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Capitolo Quattro 🤍

Pov's Honey

Atterrai a New York con un peso sullo stomaco, stanca e spossata dal viaggio fisicamente, ma anche timorosa e spaventata mentalmente.

Girovagai al ritiro bagagli in attesa della mia valigia.
L'unica nota positiva in tutto questo viaggio era non dover passare ai controlli doganali o dell'immigrazione.
Vedevo turisti di ogni nazione affollarsi e fare fila, mentre io potevo tranquillamente uscire dal terminal senza dover aspettare nulla o nessuno.
Raccolsi il mio enorme bagaglio blu e controvoglia mi avviai verso le porte scorrevoli.
Mentre camminavo non riuscivo a togliermi le parole di mio fratello dalla mente.
Era diventato un tarlo, un vero e grande problema ormai.
Non ricordavo nessun amico oltre a Clark.
O forse era più una volontà di non voler ricordare.

C'era una persona, una sola persona del nostro vicinato, che era partita da Stowe molto prima di me e non era mai tornata.
Quando Clark e Lion avevano deciso di andare al college e poi di tornare a casa definitivamente , tutti erano molto felici.
Tranne una famiglia.

I Jackson.

Una ragazzina snob con la puzza sotto il naso mi sfrecciò davanti, come una macchina a trecento chilometri orari, sbattendo con la sua enorme valigia rosa cosparsa di brillantini contro la mia.
La guardai meglio: minigonna che le poteva arrivare quasi all'inguine, unghie che sembravano artigli e tacchi dodici.
La vidi ancheggiare verso un uomo più grande della sua età di almeno quarant'anni, con barba bianca, rughe in viso, pancia tonda e abbondante.

La osservai baciarlo sulle labbra e allontanarsi insieme a lui.
Scossi la testa nauseata e con passo svelto mi precipitai verso la porta a vetro.
Io alcune ragazzine non le capivo proprio, l'atteggiarsi, le movenze da adulte troppo provocanti.
Avevo sempre accettato le visioni altrui, ma non riuscivo a spiegarmi mai perché alcune ragazze si abbassavano a tanto.
Forse potevano avere soldi che l'uomo come quel signore poteva sborsare vistosamente, ma cavolo tutto il resto.

Uscii dall'aeroporto immersa nelle mie riflessioni e un clacson mi fece di colpo alzare lo sguardo.
Il sole batteva caldo sulla mia pelle , ma l'aria di New York non mi era mancata per niente.
Mi affrettai a cercare un taxi perché volevo evitare di farmi rintracciare già ora.
Volevo evitare di essere vista da persone in comune con Jamie.
Mi guardai intorno sospettosa verso sinistra con l'ansia di essere notata.
Poi buttai l'occhio alla mia destra e un uomo che avrei riconosciuto fra mille, anche se erano passati anni, attirò la mia attenzione.
Teneva fra le mani un cartello bianco con scritto Honey Miller in una calligrafia molto elegante.

Oliver.

Era appoggiato ad un' Audi nera tirata a lucido, con le gambe incrociate sulla caviglia.
Ray-Ban a specchio che aveva sempre portato fin da quando avevo memoria e fisico statuario, più maturo rispetto a prima, avvolto in un completo gessato.
Rivederlo lì dopo anni, aveva risvegliato troppe cose in un solo secondo.

Era sempre stato per me un lampo in un cielo blu notte, un bagliore inaspettato.
Un fulmine improvviso che illuminava la città in una notte buia e tempestosa.

Non era mai passato inosservato. Riuscivo ad identificarlo soltanto dai suoi gesti e dai suoi movimenti.
Per anni e anni lo avevo notato di nascosto, a scuola, nel corridoio di casa e nella villa dei suoi.
Poche volte i miei occhi lo avevano ignorato, avevo sempre avuto un debole per lui, ma da ciò che era sempre stato e che avevo sempre osservato, lui per me non lo aveva mai avuto.

Guardai meglio Oliver, prendere il cartello con una mano e occhiare l'orologio in acciaio che aveva sul polso destro.
Lo vidi sbuffare e guardarsi intorno.
Sembrava come se non volesse essere lì o almeno fu quello che dedussi perché non ero mai riuscita a capirlo in questi frangenti, nemmeno quando eravamo nel pieno dell'adolescenza.
Figuriamoci ora, l'unica cosa che mi ricordavo di lui... era il suo tatuaggio.

Dio, che ricordo.

Scossi la testa per tornare al presente, non dovevo pensarci.
Stufa di guardarlo annoiarsi, mi avviai verso di lui e mi piazzai di fronte alla sua figura.
Volevo solo tornare a casa e mettermi subito a lavoro con Stefy.
Avevo bisogno di trovare il tempo e le opzioni giuste per risolvere le problematiche della sfilata.
Era la prima volta che facevo da sola, prima ero sempre stata accompagnata, aiutata e confortata.
Ora ero io e solo io.

Mi schiarì la voce per attirare l'attenzione di Oliver che era momentaneamente dedicata al suo telefono.
Alzò lo sguardo appena mi sentii e vidi nei suoi occhi emozioni contrastanti.

Sorpresa, riconnessione, realizzazione e infine, indifferenza.

Lo osservai togliersi gli occhiali e ammirarmi intensamente.
Era bello come ricordavo, o forse ancora di più.

«Honey Miller» disse abbassando il cartello per poggiarlo sul cofano dell'auto e infilandosi gli occhiali nel taschino della giacca.

«La sola e unica», risposi senza dargli tempo di dire altro.

«È difficile passare inosservata, sei la copia esatta di tuo fratello».

«Sì, ho solo scordato i muscoli a Stowe, ma se ti fa piacere vado a recuperarli», indicai l'entrata dell'aeroporto con il pollice.

Rise alla mia battuta puntando le sue gemme di giada dritte nelle mie.

«Oliver Jackson, a cosa devo la tua presenza?»

«Tuo fratello mi ha detto che ti serviva un amico in città e visto che gli dovevo un piccolo favore... eccomi qui», disse aprendo le braccia per poi infilarle nel pantalone del suo completo.

«Non ho bisogno di amici, ne ho abbastanza.»

Strinsi il manico della mia valigia con più forza.
Non mi piaceva la sua supponenza, ma soprattutto odiavo essere sotto scorta.

«Honey, senti...» iniziò a dire, ma lo bloccai con il palmo della mano rivolto verso di lui e ammutolì in un secondo.

«Senti tu! Non ho bisogno della balia e nemmeno della scorta. Voglio continuare a vivere tranquillamente e secondo le mie regole. Lui non mi farà nulla.»

E poi averti intorno potrebbe svegliare troppe cose, che sto tenendo sotto controllo da anni.

Avrei voluto aggiungere.

Lo guardai un attimo di troppo mentre vago si passava una mano nei capelli scuri e folti e prendeva un lungo sospiro.

«Non ti farà nulla?»

Quella domanda mi lasciò spaesata e confusa.
Forse avevo capito male... era sicuramente una domanda retorica o da beffa, ma più lo guardavo e più sembrava perplesso.
O era bravo a recitare o era davvero all'oscuro di tutto.

«Scusami... ma Lion cosa ti ha detto precisamente?» dissi di getto.

«Te l'ho detto. Mi ha chiesto di starti vicino perché avevi bisogno di amicizie qui»

«E poi?»

«Senti, mi ha detto solo questo. Forse ha aggiunto il fatto che tu in questi anni passati abbia fatto casa e lavoro senza creare amicizie e punti d'incontro. Senza uscire la sera e divertirti. Quindi mi ha chiesto solo di aprirti alla vita, di farti fare conoscenze e di aiutarti nel trovare una location per la tua sfilata»

Spalancai la bocca.
Le cose che aveva detto erano tutte vere.
I primi tempi non ero mai uscita da casa se non per andare a lavoro.
Non avevo fatto amicizie o conoscenze.
Jamie lo avevo conosciuto ad una sfilata e grazie a lui avevo cominciato a conoscere New York.
I primi anni avevo dato anima e corpo, ma soprattutto tempo al mio sogno di diventare stilista ufficiale.
Dopo Jamie avevo conservato alcune buone amicizie che avevo stretto mentre ero con lui.
Ma la cosa però che non riuscivo a spiegarmi era una sola.
Come diavolo sapeva della sfilata?
Non poteva saperlo da Lion e io non ne avevo fatto parola con nessuno.

A meno che..

«Come fai a sapere della sfilata?»

«Emh...»

Lo vidi imbarazzato e preso alla sprovvista.

«È stato Lion. Tua madre ti ha sentito al telefono parlare con la tua assistente e ha riferito a tuo fratello che dovevi partire per problemi di lavoro» concluse rapidamente.

Mi rilassai immediatamente.
Vedevo trasparenza che trasudava dai suoi occhi, la sincerità di volermi aiutare e stare vicino, anche se io continuavo a pensarla allo stesso modo.
Non avevo bisogno di lui.
Mi dispiaceva però sapere che Lion si era attivato per me, che aveva perso tempo a cercare qualcuno che sentivo raramente o quasi per niente solo per me.

Oliver mi vide ancora poco sicura e diffidente.
Aveva capito che non mi fidavo di lui e delle sue parole e che accettare questa amicizia forzata per me sarebbe stato sbagliato, ma questo era solo un mio pensiero.

«Facciamo così. Ti aiuto con la sfilata e poi se ti va ancora di avere un amico nella grande mela, bene, altrimenti ognuno per la sua strada. Affare fatto, allora, Honey Miller?»

Tentennai nel rispondere.
Avere un amico, un uomo per giunta, in questa immensa città poteva solo farmi comodo.
Ma avere lui come amico era il problema.

Non sapevo cosa fare.
Era una battaglia tra testa e cuore.
Tra ragione e sentimento, tra razionalità ed emozioni, tra prudenza ed impulso.
Era una scelta difficile da fare, perché avrebbe portato conseguenze, di che natura potevano essere non potevo saperlo, ma le avrebbe portate.
Solo che, a lui non riuscivo mai a dire di no.

Era sempre stato il mio punto debole sconosciuto.

«Affare fatto, Oliver Jackson» dissi porgendo la mano che lui strinse immediatamente.

Passarono secondi interminabili e rimanemmo così a fissarci, mano nella mano, mentre la gente continuava a girarci intorno, mentre i clacson suonavano e i nostri occhi si legavano ancor di più.

Con disinvoltura slegai la mano dalla sua e mi portai una ciocca di capelli dietro l'orecchio, guardando a terra.

«Ok, ora che si fa?» dissi per togliermi dall'imbarazzo.

«Nulla, ti accompagno a casa e ti lascio il mio numero, va bene?» disse catturato da ciò che ci circondava e non più da me.

«Ok.»

L'imbarazzo era palpabile, almeno da parte mia. Mi sentivo fuoriluogo e a disagio per la circostanza.

Lo guardai avanzare una mano tesa verso di me, come se volesse qualcosa. Come se volesse farmi aggrappare a lui. Lo vidi osservarmi, guardava la sua mano e poi me, la sua mano e poi me. Tentennai prima di tirare fuori la mia dal cappotto. Forse voleva che gli dessi la mano per accompagnarmi alla portiera.

«Honey, se non mi dai il tuo telefono, come posso segnare il numero? Non vorrei dirlo ad alta voce, sinceramente»disse sorridendo e capendo il mio disagio non disse nient'altro.

Dio, che stupida.

«Oh, sì, eccolo.» tirai fuori il cellulare dall'altra tasca e glielo porsi.

Non riuscivo a guardarlo in faccia, ero troppo rossa dalla vergogna e timida a causa dei miei pensieri poco conformi.
Non sapevo nemmeno se aveva una fidanzata o se era sposato, non sapevo nulla di lui.
L'unica cosa che ricordavo di aver sentito per vie traverse, attraverso i miei genitori e Lion, era che era dedito al suo lavoro e che tornava poco a casa.

In fondo lo capivo.
La sua situazione familiare non era mai stata rosea come la mia e quella di Lion.
I suoi genitori, avvocati di successo, avevano sempre preteso tanto da lui e lui, a maggior ragione, aveva voluto fare tutto ciò che loro non avevano mai voluto per lui.

Il Corporate Event Manager. 

Organizzava eventi aziendali, ma non si interessava di essi.
Aveva accumulato tanti soldi in questi anni, non che a lui servissero ovviamente, era ricco da far schifo.

«Ecco qua... »

Oliver mi riconsegnò il telefono senza dire altro, si spostò dall'auto e prese in mano la mia valigia.

«Andiamo»

Spostai gli occhi sulle sue spalle mentre si dirigeva verso il portabagagli.
Lo osservai depositare la mia valigia e chiudere lo sportellone.
Ogni gesto e movimento mi riportavano ad anni passati, a ricordi nascosti.

A quando aveva diciotto anni e fuori casa lavoravano sulla macchina di Lion, senza maglietta e con il sudore a rendere lucidi i loro corpi.
A lui in costume quando in estate riuscivamo ad andare a Sterling Pond, un lago vicino alle montagne.
A quando lo vedevo giocare a basket insieme a Lion e Clark.

Non ero riuscita e non riuscivo a capire il perché lui mi attraesse come una falena era attratta dalla luce.

Vederlo così, mi faceva sentire piccola di fronte a quello che era sempre rimasto il mio segreto irraggiungibile.

«Honey?»

Scossi la testa imbarazzata e puntai gli occhi su di lui.

«Mh?»

«Terra chiama Honey Miller.» disse ridendo.

«Ci sono, ci sono.»

«Hai capito cosa ho detto?»

«Veramente no.»

Aveva parlato e io, come una dodicenne alla prima cotta, stavo ripensando a lui senza maglietta.

«Ho detto se ti va di mangiare qualcosa prima di tornare al tuo appartamento.»

Mi freddai all'istante.

«Emh, meglio di no.» con nonchalance aprì lo sportello e mi sedetti mentre aspettavo lui che facesse lo stesso.
Puntai lo sguardo fuori al finestrino e sprofondando nel sedile.

Avevo fatto un casino.
Alla fine era solo un pranzo e non voleva dire nulla, eravamo due amici.
Chiunque ci avrebbe visto, poteva pensare il contrario, ma io sapevo benissimo che era una sua cortesia.
Mi mordicchiai un unghia avvolta nei mille pensieri che mi tartassavano il cervello.
In fin dei conti, non era questo il vero motivo per cui avevo detto di no.

La paura di essere vista con lui da Jamie e le conseguenze, mi avevano fatto rispondere di getto.
Non sapevo se quello stronzo era a conoscenza del mio arrivo, se era a casa ad aspettarmi, fuori casa, in aeroporto dove avrebbe potuto vedermi parlare con Oliver.
Ero sempre stata all'oscuro di tutto con lui.

Lo squillo di un telefono rimbombò in tutta l'auto facendomi saltare sul sedile, mentre percorrevamo la strada verso casa mia.
Riconoscevo New York e i palazzi quasi tutti simili e anche se le circostanze erano quelle che erano, amavo quella città.

«Ehi, Kam, dimmi.»

Seguì una piccola pausa mentre l'interlocutore parlava ininterrottamente.

«Arrivo.» disse Oliver riagganciando e mi rivolse un'occhiata alternando lo sguardo tra me e la strada.

«Senti Honey..» disse Oliver attirando la mia attenzione, mentre cambiava marcia.

«Si?» risposi, proiettando la mia attenzione su di lui.

«Dovrei fare una deviazione, ma faccio in un attimo.Devo passare in ufficio per forza, è urgente. se ti va puoi venire con me.»

«Ah, ok nessun problema. »Dissi tornando a guardare fuori dal finestrino.

«Ti avverto però, all'entrata sarai perquisita e dovrai lasciare il telefono alla reception. Purtroppo abbiamo avuto dei problemi , c'era qualcuno che passava informazioni sulle nostre proposte e abbiamo cercato di limitare un pochino i danni.»

«Wow. Ok.»

Non avevo mai capito il suo lavoro e a vederlo dall'aria scocciata che aveva assunto, il problema che doveva risolvere non gli piaceva per nulla.
Era sempre stato negato a nascondere il suo umore.
La sua mimica facciale era troppo evidente a volte e da bambini Lion lo prendeva sempre in giro.
Era facile capire il suo umore perché quando era scocciato sospirava tanto, sbuffava e si mozzicava il labbro.
Quando era arrabbiato,invece, le vene del collo si gonfiavano e gli occhi cambiavano colore.
Quando invece vedeva una macchina che gli piaceva diventava un bimbo di cinque anni.
Ora nonostante questo era.. cambiato.
nom sapevo più se aveva il debole per le auto.

«Ti piacciono ancora le auto?» dissi guardandolo.

«Eh?»

«Ti piacc-»

«Ogni tanto.»

«Ok» dissi chiudendo il discorso.

Ogni tanto.

Era criptico. Non faceva trapelare nulla dei suoi pensieri, o meglio tirava fuori solo quello che voleva farti sapere.
Meglio così, avevo altre cose a cui pensare e forse era ora di iniziare subito a navigare su internet per trovare qualche location adatta alla sfilata. Avrei sicuramente approfittato di questo tempo perso per occuparmi delle email.

Oliver tirò il freno a mano davanti a un grande palazzo completamente fatto di vetro e ferro in evidenza. Non riuscivo a scorgere nulla di quello che c'era dentro. Ma scommettevo che si potesse fare il contrario.

«Vieni.»

Mi incamminai dietro di lui e appena varcai la soglia due uomini ci accolsero togliendoci tutto e passando un metal detector sui nostri corpi. Una volta entrati nella Hall, una ragazza si alzò in piedi salutando Oliver con riverenza.

«Aspettami qui. Lei è Roxenne,» indicò la signorina in tailleur nero, lunghi capelli biondi e occhi luminosi, dietro la scrivania, «ti accompagnerà nella sala d'attesa.»

«Tranquillo, prenditi tutto il tempo che ti serve. È un problema se prendo il computer dallo zaino mentre ti aspetto?»

«Assolutamente, chiedi a Roxenne di restituirti almeno quello.»

«Venga, vuole qualcosa?» disse la ragazza mentre si avvicinava a me.

«No, grazie.»

«Allora si può sedere lì, il signor Jackson tornerà tra poco.» Disse facendomi entrare in una sala e indicandomi una poltrona rossa.

Sedendomi, guardai con stupore ciò che mi circondava.
Poltrone di varie tonalità di rosso coloravano completamente la sala trasparente.
Un grande tavolo era collocato sullo sfondo.

Non feci in tempo a richiamare Roxenne per chiederle il computer, che lei si palesò sulla porta con la mia borsa da viaggio.

«Prenda quello che le serve e se vuole può accomodarsi sul tavolo.» Disse sorridendomi.

Sorrisi a mia volta e, dopo averla ringraziata, si congedò in modo silenzioso.

Mi sistemai e cominciai a immergermi nel lavoro, fiera di poter recuperare il tempo perso in questi giorni.
Risposi a tutto ciò che mi era arrivato, ma in un nanosecondo il computer si spense e si riaccese da solo.

Non diedi peso a nulla e continuai a portarmi avanti con il lavoro.
Mentre scrivevo l'ultimo appunto sulle note, il computer si spense di nuovo.
Un brutto presentimento mi gelò il sangue.
Non volevo accenderlo, avevo un presentimento strano, ma dovevo continuare a scrivere o comunque salvare tutto ciò che avevo fatto e risolto.
Feci un lungo sospiro e lo riavviai.

Una grande scritta comparve sulla casella di posta.

"Bentornata amore, ti aspetto a casa!"

Crollai sulla sedia senza forze.
Era riuscito ad hackerarmi il computer e sapeva del mio ritorno.
A questo punto sapeva sicuramente anche di Oliver.
Mi strinsi i capelli e chiusi il computer con un tonfo.

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