Capitolo Sei 🤍
Pov's Honey
Una corda doppia era usata per tante cose. Molto più resistente di un laccio, riusciva a stringere così forte da non avere scampo; era forte e implacabile, capace di soffocarti lo stomaco senza pietà e anche con un doppio nodo.
La paura che sentivo in quel momento aveva la stessa forza e provocava lo stesso dolore.
Mi teneva stretta, mi avvolgeva e stringeva sempre di più, così tanto da farmi mancare il respiro.
Ricordare l'e-mail mi destabilizzava, Jamie era ovunque e non riuscivo a placarlo, non riuscivo a gestire il casino che stava creando, ma soprattutto stava scatenando in me un terrore sul genere umano poco indifferente.
Non sarei riuscita più a fidarmi di qualcuno, a mettere la mia vita in mano ad un'altra persona, ma soprattutto ad innamorarmi di un altro uomo.
Avrei avuto sempre il timore costante di quello che poteva venire o essere. Come avrei fatto a credere ad altri due occhi, ad altre due braccia che mi abbracciavano, ad altre parole dette da una bocca che poteva diventare inferno come lo era il mio ex.
Le luci di New York ci facevano strada verso il mio appartamento e accompagnavano me verso un tumulto di pensieri poco piacevoli, trasformando tutto quello che vedevo in lampi astratti di mille colori, ma senza trasformare però, a mio discapito, quello che pensavo.
Sorrisi al solo pensiero di aver cercato di dissipare questo costante sentimento che mi avvolgeva, di nasconderlo e di non provarlo quando avevo visto Michelle. Ma fondamentalmente era lì, ad abbracciarmi, pronto a ricordarmi che non avevo scampo.
L'unica persona che mi aveva guardato negli occhi ed era riuscita a tranquillizzarmi, nonostante la presentazione con sua moglie, era Oliver.
Era sposato.
Sposato.
Sposato.
Non potevo crederci. Quanto poteva essere strana la vita. Ritrovavi l'uomo che avevi sognato e fantasticato per anni, e un gancio in pieno viso ti colpiva per farti aprire gli occhi e dirti che le favole dei libri che amavo leggere non esistevano sul serio. Lui che aveva sempre detto di non volersi sposare, di non volere una donna accanto che lo assillasse. E invece eccolo qui, caduto nella trappola della prima arpia che aveva incontrato.
E che arpia.
Conoscevo troppo bene Michelle per crederla santa.
Avevamo fatto le mie prime sfilate insieme, ero a capo di un grande evento e lei aveva da ridire su tutti e tutto.
Credeva di essere una star quando sapeva benissimo che poteva all'epoca solo lucidarmi le scarpe.
Ora da quello che si sentiva nel nostro ambiente, si era fatta un nome, si era costruita una carriera e si divertiva molto, almeno fino a quando l'avevo incontrata l'ultima volta, due anni fa.
Più la guardavo dallo specchietto, più mi irritava. Non riuscivo a comprendere perché aveva fatto finta di non conoscermi, di non aver mai lavorato con me. Continuavo ad osservare i suoi movimenti dal sedile posteriore. La sua chioma folta e lucente, le sue labbra rifatte e il suo fisico da urlo.
Non ero mai stata gelosa di lei o invidiosa, ma non sopportavo il suo modo di essere, non sopportavo il suo modo di camminare, visto che per lei anche la vita al di fuori delle sfilate era pura apparenza.
Dov'era la sostanza?
Era mai rimasta sul divano con Oliver a vedere un film o a mangiare cibo spazzatura per una sera, con la consapevolezza che il giorno dopo avrebbe dovuto sgobbare in palestra, ma alla fine aveva avuto la gioia e la serenità di stare con lui?
Vidi la mano di Michelle accarezzare la coscia di Oliver e il suo sguardo puntare verso di me dallo specchietto esterno della macchina.
Ero troppo concentrata su Jamie per pensare anche a lei, ma un misto di rabbia e frustrazione si manifestò nel momento in cui potevo vedere ogni piccola smorfia fatta dalla sua faccia.
La guardai mentre un sorrisino strafottente continuava a presentarsi sul suo viso, lasciandomi l'amaro in bocca. Il suo avvertimento si leggeva a caratteri cubici sopra la sua testa: lui è mio.
« Siamo arrivati. »
Oliver attirò la mia attenzione una volta parcheggiato davanti al piccolo appartamento che avevo preso in affitto.
« Emh... Grazie. Ciao Oliver. Michelle.» Conclusi aprendo lo sportello.
Scesi e mi incamminai verso il portone dopo aver visto Barbie sposa salutarmi con la manina.
Odiosa, ecco cos'era.
Sospirai guardando il portone che mi avrebbe portato a continuare la mia vita da fuggitiva, ma soprattutto speravo di non trovare il mio aguzzino in casa.
Ero troppo fragile per affrontare lui e quello che mi avrebbe potuto fare, ma potevo farcela; bastava stare lontano da tutto quello che stava creando, bastava riuscire a non pensare a lui e ai messaggi, bastava non pensare alle conseguenze.
Sospirai ancora e annuii con la testa.
«Dai, honey, sii forte! »Dissi a bassa voce per darmi coraggio.
«Aspetta, Honey. »Sentii strillare Oliver mentre scendeva dalla macchina e si incamminava verso di me.
«Cosa c'è?» Dissi portando una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Ti accompagno.»
«Non è necessario.»
«Mi fa piacere, se non è un problema.»
Lo guardai per un secondo. Non comprendevo come ci fosse tanta ambiguità in una persona, così affabile e gentile. Era troppo premuroso. Lui che era sempre stato uno stronzo con tutti, che non aiutava nemmeno sua madre, quando da piccolo gli chiedeva di tagliare l'erba del giardino, nonostante avessero un giardiniere.
Lui che per i suoi fratelli non aveva mai mosso un dito, ora voleva aiutare me.
«Non ce la farai mai a portare entrambe le valigie,» constatò non lasciandomi scelta che non acconsentire.
«Ah... ok.»
Una delusione si propagò in tutto il mio corpo, un sentimento che sputò come un fiore in mezzo a un prato totalmente verde.
Mi sentivo strana, non so se mi aspettassi di più o se volessi di più.
O magari volevo gridargli con gli occhi tutto il male che mi stavano facendo.
Forse ci speravo, ma la parola moglie che continuava a girarmi in testa mi riportava alla mente un'unica verità.
Lui per me non sarebbe potuto mai essere nulla ed era inutile infilarlo dentro con tutte le scarpe, senza dargli una possibilità di scelta.
I miei ragionamenti mi seguirono per tutto il tragitto fino al quinto piano; Oliver mi seguiva come un cagnolino ben addestrato e io continuavo a fare strada. Le scale non finivano e io pregai per arrivare subito a casa e potermi buttare sul letto.
Passati cinque piani a piedi, perché l'ascensore era in manutenzione, nell'androne si sentì solo il tonfo delle valigie che Oliver aveva lasciato di fronte alla porta del mio appartamento.
Con uno sforzo e il fiatone, come se avessi corso la maratona più lunga del mondo, cominciai a cercare le chiavi nella borsa.
« Fuori allenamento?» disse mostrandomi un sorrisetto impertinente riferendosi alle scale.
« No, guardami sono un fiore appena sbocciato. Bella e riposata. Zero fatica. » Dissi e la risata genuina che uscì dalla sua bocca contaminò anche la mia.
Il sorriso che aleggiava sulle mie labbra si spense quando trovai le chiavi e le girai nella toppa, constatando che quello era il momento della verità.
Aveva scritto "Ti aspetto a casa," quindi presumevo che si sarebbe nascosto in qualche armadio.
Quello che trovai però, non mi piacque per niente.
La mia casa era devastata da un caos che non avevo lasciato alla mia partenza.
Riuscivo a vedere solo la sala da pranzo, ma sapevo che la mia camera da letto era un disastro più grande di questo.
Un velo bianco di fogli gettati sul pavimento apriva le danze a mobili aperti e cassetti buttati sul divano, per non parlare del cumulo di cose buttate tutte a terra distrutte.
Mi paralizzai sull'uscio constatando l'ovvio.
Era riuscito ad entrare anche qui, ma in fondo me l'aveva accennato. Figurati se Jamie non faceva quello che diceva.
Ero stanca, di quella situazione, stanca di essere in guardia sempre.
Nel momento in cui non avevo più pensato scherzando con Oliver, ero stata davvero bene e ora, come un bel sogno, mi ero svegliata ed ero ripiombata nel disordine della mia vita.
Lacrime salate velarono i miei occhi e la figura di Oliver si fece sempre più sfocata.
Quanto poteva essere brutto farsi vedere piangere dalla persona che hai sognato e voluto per una vita intera? Soprattutto se non volevi includerla nel tumulto che era la tua vita, visto che aveva avuto già il suo?
Non so cosa successe, ma in una frazione di secondi Oliver mi aveva avvolto fra le sue braccia, stringendomi come una coperta con cui potevo ripararmi dal freddo. Il suo profumo era come lo ricordavo, i suoi muscoli si sentivano forti e fieri in tutto il suo corpo. Il suo petto virile si alzava e abbassava a ritmo costante, trasmettendo tranquillità, ma quello che fu strano era il battito del suo cuore, un pochino accelerato, forse dovuto alle cinque rampe di scale. Piccoli dettagli che mi ricordarono chi ero, quello che avevo vissuto guardandolo dal patio di casa, i sorrisi lanciati senza nessuno scopo, le risate in presenza di Clark e Lion, ma soprattutto l'odore e la sicurezza di casa.
Ecco, Oliver era casa, ricordi e sicurezza.
Mi staccai nascondendo le lacrime che in parte erano state asciugate dalla sua giacca e lo guardai negli occhi per un piccolo frammento di tempo. Era inevitabile nasconderlo, volevo ancora essere ancorata a lui e restarci per sempre se era possibile, ma la cosa saggia era staccarmi da lui e affrontare la realtà.
Era inutile pensare a chi potesse essere stato, lo sapevo benissimo.
Nel momento in cui feci un passo automatico per entrare, Oliver mi bloccò.
«Aspetta, fammi dare un'occhiata prima.»
Avanzò cauto nell'appartamento, mentre io tremavo senza il suo corpo a darmi tranquillità, tornando a quello che avevo dimenticato per un secondo. Solo che si era aggiunta la preoccupazione per Oliver. Avrebbe scoperto anche lui tutto il casino che mi portavo dietro.
Volevo assolutamente evitare di inglobarlo, quindi quando lo vidi tornare, lo anticipai.
«Scusa, che sbadata, stavo cercando il biglietto aereo prima di andare a casa dai miei, e ho ribaltato di tutto e di più.»
«Honey...»
«Figurati se potevo rimettere a posto. Tra il non trovarlo e il ritardo per l'aereo, ho lasciato tutto così.»
«Honey?»
Dopo aver continuato a parlare senza sosta, mi sentii premere una mano sulla bocca.
«Basta, ho capito. Non ti preoccupare, se vuoi ti aiuto.»
«No tranquillo, c'è Michelle ad aspettare giù.»
Guardai Oliver negli occhi, mentre lui stringeva i suoi per captare ogni più piccola sbavatura. Cercai di rimanere serena, di non trasmettere nessuna emozione al di fuori del mio corpo. Mi fissai il sorriso più falso che possedessi nel mio arsenale e cercai di convincerlo.
«Tranquillo, vai, passerò ore a mettere a posto. Casomai ci vediamo a cena con Michelle.»
«Ok, io vado,» disse dopo aver accarezzato un mio braccio ed essersi allontanato.
Lo vidi scendere i primi due gradini per poi fermarsi nell'istante in cui lo richiamai.
«Olive-»
«Hone-»
Parlammo insieme senza nemmeno farci caso e scoppiammo a ridere ritrovando una delle complicità che avevamo perso negli anni.
«Prima tu» concesse
«Volevo ringraziarti per oggi e per prima.»
«Figurati, mi raccomando, per qualsiasi cosa chiamami.»
Il mio cuore gridava di farlo restare, di farmi aiutare, di raccontare il casino che avevo intorno, ma la mia testa continuava a ragionare ponendo un limite assoluto sulla questione: tenerlo fuori da ogni problema.
«Buonanotte» lo sentii rispondere e tentennare ancora appollaiato su quel gradino. Fino a quando lo vidi andare via.
Feci un lungo sospiro e mi avviai in casa.
Era tutto un totale casino. Appena mi avviai in cucina, il pavimento completamente bianco era di tutti i colori. La moquette era inzuppata completamente da maionese, pomodoro, acqua e latte. Tutta la mia dispensa e frigorifero erano completamente riversati a terra.
Passai velocemente in bagno, nella camera degli ospiti, e uscii fuori sul balcone. Volevo constatare i danni e capire quando avrei dovuto ricostruire, in casa e in me.
La cosa che mi faceva più terrore era la camera da letto.
Non volevo scoprire cosa avesse fatto all'unica cosa preziosa che avevo e che tenevo sempre nell'armadio per non farla sporcare.
Non ero mai stata una persona vanitosa e ostentatrice, ma esisteva una cosa a cui tenevo più di una borsa Chanel: il mio album da disegno.
Quello per me era l'oggetto più raro e costoso che avessi.
E Jamie lo sapeva.
Sapevo che non dovevo entrare, sentivo che non volevo vedere e che la paura mi attanagliava anche le viscere. Non volevo affrontare, ma non potevo farmi distruggere ancora.
Aprii la porta della camera e, al chiarore della luna, notai un cumulo di vestiti ridotti a brandelli e pezzetti di carta strappati. Gli occhi si appannarono involontariamente e, con stizza, gli asciugai; dovevo guardare a che punto era arrivato. Vomitai sulla moquette nel momento in cui vidi i miei disegni appesi alla finestra, sporcati da vernice rosso sangue.
Ogni disegno di un vestito, con annesse stoffe che avevo pensato per crearlo, conteneva una grande lettera.
M O R I R A I.
Mi asciugai le labbra con la mano dopo aver versato sol bile e una rabbia cieca mi fece scattare verso la finestra e togliere ogni residuo di Jamie. Ogni angolo dove era passato, avrei dovuto far sparire tutto.
Crollai a terra tra i pianti, le risa e i fogli che avevo strappato e, con calma, mi distesi ai piedi del mio letto, con sguardo al soffitto.
Le lacrime scendevano silenziose, mentre facevo di tutto per impormi di smettere di farle uscire. Il mio mondo era crollato in un battito di ali e non riuscivo a rialzarmi.
Io di certo non riuscivo a capire perché un uomo non riusciva a fermarsi dopo essere stato rifiutato.
Poteva essere reale il voler riprovare dopo una separazione o dopo che due persone si erano lasciate. Ma Jamie sapevo che io non avrei accettato né una seconda vita né un tradimento per svago.
Una delle mie più grandi inquietudini quando stavamo insieme era proprio questo: la paura di non essere ricambiata al cento per cento. Mi fidavo di me stessa, ed ero sicura del mio aspetto fisico, ma avevo la totale infondata insicurezza di non meritare un amore grande come quello dei film.
La costante fobia di non essere abbastanza.
Ed era successo, mi aveva tradito.
Ma ora mi chiedevo cosa volesse ancora da me. Aveva tradito la mia fiducia, aveva tradito ogni piccolo granello di storia che avevamo creato, aveva tradito le basi dell'amore che c'era, aveva tradito la mia persona mancandomi di rispetto e continuava a farlo.
Non era una persona che poteva stare con me, ma per questo meritavo tutto il male che stava facendo?
Non poteva andare così ancora, non poteva lacerarmi così l'esistenza. Non avevo la forza di rialzarmi e combattere, era troppo difficile, mi prosciugava tutto rendendomi una persona debole e asettica. Ero convinta che dovevo lottare, ma quanto era difficile in una situazione del genere?
Il sole del mattino mi svegliò illuminando la mia stanza a festa.
Ero sporca di vernice ovunque, perfino i miei capelli lo erano, ma mi ero addormentata piangendo, tra vernice, fogli e risentimenti. Guardai intorno nella stanza senza sapere da che parte cominciare.
Le questioni erano due: o dovevo chiamare una ditta di pulizie per pulire tutto o dovevo cambiare appartamento.
Affranta, mi misi le mani sui capelli, mentre mi guardavo allo specchio vicino all'armadio.
Gli occhi gonfi e rossi si presentavano come un manifesto di cazzotti ricevuti e dolore sopportato, la testa mi pulsava e le ginocchia non mi tenevano bene quando provai ad alzarmi per rimboccarmi le maniche.
Avrei dovuto fare tutto da sola, per non far scoprire nulla come sempre, raggiunsi il bagno e presi pezza e sgrassatore per vedere se la vernice si sarebbe tolta, ma nello stesso istante il suono del mio telefono mi avvisò di una chiamata in entrata.
Non feci in tempo a rispondere che Stefy riagganciò; mentre spulciavo le notifiche mi accorsi che era già la quinta chiamata che mi faceva. Il cellulare cominciò a squillare di nuovo e presi la chiamata immediatamente.
«Cy?»
«Dio amica, ma dove sei?»
«In che senso?»
«Ho ricevuto un messaggio e una chiamata dal tuo amico Oliver Jackson, mi ha detto di aver trovato una location per la sfilata. Amica, è pazzesco. Se seguendo il suo messaggio con l'indirizzo, sono arrivata nel posto giusto... dovremmo fargli una statua.»
«Ma dove sei?»
« Ti mando l'indirizzo, raggiungimi. »
«Emh Stefy non posso, ho casa un disastro. Credo mi siano entrati i ladri.»
«I ladri?»
«Cy, poi ti spiego.»
«Ok. Ok, ti chiamo una ditta di pulizie. Ci vediamo appena arriva da te, raggiungimi.»
Riaagganciai e nemmeno dieci minuti dopo il campanello suonò.
Cy era stata velocissima e sicuramente avrei dovuto darle un bonus nel prossimo stipendio.
Una squadra di persone era presente fuori dalla mia porta. Un due pezzi verde e bianco li fasciava.
«Salve, la signorina Miller?»
«Sì, sono io» dissi imbarazzata.
Avevo cercato di togliere il superfluo, di buttare cocci e tutto quello che poteva sembrare fuorviante, ma non potevo fare altro. La vernice e la moquette erano sinonimo di qualcosa di grande che andava oltre una semplice pulizia.
«Sono Cindy e, questi ragazzi e io, siamo qui per lei. Possiamo entrare? Siamo la ditta di pulizie.»
«Certo, prego.» Conclusi spostandomi di lato per concedere loro di entrare con tutta l'attrezzatura.
«Perfetto. Ragazzi all'opera» disse Cindy in tono autoritario.
Li guardai mettersi a lavoro, ognuno in una stanza diversa, li guardai ribaltare casa mia in un nano secondo e uscirne dopo solo due ore, lasciandola splendente e profumata.
«Signorina Miller?»
Cindy si affacciò sotto l'uscio della cucina sorridendomi.
«Sì, sono qui.» disse mentre prendevo un caffè.
«Noi abbiamo finito, stiamo andando via.»
«Grazie mille per la velocità e il lavoro svolto. La mia assistente provvederà al pagamento in giornata.»
«Tranquilla, signora, è stato tutto saldato.» concluse sorridendomi e avviandosi all'uscita insieme a tutti gli altri.
«Arrivederci» dissi accompagnandoli alla porta.
Stefy era stata proprio brava, avevo bisogno di ringraziarla e di dirglielo in un momenti così, avere lei, era come avere una miniera d'oro.
Presi il telefono e la richiamai all'istante.
«Stefy!»
«Pronto!»
«Dieci minuti e arrivo, ma volevo ringr-»
«Scusami, ma la ditta di pulizie è rimasta bloccata nel traffico per un tamponamento a catena. Non credo arriverà prima di oggi pomeriggio,» concluse.
«Cosa?»
«La ditta di pulizie è in ritardo, ho detto.»
«Sì, ho capito, va bene, di loro di lasciar perdere, a dopo.» Riagganciai con la mente in confusione.
Chi cazzo avevo fatto entrare in casa mia, chi li aveva mandati?
Controllai tutta casa, e i ragazzi della ditta non avevano toccato nulla e non mancava nulla di valore delle piccole cose che avevo. Passai un'ora a cercare di capire chi fossero, ma esausta di pensare presi l'accappatoio e mi diressi in bagno per fare una doccia. Forse avrebbe aiutato a ricordare qualcosa, magari per come ero fuori di me, Cindy lo aveva anche detto. Mentre mi facevo una doccia pensando a chi potesse essere a capo di questa sorpresa, un piccolo ricordo frammentato mi passò nella mente come un flash.
La scritta sul camice di Cindy.
O. J. Enterprise campeggiava in nero ben visibile.
Non mi era nuova, l'avevo già vista da qualche parte, ma non riuscivo a ricordare dove.
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