Capitolo IV
Tra il chiacchiericcio degli astanti e l'atmosfera fumosa del locale, Louise e Fabrice avevano cominciato a parlare di musica. La donna aveva scoperto che il bel pianista jazz aveva una discreta cultura musicale classica, trovava stucchevoli i compositori tedeschi, a eccezione di Beethoven che venerava, così come idolatrava quelli della scuola russa, Tchaïkovski, Musorgskij e altri che lei non aveva mai sentito nominare. Non capiva molto dell'argomento, ma le piaceva sentire la passione e la competenza con cui Fabrice ne parlava, faceva nascere in lei il desiderio di addentrarsi in un mondo fatto di note e discorsi musicali.
Poi, chissà come, erano passati a parlare d'amore, tema su cui lei si sentiva più preparata, almeno in teoria. Aveva letto da poco l'opera di un intellettuale del pensiero psicologico, di cui non ricordava il nome, che aveva confermato ciò che lei aveva sempre intuito. Così Louise spiegò a Fabrice cos'era l'impronta indelebile - imago le pareva si chiamasse - che una persona si porta dentro e che determina ciò che potrà amare in base a quanto ha già amato.
«Ci sono uomini che cercano nell'amata la figura materna; donne che impazziscono per uomini protettivi che ricordano il padre; e padri di famiglia che perdono la testa per ragazzini imberbi» gli sussurrò lei, come a rivelargli chissà quale scabroso segreto. «Abbiamo tutti questa imago» continuò, «ma nella maggioranza dei casi non siamo consapevoli di essere attratti sempre dallo stesso tipo, perché non sappiamo estrapolare la caratteristica che accomuna tutti i nostri amanti. L' imago rappresenta uno stato di carenza» concluse.
Se ne stette per un po' in silenzio, temendo di annoiarlo, ma l'attenzione negli occhi verdi da gatto di lui la incoraggiò a proseguire. «Per questo motivo, se ci sentiamo deboli, cercheremo chi possa ispirarci forza e se ci sentiamo stupidi, ci innamoreremo di chi ci suggerisce intelligenza.»
Fabrice intanto la guardava attentamente, soffermandosi ogni tanto su un particolare del viso, e allo stesso tempo beveva ogni parola che gli sussurrava con voce roca e accendeva ogni sua terminazione nervosa. Ed era così preso dalla donna che non riusciva a ricordare una simile a lei, per cui avesse perso la testa.
Certo, a lui piacevano le belle donne, inutile negarlo. In Louise però vedeva altro: un'intelligenza ancora acerba che anelava di essere affinata, una fame di conoscenza che lo attirava, una vitalità selvaggia che necessitava di trovare sfogo e una fragilità latente che faticava a contenere.
Nessuna delle donne che aveva avuto era come lei, tanto meno Amanda, per cui ancora stava male e che, a parte la bellezza, non aveva avuto niente di eccezionale. Eppure l'aveva amata.
Quindi obiettò di non avere una imago, di innamorarsi sempre di persone molto diverse, ma lei gli rispose sicura che ce l'avevano tutti, anche lui, anche se non lo sapeva, proprio come succedeva con i sogni, perché tutti sognavano, ma solo alcuni erano in grado di ricordare cosa.
Forse lui non era ancora riuscito a capire cos'era che lo faceva sentire attratto da qualcuno, e poteva essere rischioso, perché significava che non sapeva cosa stava cercando. Quest'ultima cosa, però, non gliela disse, così come non gli disse che lui era la sua imago, che lui incarnava perfettamente il tipo d'uomo che attirava in lei una risposta, che era la replica esatta di un lui primigenio che lei un tempo doveva avere amato e riassumeva nella sua persona le qualità di tutti gli altri uomini che aveva avuto: parlava con la voce di uno di loro, quella voce dolce e strascicata dalle parole spaziate che trasformava ogni sillaba in un luminoso inventario di ricordi; aveva la trascuratezza di un altro, con il suo mix di camicia aperta sul collo e capelli spettinati che lo faceva sembrare indifferente alle vanità terrene; e guardava con gli occhi di un terzo amante, con la stessa espressione vulnerabile di un cucciolo bagnato e svegliava in lei lo stesso istinto protettivo, che la spingeva a raccogliere gatti abbandonati per strada e riempirne i giardini di Villa Bosco. La carenza di Louise nasceva da una mancanza d'affetto che si portava dentro da sempre, che aveva impressa, marchiata a fuoco, e che cercava da sempre di riempire disperatamente, e per questo la sua imago era l'imago delle persone apparentemente deboli, quelle che avrebbero potuto avere bisogno di lei, che supponeva, pertanto, capaci di amarla.
Louise non aveva avuto il coraggio di spiegargli che lui le ricordava troppo l'uomo che aveva amato più di tutti, un Primo Lui che l'aveva attratta con il canto illusorio della sua imago, e che poi si era rivelato, quando gliela aveva strappata di dosso, uno dei suoi incubi peggiori.
Non poteva spiegargli che era proprio la somiglianza con quel Primo Lui a farle provare tanta attrazione e contemporaneamente tanta repulsione nei suoi confronti, non poteva dirgli che intuiva in lui una caratteristica che avrebbe potuto amare, una che avrebbe potuto anche farle molto male: che sentiva che lui era smarrito, anche se non sapeva dire né come né quando era successo.
Fu in quel momento che Paul Bosco si palesò. Fece un sorriso finto quando vide la moglie guardare un altro uomo con desiderio. Lei se ne accorse e si sforzò di tenere lo sguardo inchiodato al pavimento mentre i due uomini si presentavano; fissò qualsiasi punto nel locale che potesse distrarla da lui. Alla fine si stancò di guardare le cose sfuggendo con cura la paura di incontrarlo nel vuoto di qualsiasi spazio, di incappare nel suo profilo intravisto a tradimento. Cedette e, senza volere, lo sorprese a guardarla e allora improvvisò un sorrisetto di circostanza.
Stufa di quel gioco, disse a Paul: «Sono stanca!», e si avviò verso l'uscita, senza neanche un cenno di saluto. Camminò spedita finché si accorse di aver dimenticato la pelliccia. Stava per tornare indietro, ma vide Paul andarle incontro tenendola in mano. L'aiutò a indossarla.
L'aria fuori dal locale era fredda, con un brivido infilò le mani nelle tasche dell'indumento e toccò la sagoma inconfondibile di un biglietto di carta.
***
Fabrice aveva seguito con lo sguardo Louise mentre andava via. Paul Bosco si era accomiatato da lui educatamente e poi si era messo a parlottare con Jim, che evidentemente conosceva bene, era lui infatti che riforniva di alcolici il bar.
La pelliccia di lei era rimasta al tavolino a cui si erano seduti a parlare. Frugò nelle tasche dei pantaloni e trovò un mozzicone di lapis e un volantino pubblicitario del locale. Ci scribacchiò un indirizzo e un'ora, poi lo fece scivolare nella tasca del soprabito della donna, giusto un attimo prima che Bosco lo notasse e prendesse per consegnarlo alla moglie.
«Lo sai che ti stai mettendo in un bel guaio?»
La voce di Jim gli giunse nitidamente, anche se sussurrata. Fabrice si chiese perché tutti si sentissero in dovere di metterlo in guardia, prima Joseph, ora il barista.
«Perché?» chiese con tono provocatorio.
Jim alzò gli occhi al cielo. «È sposata con un uomo che ha alle spalle una famiglia 'impegnativa' e, se ciò non ti basta, è una sciupa maschi.»
Fabrice gli dedicò un sorrisetto ironico. «Grazie, mammina... Visto però come è andata a finire con la brava ragazza, penso sia il caso di cambiare tipologia di donna, non credi?»
Non diede tempo all'altro di rispondergli, si fiondò sul pianoforte e non si schiodò più di lì fino a chiusura, quando salutò tutti sbrigativamente. Per quella sera ne aveva abbastanza di paternali. E poi era certo che Louise non si sarebbe presentata all'appuntamento che le aveva dato per quel pomeriggio al Cafè du Monde.
L'alba del 21 marzo era quella di un giorno d'inverno che non voleva arrendersi all'arrivo della primavera. Fuori dal locale il freddo assalì Fabrice, riscuotendolo dalla stanchezza che l'ultima ora trascorsa a suonare gli aveva lasciato addosso. Si strinse nel soprabito ormai liso e fece per affrettare il passo, ma una voce conosciuta lo immobilizzò. Maurice gli si parò davanti.
«Dove credi di andare?» gli disse, afferrandolo per una spalla e regalandogli uno dei sorrisi contagiosi che spesso si dipingevano sui lineamenti affilati del volto dell'amico.
Fabrice lo guardò negli occhi scuri e capì che il riposo avrebbe dovuto attendere; tentò comunque una flebile protesta: «Sono stanco».
L'altro fece un gesto di noncuranza con la mano. «Madame ci aspetta.»
«Lee non mi ha ancora pagato... » tentò di obiettare ancora.
L'amico gli strinse un braccio intorno al collo scherzosamente. «Madame ha un debole per te, si accontenterà di quello che puoi darle» ribatté sornione.
Maurice Angelle era il suo migliore amico. Nati entrambi nei bassifondi del Quartiere Francese, avevano trascorso infanzia e adolescenza sempre insieme. A sedici anni erano entrati nella stessa banda e per qualche tempo avevano terrorizzato gli abitanti del Quartiere. Quando Fabrice, dopo l'incontro con Lee, aveva deciso di cambiare vita, l'amico non se l'era presa a male, anzi gli aveva detto: «Se avessi avuto la metà del tuo talento a strimpellare il piano, avrei colto al balzo anche io l'occasione».
Con lo scioglimento della banda, Maurice aveva continuato a vivere di espedienti, finché non era stato assunto come autista da un gruppo di 'uomini d'affari' che si occupavano di non si sa bene cosa, niente di onesto insomma. Fabrice non era un moralista, né tanto meno un ipocrita e sapeva bene che per quelli come lui e Maurice il crimine era spesso la via più facile per sopravvivere.
Ignorando il freddo – prima o poi doveva decidersi a comprarsi un cappotto nuovo – mise il braccio sulle spalle dell'altro, dirigendosi verso il locale di Madame, a pochi passi da dove si trovavano in quel momento.
Fino al 1917 La maison de May era stata gestita con tanto di licenza affissa alle pareti, alla luce del sole, come tanti altri bordelli in Basin Street, ma ormai era ridotta alla clandestinità. Dopo neanche cinque minuti, si trovarono davanti a un edificio che dall'esterno sembrava un cottage lasciato all'incuria del tempo. Maurice bussò tre volte a intervalli regolari alla porta e poco dopo una donna alta e dagli occhi dolci, le lunghe ciocche di capelli ramati che le incorniciavano i seni pieni e sodi, con la vita stretta e i fianchi larghi, aprì e si illuminò quando vide Fabrice.
Gli occhi ammalianti splendevano in mezzo a un bosco di ciglia e lo guardavano di sottecchi, come le ragazzine timide.
«È da tanto, Fabrice, che non ti si vede.»
I movimenti sinuosi (gesticolava molto nel parlare) sembravano in sintonia con le curve del suo corpo e con i lineamenti dolci: ovale arrotondato, labbra floride e sopracciglia a mezzaluna. Benché avesse già compiuto da qualche anno i trenta, nel viso non aveva neanche una ruga e la pelle, del colore del pane appena sfornato (punteggiata di lentiggini sul setto nasale), aveva conservato la freschezza e l'innocenza che normalmente vengono opacizzate già nell'adolescenza.
«Ho avuto un po' da fare... » le rispose con un sorriso. Bugiardo, si disse. Aveva avuto Amanda, sarebbe stata la risposta corretta.
Lei sbatté le palpebre fissandogli le labbra virili e ben disegnate. A quasi trentacinque anni Evelyn Walsh, figlia di immigrati irlandesi e conosciuta nel Quartiere come Madame, e una vita che la maggior parte delle persone avrebbe potuto giudicare 'dissoluta', era ancora sensibile al fascino dei bei ragazzi e Fabrice Gautier era in cima alla lista dei suoi preferiti.
Evelyn aveva ereditato il bordello da una prozia un po' matta e, dopo un'iniziale esitazione, dovuta più che altro all'illusione dell'amore e alla promessa di matrimonio poi infranta di un tipo che sembrava un bravo ragazzo, aveva deciso di abbracciare quella vita. Nonostante la chiusura del quartiere a luci rosse, era riuscita a mantenere a galla l'attività e a trarne un buon profitto. Gestiva le sue ragazze con piglio autoritario, ma non mancava di preoccuparsi per loro ed era sempre pronta a offrire consigli e, più spesso, una spalla su cui piangere. I clienti li lasciava alle ragazze, lei si occupava solo dell'amministrazione e delle beghe varie che puntualmente si presentavano da quando agivano nella clandestinità. Per Fabrice però faceva un'eccezione.
«Dora è libera, ti aspetta di sopra!» disse, rivolgendosi sbrigativamente a Maurice, prima di prendere Fabrice per mano, invitandolo a entrare.
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