Capitolo VI
Stava facendo giorno su Bourbon Street. Il cielo si gonfiava lentamente, arrendendosi al bianco, ancora velato da una sottile garza arancione.
Gli occhi di Tabitha ignoravano ciò che stava accadendo lassù, erano intenti a guardare in basso la solitaria figura maschile che si stringeva nel soprabito, come a scacciare un freddo intimo e pungente che solo lui percepiva. Le falcate lunghe e sicure le fecero tirare un sospiro di sollievo: non era ubriaco, come era successo nell'ultima settimana ogni volta che era rincasato. E se non si era stordito con l'alcool, voleva dire che lo aveva fatto con altro, il sesso. All'altezza dello sterno sentì una fitta.
Tabitha Baker, a sedici anni, aveva due grandi passioni: la musica e Fabrice Gautier. Desiderava l'uomo da quando si era presentato a sua madre per l'affitto dell'appartamento al piano di sopra. E se, per caso, veniva a conoscenza delle sue storie d'amore, sentiva crescere in lei una specie di tonante vortice interiore, un miscuglio di gelosia ed eccitazione. Gli occhi verdi di lui sembravano inviarle oscuri messaggi senza parole che lei cercava di decifrare come una bambina diligente. Lo guardava e sentiva che il desiderio le lanciava una palla invitandola a giocare con Fabrice. Ma lo trovava sempre intento a guardare altrove con occhi avidi.
Da quando lo conosceva, lui aveva avuto una relazione dopo l'altra. Era come se volesse contare sul vantaggio di sentirsi sentimentalmente sicuro, dal momento che aveva sempre qualcuno disposto ad amarlo o a desiderarlo; e sullo svantaggio di sapere che la sua dipendenza, nei confronti delle donne e - supponeva - del sesso, cresceva di giorno in giorno. Non sapeva vivere da solo; ma forse non voleva neanche vivere in coppia, perché le donne che attiravano la sua attenzione, per un motivo o per un altro, erano tutte sbagliate.
Fabrice, che all'apparenza era tanto indipendente, non poteva fare a meno degli altri. (E gli altri non potevano fare a meno di lui, Tabitha compresa). Perché non concepiva la vita se non in coppia: non stava mai solo. La viveva secondo le proprie idee. Appianava le differenze a forza di sesso. Negoziava tutti i suoi rapporti facendo l'amore. Il suo corpo era una sorta di moneta di scambio.
Tabitha era vergine e credeva che un giorno, se fosse arrivata a fare esperienza, sarebbe stato come una sorta di evento miracoloso che le avrebbe dischiuso le porte della percezione. Fantasie di un'adolescente, troppo matura per la sua età, ma ancora acerba per la maturità.
Persa in riflessioni amorose, non si accorse che lui aveva alzato gli occhi verso la finestra dove stava lei che, come scottata, appena se ne ne rese conto, si tirò indietro.
Si rintanò in cucina, dove trovò la madre intenta a trafficare alla stufa. Dal profumo delizioso che si sprigionava dal tegame, capì che stava preparando granchio e uova al bacon pralinato. Segno che era di buon umore. La donna alzò lo sguardo dal cibo, concentrandosi su quello della figlia.
«Che c'è, Tabby?»
Scrollò le spalle. «Niente. Non ho dormito molto stanotte.»
Lo sguardo indagatore di Cheryl si fece più acuto.
«Pensieri?»
Tabitha sbuffò, e si passò una mano tra i capelli spettinati. «No» ripeté con più decisione.
«Sei nata di giorno, hai la Sorte scoperta. Non riesci a nascondere niente, soprattutto a tua madre» concluse con una certa soddisfazione, togliendo la pietanza dal fuoco. La suddivise diligentemente in due piatti, poi li portò al tavolo al centro della stanza.
Tabitha si sedette su una delle tre sedie che stavano intorno. Un tempo erano state cinque, ma le sorelle maggiori si erano tutte sposate e andate ad abitare per conto loro. Le mancavano.
«Grazie, ma'...»
Mangiarono in silenzio. Tabitha non voleva che la madre tornasse a indagare sul malumore che le aleggiava sul volto. Non aveva intenzione di confessarle di avere una cotta per l'inquilino del piano di sopra. Aveva una dignità, lei! Fabrice non l'avrebbe mai vista come una donna e non voleva rendersi ridicola con nessuno, tanto meno con chi l'aveva messa al mondo. Cheryl l'aveva sostenuta e appoggiata per tutta la sua giovane vita, non voleva deluderla. Alzò il viso dal piatto e la guardò con affetto.
La madre se ne accorse, smise di mangiare e le fece una carezza sulla guancia. «La mia ragazza giudiziosa...» sospirò.
«Merito di tutti quei pianeti in Bilancia quando sono nata!» ironizzò.
La donna roteò gli occhi. «Sempre a prendermi in giro... ma il tema natale ha la sua importanza!»
«Sì, sì... vallo a raccontare ai tuoi clienti che si bevono ogni cosa che dici.»
Finirono la colazione tra facezie varie, poi Tabitha l'aiutò a sparecchiare.
***
Tabitha camminava lungo Jackson Square a passi veloci. Il cielo era coperto da grossi nuvoloni gonfi di pioggia che presto sarebbe caduta; le strade non erano neanche affollate come al solito. La lezione di violino del pomeriggio era stata snervante. Il vecchio Luke Diallo era insopportabile e la caratteristica voce nasale con cui si divertiva a riprenderla l'aveva più volte spinta sull'orlo di una crisi di nervi. Per non parlare degli scappellotti che arrivavano fulminei sulla nuca quando sbagliava qualche passaggio o quando il quarto dito non riusciva a cadere tondo, ma assumeva una curva verso l'interno. Allora la voce stridula del maestro ripeteva più volte è storto!, e un attimo dopo arrivava lo scappellotto. Si era convinta che la odiasse in quanto femmina. Gli altri allievi erano maschi e, quando le capitava di incontrarli, al cambio delle lezioni e scambiarci quattro chiacchiere, non facevano che tessere le lodi del maestro e dire quanto fosse eccezionale e comprensivo. Perché a lei fosse capitato il gemello cattivo era un mistero! O, più semplicemente, il buon vecchietto aveva mal digerito le pressioni che Fabrice e, soprattutto, Lee Bailey gli avevano fatto affinché la prendesse come allieva. Il proprietario del Louisiana era molto rispettato nel Quartiere Francese e nessuno, se chiedeva un favore, glielo rifiutava. Lee aveva aiutato molte persone, Fabrice per esempio, e anche lei. Non sarebbe riuscita a raggiungere un adeguato livello di preparazione per tentare di entrare nella scuola in Ohio senza le lezioni private di quel brontolone di Diallo, nonostante fosse palese che non la potesse vedere. Fabrice invece sosteneva che il maestro pretendeva di più da lei perché era la più dotata di tutti.
Arrivata in Decatur Street, lanciò un'occhiata verso il Cafè du Monde. Sulla veranda esterna, dominata dai colori bianco e verde, seduto a un tavolino in marmo, Fabrice Gautier guardava il cielo con aria persa. Indecisa se raggiungerlo con la scusa di un beignet e un café au lait, o resistere alla tentazione e tornarsene in fretta a casa, Tabitha non si accorse che una lussuosa A-68 Roadster V8 nera si era fermata a un metro da lei.
«Tabby!»
Si girò verso l'uomo bruno e massiccio alla guida dell'auto. Il sorriso sul viso apparentemente gioviale non le ispirava nessuna fiducia. Era Maurice, l'amico di Fabrice. L'uomo scese dall'auto.
«Che ci fai in giro, sta per scoppiare un temporale... Perché non sali, ti accompagno a casa.»
Lei detestava il tono untuoso con cui le parlava. «Sbaglio o stai lavorando?» ribatté, notando che il sedile posteriore dell'auto era occupato. Lo sapevano tutti nel Quartiere che lui era l'autista di Donny Ryan, un pezzo grosso della malavita che faceva il bello e cattivo tempo a New Orleans. Frequentava poco il Quartiere Francese, ma oggi era uno di quei giorni sfortunati in cui gli affari lo portavano lì, pensò Tabitha. «Casa mia, come sai, è a due passi da qui» aggiunse.
L'uomo seduto in auto disse qualcosa a Maurice.
«Il Signor Ryan avrebbe piacere di fare quattro chiacchiere con te, Tabby.»
Il modo in cui pronunciò il suo nome le fece rizzare i capelli in testa.
«Dì al Signor Ryan che sono spiacente, ma mia madre mi aspetta.»
Maurice rise. «Non farai tardi, Tabby, te lo prometto...»
Tabitha Baker era una sedicenne anomala per certi versi, era infatti dotata di un equilibrio e controllo eccezionali. Era raro che perdesse la pazienza o non cercasse di sedare qualsiasi tipo di conflitto. Insomma, era una diplomatica nata. C'era però una cosa che le faceva perdere la testa, trasformandola in un belva pronta alla lotta: la prepotenza degli uomini che credevano di poter avere tutto quello che volevano perché avevano deciso così.
L'insistenza di Maurice, sobillata - ne era sicura - dal capo che se ne stava comodamente seduto nell'auto lussuosa, aspettando che lei gli fosse consegnata dritta tra le luride mani, mandò in frantumi ogni parvenza di gentilezza ed educazione. Con la custodia del violino stretta al petto e il corpo tremante di rabbia gli disse: «Te lo ripeto per l'ultima volta, razza di idiota, non ho nessuna intenzione di salire sull'auto schifosa del tuo capo altrettanto schifoso!»
Sul viso dell'uomo passò un'ombra. Cadde la maschera di cordialità che aveva tenuto su fino a quel momento. L'afferrò per un braccio. «Stupida ragazzina, con chi credi di avere a che fare?!»
Dita crudeli affondarono nella carne di lei che non riuscì a trattenere un gemito di dolore. La paura pian piano sostituì il furore, cominciando a intorpidirle la mente; la consistenza dura del violino, stretto al petto, le fece riacquistare un po' di lucidità. Non se la sarebbe cavata come succedeva con i teppistelli di strada. Quante volte era tornata a casa con graffi ed ematomi, fiera per aver tenuto testa ai bulletti che davano il tormento alle sue amiche? Questo però era un uomo grande e grosso, non aveva speranza di combatterlo e sfuggirgli. Doveva chiedere aiuto e pregare che almeno una persona non si rifugiasse dietro il muro dell'indifferenza e della paura, facendo finta di non vedere. Urlò con quanto fiato aveva in gola.
Un attimo dopo il braccio fu libero.
«Cosa cazzo pensavi di fare? Come ti sei permesso di metterle le mani addosso?!»
Non aveva mai sentito la voce di Fabrice così arrabbiata. Era di fianco a lei, il corpo atletico teso e gli occhi verdi che brillavano feroci mentre dava un calcio allo stomaco di Maurice steso a terra. L'uomo si raggomitolò su sé stesso per proteggersi. Il cazzotto che Fabrice gli aveva dato, appena era arrivato, era stato talmente violento e inaspettato che era caduto a terra come un sacco di patate. E niente aveva potuto quando aveva continuato a infierire prendendolo a calci. Lo conosceva talmente bene da sapere che non si sarebbe fermato facilmente. «Ehi... volevo... solo accompagnarla a casa... »
Fabrice gli diede l'ennesimo calcio. Non aveva mai litigato con l'amico d'infanzia. Vederlo toccare Tabitha per costringerla a fare qualcosa che non voleva, aveva messo fine a un'amicizia durata vent'anni, senza possibilità di appello. Giravano voci nel Quartiere sulle "abitudini" del datore di lavoro di Maurice, sul fatto che gli piacesse circondarsi di ragazze molto giovani, e scoprire che lui l'aiutava ad adescarle gli faceva venire la nausea.
Mentre guardava con disgusto il suo ex amico a terra, lo sportello posteriore dell'automobile si aprì. Un uomo smilzo, stempiato e con baffi curatissimi, ne venne fuori e cominciò ad avvicinarsi. Istintivamente Fabrice interpose il corpo tra l'uomo e Tabitha, come a proteggerla da una nuova minaccia. L'uomo fece il gesto di togliersi un pelucco dal doppiopetto grigio, poi guardò Fabrice quasi con indifferenza con gli occhi azzurri e infossati.
«Spera che sia in grado di guidare» disse, volgendo un'occhiata di disprezzo a Maurice ancora steso a terra, «altrimenti pagherai tu il suo sostituto. Detesto chi danneggia le mie proprietà» concluse.
Maurice intanto era riuscito ad alzarsi in piedi, un ematoma si stava già formando sulla mascella.
Donny Ryan cercò di adocchiare Tabitha, ma il corpo di Fabrice gli impediva la visuale. Fece un gesto di fastidio, poi si rivolse al suo autista. «Sbrigati, ho fretta!»
Bofonchiando scuse e lanciando uno sguardo astioso a Fabrice, questi raggiunse zoppicando l'auto.
Prima di entrare Donny si girò verso di lui. «Sei il pianista del Louisiana, vero? Se fossi in te mi impiccerei meno degli affari altrui e starei attento a... preservare le mani.»
Tabitha, che fino a quel momento era stata zitta dietro a Fabrice, come una furia lo sorpassò e urlò all'uomo: «Toccalo e ti mangio il cuore!»
I suoi occhi nocciola si scurirono per la rabbia.
«Tabitha!»La voce di Fabrice penetrò la cortina di furore che l'aveva accecata nel sentire la minaccia.
L'automobile partì e loro due la seguirono con lo sguardo finché non sparì da Decatur Street.
«Vieni tigre, ti accompagno a casa» le disse Fabrice guardando con rammarico il Cafè du Monde. Tanto Louise non sarebbe venuta, fu l'ultimo pensiero prima di incamminarsi verso casa con Tabitha.
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