?» gli domandò di colpo.
«Verissimo. Ho seguito mio padre. Mi annoiavo. Quando ho visto dove era diretto sono tornato indietro.»
Tacque e restò immobile. Billy si massaggiò il mento. «Tutto qui? Un ragazzo, giovane come te, non era interessato a farsi un giro al bordello?»
Antony non represse una smorfia di disgusto. «Quel tipo di merce non mi interessa...»
«Quindi lo hai seguito senza un preciso motivo e poi sei tornato dritto a casa?» Aggrottò la fronte: non era convinto.
«Proprio così.»
«In che rapporti eri con Arturo Bosco?»
«Era mio padre, mi ha preso con sé da quando avevo dodici anni.» Il tono era sempre neutro, neanche l'ombra di un'emozione. Un perfetto assassino, si ritrovò a pensare Billy. Eppure non aveva un movente valido, anzi Antony Hughes era quello che più aveva perso dalla morte di Bosco.
«Tua madre?»
«Mai conosciuta.»
Rothe resistette all'impulso di prendere a pugni qualcosa. Il piccolo bastardo era di ghiaccio, ma lui non si sarebbe fatto abbindolare. «Non volevi bene a tuo padre.»
Pur non essendo una domanda, Antony confermò subito. «No. Il giorno che troverai qualcuno, oltre a sua madre, che gli voleva bene, fammelo sapere, capo.»
Billy scosse lentamente la testa. «Non finisce qui, ragazzino» sussurrò, prima di voltargli le spalle e zoppicare verso il punto in cui aveva lasciato l'automobile. Imprecò contro le inutili siepi che lo costringevano a fare un giro più lungo per raggiungere la meta.
«Bivio» significa che devi scegliere se andare a destra o a sinistra, rifletteva Antony, mentre seguiva con lo sguardo l'auto della polizia allontanarsi. Quando arrivi a un bivio, per definizione, devi scegliere una strada, perché dritto non puoi andare: entri in una strada nuova o rimani su quella vecchia. Sorpassi un'auto o rimani indietro per stare al sicuro. Acceleri oppure ti butti sul freno. Alcune di quelle decisioni non erano importanti. Altre, a tua insaputa, ti portano sulla rotta di un automobilista ubriaco o te ne allontanano.
Nel caso di Antony, obbedire all'ordine di sua nonna era l'equivalente di una svolta a destra che lo avrebbe portato fuori dalla traiettoria di un grosso mezzo di trasporto che stava per perdere aderenza su una strada ghiacciata. Quella decisione gli avrebbe cambiato la vita o, con più probabilità, ne avrebbe decretato la fine.
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