Capitolo LI
«Ve l'ho detto, signori Baker, avreste fatto meglio a restare a casa nell'eventualità che la ragazza ritorni» disse Billy Rothe ai coniugi Baker. Quel pomeriggio, quando si era recato a casa loro per prelevare la figlia per un confronto, aveva scoperto che Tabitha Baker si era volatilizzata. Nonostante tutte le rassicurazioni sul fatto che i suoi uomini sarebbero riusciti a trovarla, Cheryl e Peter Baker l'avevano seguito alla centrale, dopo averla cercata inutilmente nei posti che era solita frequentare. Perlustrare il Quartiere Francese durante la parata del Mardi Gras si era rivelato, come prevedibile, un buco nell'acqua. Era stato come cercare un ago nel pagliaio. Se non fosse stato per il fatto che la ragazza in questione era l'unica testimone di un'aggressione, non ci avrebbe pensato due volte a liquidare la sparizione come una fuga d'amore. A sedici anni era una cosa piuttosto comune perdere la brocca per qualche bellimbusto e fare la cazzata di fuggire da casa.
Dopo ore di inutili ricerche Billy Rothe però cominciava a temere il peggio, anche se con i Baker, soprattutto con la signora Cheryl, più emotiva del marito, cercava di minimizzare e sosteneva ancora che la figlia sarebbe saltata fuori da un momento all'altro.
«Credo che fareste bene a tornarvene a casa. Appena avremo notizie sarete i primi a sapere» ripeté, spingendo i coniugi verso la porta.
«No» si affrettò a rispondere Cheryl. «Noi di qui non ci muoviamo.»
Tutt'altro che felice della caparbietà della donna, Rothe le indicò una fila di sedie all'ingresso della stazione. «Allora statevene buoni lì!»
Cheryl si sedette di malavoglia. Il signor Baker invece preferì restare un piedi. Benché fosse piuttosto magro, era evidente che la forma fisica fosse ottima. Il viso era duro e severo mentre si avvicinava alla moglie.
«Il nome di qualche 'amico' da cui non abbiamo ancora cercato? Magari al di fuori del Quartiere...» tentò di nuovo Rothe.
Cheryl si sentiva male. Erano ore che non aveva notizie della figlia e, nonostante si rifiutasse di pensare al peggio, l'ansia la stava divorando viva.
«Signora, mi sta ascoltando?»
Prima che la donna riuscisse a formulare una risposta, la porta che dava sulla strada si aprì, tre uomini entrarono nel distretto. Alto e biondo, Fabrice Gautier spiccava in modo quasi violento tra due uomini di colore. Rothe pensò che mai prima di allora due neri erano entrati di propria volontà nella centrale.
Uno dei due era un colosso, più alto di Gautier di cinque centimetri e molto più robusto, aveva due occhi nerissimi che sembravano scrutarti fino dentro all'anima. Il terzo invece, al confronto degli altri due, sembrava 'delicato', nonostante superasse il metro e ottanta.
«Fabrice,» disse Peter Baker «cosa ci fate voi qui?»
«Jim» rispose, indicando l'uomo più imponente, «ci ha detto che Tabby è scomparsa.»
I pensieri di Fabrice si accavallavano in testa, la rabbia lo accecava, l'incertezza sulla sorte di Tabitha lo paralizzava. Non sapeva cosa fare, quindi allungò una mano verso Cheryl e lei gli volò tra le braccia scoppiando in singhiozzi.
I presenti sembravano intimiditi e imbarazzati dallo scoppio di emotività della donna. Non Fabrice Gautier, impegnato a offrire il suo conforto.
Rothe si concentrò sull'uomo in questione. Mai come in quel momento gli era sembrato privo di filtri, di difese.
Quando lo avevano messo in prigione, Billy lo aveva osservato a lungo, ma non aveva capito granché. Si era spinto addirittura a esaminarlo nel rapporto con gli altri detenuti. Dall'alto della sua esperienza trentennale sapeva che guardarsi negli occhi è fondamentale in carcere. Dietro le sbarre, incrociare lo sguardo degli altri delinquenti equivaleva a dire il proprio nome. Chi era dunque Fabrice Gautier?
Esistevano cinque categorie principali.
I tossici avevano lo sguardo vacuo, di solito perché non controllavano i nervi ottici, come anche le ghiandole sudoripare, gli sfinteri e il sistema nervoso. Erano l'equivalente carcerario dei nani da giardino: tendevano a scegliersi un posto e a restare lì. Per lo più si tenevano lontani dai guai perché non provocavano nessuno, e i bersagli facili erano noiosi.
I pesci piccoli, invece, di solito spaventati a morte perché era la prima volta che se la vedevano con il sistema penale, avevano occhi simili a palline da ping pong, che saettavano di qua e di là senza posarsi troppo a lungo. Erano dunque i candidati perfetti per le prese in giro e gli insulti, ma in genere non per i pugni, perché al primo accenno di pericolo chiamavano i secondini.
Poi c'erano gli stronzi patentati. Con lo sguardo indagatore, sempre alla ricerca di qualcuno con un tallone d'Achille e pronti a tuffarsici sopra. Si accanivano su tutti e si divertivano a stuzzicare, però non erano pericolosi. Istigavano, ma poi mandavano avanti le teste calde: come i bambini al parco giochi, che rompevano i giocattoli e davano la colpa agli altri.
Le teste calde avevano gli occhi iniettati di follia e adoravano le risse. Bastava la minima provocazione e li vedevi esplodere. Tutto qua.
Infine c'erano i sociopatici veri e propri, quelli a cui non gliene fregava un cazzo di niente. Avevano lo sguardo ondivago degli squali che nuotano a una certa distanza, finché non puntano una vittima.
In mezzo a un campione rappresentativo di tutte quelle categorie, Fabrice Gautier era altro, non faceva parte di nessuna di esse. Rientrava in un insieme atipico: si teneva fuori dagli affari degli altri e si aspettava che loro ricambiassero la cortesia. E se non lo facevano? Be' trovavano pane per i loro denti. Ne aveva avuto la riprova il giorno in cui uno stronzo patentato aveva cercato di provocarlo. Lo aveva rimesso al suo posto con un paio di battute.
Era decisamente un duro, ma vederlo consolare la signora Cheryl, come neanche il marito era riuscito a fare, lo portò a pensare che avesse anche una sensibilità fuori dal comune e, soprattutto, non si vergognava di mostrarla.
Gli dispiacque molto interrompere il momento, ma doveva sbarazzarsi di tutta quella gente.
«Signora e signori, mi dispiace interrompervi ma, a meno che non vogliate confessare un crimine, ho bisogno che vi togliate di mezzo. State intralciando il nostro lavoro. Aspetteremo un altro po' e poi, con la speranza che le strade siano più sgombre, manderemo un'altra pattuglia. Appena sapremo qualcosa, vi informeremo.»
«Capo... noi volevamo essere di aiuto» mormorò Fabrice, mentre Cheryl si staccava dalle sue braccia e lanciava un'occhiata accusatoria a Rothe.
«Va bene» disse Peter Baker. Poi rivolto alla moglie: «Ti porto a casa, magari Tabby è già lì» aggiunse. Nel formulare la frase cercò di assumere un tono quanto più convinto possibile. Ma si vedeva benissimo che non ci credeva neanche lui.
Seguì un lungo silenzio, finché Cheryl parve rassegnarsi. Chinò la testa in avanti, annuì; alcune ciocche di capelli sfuggirono dallo chignon e le caddero sulle spalle.
Il gruppetto fece allora all'unisono un passo in avanti per uscire dal dipartimento, ma un agente scarmigliato si parò davanti a loro. «Capo Rothe! C'è stata un'esplosione!» gracchiò, col fiato corto.
«Cos'è successo?» chiese Billy. Si avvicinò al poliziotto e si impose una calma che non aveva. Era stufo di tutte le tragedie che da un po' di tempo si stavano susseguendo una dopo l'altra, senza lasciargli un attimo di tregua per capirci qualcosa.
L'agente deglutì prima di rispondere.
«La villa di Arturo Bosco è saltata in aria.»
Fabrice udì uno scalpiccio e delle voci concitate dietro di lui; qualcuno gli toccò le spalle. Jim.
Lui e Joseph, invece, rimasero immobili. Louise! Paul! Ecco cosa faceva la morte alle persone, pensò. Le immobilizzava nel mezzo della confusione della vita, le teneva isolate nel silenzio. Quando la morte arrivava, tutto cambiava. La gente e le cose continuavano a muoversi perché non si sapeva cosa altro fare... e il risultato era il caos. I vestiti mai indossati diventavano dei reperti che i parenti dovevano mettere in ordine tra le lacrime. Le vecchie lettere, i fogli scarabocchiati degli appuntamenti venivano riposti in una scatola in soffitta e lì dimenticati. Tutto si fermava. Niente era più come prima. E quando una persona cara moriva, anche tu sperimentavi la morte. Ti fermavi, ti staccavi per un po' dagli affetti della vita, e intanto una campana rintoccava nella mente e nel corpo. E siccome gli uomini erano dei gran rompiscatole, di solito il primo pensiero era: No, non può essere. Ma la vita non aveva un pulsante per riavvolgere il nastro, e di certo non si curava di quello che pensavi tu.
«Morti? Feriti?» chiese Rothe all'agente corpulento con capelli e occhi scuri che aveva portato la notizia.
«È presto per dirlo. La maggior parte dei dipendenti aveva avuto la serata libera per il Mardi Gras. Nella villa, secondo quanto dice l'autista, c'erano la signora Carmela Bosco, il braccio destro di Arturo Bosco, Luigi Giacalone, e il ragazzo con i capelli rossi, Hughes. Nessun ferito. Chiunque era nella villa al momento dell'esplosione, dubito possa essersi salvato. Appena gli artificieri ci daranno il permesso, cercheremo tra le macerie.»
Il sospiro di sollievo di Fabrice, quasi in sincrono con quello di Joseph, fu presto smorzato dal pensiero di Antony Hughes. Evelyn... Come avrebbe fatto a dirle che suo figlio le era stato portato via per la seconda volta?
***
Due agenti di polizia lo avevano svegliato nel cuore della notte per comunicargli che c'era stata una esplosione nella villa di sua madre. Incredulo, Paul si era lasciato trascinare lì. Mentre fissava la desolazione che aveva davanti - il fango impregnato di cenere che un tempo era un ruscello paludoso, il campo che una volta era il giardino, qualche fuocherello che si sollevava qua e là nel cratere che era stata Villa Bosco - si sentì parte di quel paesaggio come non mai.
Chiuse gli occhi gonfi, poi li aprì sbattendo le palpebre, disorientato. L'odore acre nell'aria era diventato insopportabile.
Qualcuno gli stava dicendo qualcosa.
«Cosa?» disse come un automa.
«Non può avvicinarsi di più, signore. Resti in zona di sicurezza.»
Stordito, fece di sì con la testa.
Con la coda dell'occhio intravide Frank che si avvicinava, inebetito quanto lui. Sentì allora forte l'esigenza di fuggire.
«Scusami...» sussurrò mentre lo oltrepassava per tornare alla sua automobile.
Non ricordava come fosse arrivato a casa. Si tolse i vestiti ed entrò nella vasca. Nell'acqua tiepida, si lavò più in fretta che poté. Ma aveva l'impressione di essere ancora ricoperto di cenere e di puzzare di fumo per quanto si sciacquasse. Perché oggi Villa Bosco era saltata in aria. Era successo solo da poche ore? Gli sembrava fosse passata già una settimana. Oggi è morta mia madre. Premette la guancia contro la parete di mattonelle sforzandosi di non piangere. Temeva che, se avesse cominciato, non sarebbe riuscito a smettere.
Barcollando e inciampando diverse volte, andò verso la stanza di Louise. La sua assenza divenne evidentissima, quasi avesse lasciato l'impronta del proprio corpo impressa nel letto che non avevano mai condiviso. Anche lei lo aveva abbandonato. Quella stessa sera, quando era tornato a casa da lavoro, aveva trovato un bigliettino. Addio. Perdonami, se puoi... Louise. Nient'altro. Si sentì più solo che mai. Fu allora che fu assalito dal prepotente e familiare mal di vivere che spesso gli aveva fatto visita durante i suoi trentacinque anni di vita.
Non riusciva a smettere di pensare a sua madre. Sentiva un freddo spaventoso nelle ossa e nel cuore.
Dopo un po', stanco di combattere contro le immagini di Carmela che il silenzio e il buio evocavano, si rivestì e uscì di nuovo di casa.
Mano mano che camminava per il Garden senza una meta precisa, conservava dentro di sé l'immagine di Carmela, come una conchiglia vuota che racchiude nella sua spirale il rumore del mare, ma non pensava più che la vita non valesse la pena di essere vissuta se aveva perso ogni suo punto di riferimento. Al contrario, una repentina brama di vivere si impossessò di lui, come se la sua angoscia si fosse dissipata, si fosse allontanata in punta di piedi senza fare rumore, proprio come il mese di febbraio che stava lentamente volgendo a marzo. Si era reso conto che con la scomparsa della figura materna si erano dileguati anche i lacci che lo tenevano ancorato a una vita di finzione. Il senso di colpa per non essere stato il figlio che lei avrebbe voluto rimaneva, ma poteva conviverci. Aveva voluto molto bene alla donna che lo aveva messo al mondo e gli aveva condizionato in mille modi l'esistenza, ma era giunto il momento di vivere la sua vita.
***
Fabrice aveva cercato, in lungo e in largo in tutto il Quartiere Francese, Tabitha senza alcun risultato. Solo al mattino aveva deciso di tornare dai Baker nella speranza che qualcuno avesse buone notizie.
Il sole era già alto e il vento aveva spazzato gli ultimi rimasugli di bruma. La gente stava tornando a riversarsi dai viali e dai vicoli.
«Fabrice!»
Si voltò e trovò Jim. «Vieni! È arrivato poco fa a casa dei Baker un biglietto. Lo ha portato un senzatetto. C'è scritto che Tabitha è sana e salva in un vecchio emporio qui vicino» disse, prima di mettersi a correre verso Jackson Square.
Fabrice non se lo fece ripetere due volte e lo seguì.
Quando arrivarono davanti all'edificio si guardarono in faccia, da entrambi traspariva il timore di ciò che avrebbero potuto trovare, nonostante le rassicurazioni contenute nel biglietto. La porta era chiusa, bastò una spallata di Jim ad aprirla. Fabrice entrò senza pensarci due volte.
«Aspetta!» gli sussurrò Jim, circospetto.
Ma l'altro non gli stava prestando attenzione. «Devo trovare Tabitha» rispose, diretto verso le scale.
«Aspetta...» lo chiamò di nuovo Jim. «Non hai idea di chi ci sia lassù.»
Fabrice non rallentò affatto. «E non lo saprò finché non ci arrivo.»
Senza altro pensiero che salvarla, arrivò in un baleno all'estremità del corridoio del piano superiore.
Spalancò la porta, pronto alla battaglia. Trovò solo Tabitha imbavagliata e legata a una sedia nella stanza illuminata dal sole.
Gemendo, si dibatteva e si contorceva come se fosse in fiamme. Terrorizzato che qualcosa non andasse in lei, Fabrice si precipitò al suo fianco. Gli occhi caddero sulle gambe ferite. Cosa le avevano fatto? Avrebbe dato la caccia e ucciso chi l'aveva toccata.
Non appena l'ebbe liberata dalla sedia, lei si avvinghiò a lui in una stretta simile a una morsa.
«Ciao, Tabby» le sussurrò con voce incerta, mentre le toglieva il bavaglio.
«Fabrice, dobbiamo andare...» disse con voce gracchiante.
«Sì, ti porto subito a casa.»
«No!» rispose lei, con gli occhi spalancati. «Devo trovare Antony! Dobbiamo andare a Villa Bosco... Forse non è troppo tardi» urlò.
Fabrice la guardò con occhi tormentati. «Tabby, calmati. Dimmi chi ti ha fatto questo.» Cercò di non perdere la calma mentre indicava le gambe della ragazza.
«Non c'è tempo da perdere... Ti prego, Fabrice!»
«Prima dimmi cosa ti è successo.»
«Antony ha fatto finta di uccidermi come gli avevano ordinato... Ora però temo abbia fatto qualche stupidaggine per tenermi al sicuro...»
Fabrice scosse il capo come se stesse cercando di svegliarsi da una trance. Strinse Tabitha tra le braccia. Lei si dibatté. «Dobbiamo andare... Antony...»
«È troppo tardi, Tabby. Villa Bosco è saltata in aria con tutte le persone che c'erano dentro.»
«No» soffiò lei. «Antony avrà trovato una via d'uscita...» sussurrò un attimo prima che il dolore le squassasse l'anima.
Mentre si allontanavano dal magazzino, Fabrice allungò una mano, prese quella di Tabitha nella sua e la tenne stretta. Le ossa di lei parevano così fragili nel suo palmo, eppure conosceva bene la sua forza. La sua grazia e determinazione. Guardò il viso ancora rigato dalle lacrime e gli occhi lucidi che parevano ancora più grandi tra i lineamenti delicati. E si sentì per la prima volta dopo tanto tempo in pace. Era stato così spaventato quando era scomparsa e, averla ritrovata, quasi incolume, lo aveva fatto riconciliare con la vita.
A corollario della pace ritrovata New Orleans si stagliava orgogliosa, enorme e coperta da un pulviscolo dorato. La Città della Luna Crescente mostrava il suo volto più dolce anche nel sole freddo di fine febbraio.
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