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26 - DESTINAZIONE INFERNO {Fritz}

Le porte dell'ascensore si aprono su un ampio corridoio con il pavimento in cemento e il soffitto basso, illuminato lungo il perimetro da fasci di luce azzurrognola. Sulla parete di fondo c'è una porta tagliafuoco bianca con maniglione antipanico e, alla sua sinistra, una postazione delimitata da un muretto e una parete in vetro. Seduto nella guardiola, un uomo dai capelli brizzolati e la carnagione olivastra, che indossa una divisa blu con le rifiniture dorate.

Elizabeth saltella verso di lui con l'entusiasmo di chi incontra un vecchio zio. «Ciao, Kamal.»

«Signorina.» L'uomo le fa un cenno compito, ma ha tutta l'aria di essere una formalità, a giudicare dal luccichio di simpatia che gli balugina negli occhi. «Desidera che la porti da qualche parte?»

«No, grazie. Missione segreta.» Il tono cospiratorio con cui Liza lo dice, mi fa pensare che condividano qualcosa di più del semplice rapporto tra autista e figlia del capo. Anche se nessuno se la immaginerebbe mai a fraternizzare con il personale di servizio, sono certo che sia più alla mano di quanto vuol far credere. La cosa mi piace. Dopo aver conosciuto sua sorella, è quasi un sollievo avere un'ulteriore conferma del fatto che non si assomigliano.

«Come desidera.» Kamal le allunga un telecomando e sorride: «Guidi con prudenza.»

«Sempre» gorgheggia lei, afferrando l'oggetto e facendomi cenno di seguirla oltre la porta bianca.

L'autista mi inquadra e si morde appena il labbro inferiore, come a trattenere una risata. «Buona serata e buon viaggio» mi dice rispettosamente, ma ho l'impressione che dietro l'augurio si nascondano parecchi sottintesi.

Con una pessima sensazione, lo ringrazio e procedo alle calcagna di Elizabeth.

Il garage interrato del palazzo nasconde una miriade di automobili. Superate le aree di parcheggio utilizzate dai gestori e dai dipendenti delle attività commerciali, raggiungiamo quella riservata al Gruppo Heart, riconoscibile dal cartello identificativo e da una serie di berline blu notte allineate negli stalli; hanno differenti dimensioni e cilindrate, ma riportano tutte il medesimo logo sulla fiancata. Oltre la flotta aziendale, intravedo una Range Rover Velar oro metallizzato e una Tesla Model X bianco perlato. Niente male, non mi dispiacerebbe provarle.

Quando Elizabeth aziona il telecomando, puntandolo in direzione di quei gioielli, inizio a crogiolarmi alla prospettiva di un test drive, ma i fanali che si accendono non sono i loro. Qualcosa di più basso e molto meno accattivante lampeggia come a farmi l'occhiolino, e ammoscia le mie speranze in meno di un decimo di secondo. 

Un brivido di delusione mi attraversa. 

Una Corsa.

Una Vauxhall Corsa Ultimate grigio topo. Con tutta probabilità una delle auto più vendute nel Regno Unito nell'ultimo decennio. Se non fosse per le finiture premium che noto appena salgo a bordo – sul sedile del passeggero e senza protestare, perché a questo punto tanto vale leccarsi le ferite in silenzio – potrebbe essere l'auto di un tizio qualunque. Ogni centimetro della vettura grida "voglio passare inosservato" e posso testimoniare che ci sta riuscendo benissimo.

«Chissà perché immaginavo fossi più una tipa da carrozzeria rosa shocking e interni glitterati» butto lì, rivolgendo un'occhiata addolorata alla Velar, mentre Elizabeth traffica con la cintura.

Vengo ricompensato con un sorrisetto furbo e un cenno di approvazione. «Forse perché lo sono.»

Inserisce la retro e fa un paio di manovre che definire poco fluide sarebbe un complimento. Non ha l'aria di essere una guidatrice esperta. Nella mia testa, il "buon viaggio" di Kamal inizia ad assumere un altro significato e mi auguro che si sia disturbato a mandare una preghiera per noi alle divinità induiste, nel caso stasera Dio sia troppo impegnato. 

«Questa è la macchina di Cory» prosegue Liza, facendo scattare la Corsa in avanti con una pigiata sull'acceleratore degna di un pilota di Formula 1. Peccato che siamo ancora in garage e il percorso che porta alla rampa d'uscita è pieno di pilastri in cemento dall'aria molto solida.

Mi aggrappo alla maniglia – mai nella vita avrei pensato di averne bisogno – e resto incollato al sedile, mentre schiviamo per miracolo diverse strutture portanti dell'edificio e una dozzina di mezzi parcheggiati. Faccio appena a tempo a chiedermi se la maxi copertura assicurativa che ho sottoscritto copra i danni fisici riportati in condizioni surreali, come la guida kamikaze di una donna che ha deciso di portarti a cena trafugando l'auto della sorella, quando arriviamo alla sbarra.

Elizabeth inchioda per permettere al sistema elettronico di rilevare la targa e io faccio leva sulle gambe per non trovarmi con il naso spalmato sul parabrezza, nonostante la cintura. Lo schianto dai capelli rossi che sta al volante mi lancia un'occhiata in tralice, come a sottolineare che le mie reazioni siano esagerate. Esagerate un beneamato cazzo! La mia faccia non sarà un granché, ma ci tengo; se avessi voluto farmi fracassare le ossa mi sarei buttato sul rugby.

«Perché non abbiamo preso la tua macchina?» le chiedo, pensando che forse questo genere di guida è dovuto a una scarsa familiarità con il mezzo.

«Perché non ce l'ho» fa spallucce. «Non l'ho mai voluta, non mi interessa; preferisco chiamare un taxi o farmi portare dall'autista dove serve.»

La cosa è vagamente preoccupante. «Ma almeno ce l'hai la patente?»

«Certo, idiota» rotea gli occhi. «Papà ha insistito perché la prendessi.»

Forse non è stata una buona idea.

La sbarra si solleva e ripartiamo con uno sbalzo in avanti lungo la rampa di uscita. «Tua sorella sa che prendi in prestito la sua auto?»

«No. Ma lei non è gelosa come Dave delle sue cose» scrolla le spalle. «E visto che non si è degnata di invitarmi ad andare con lei alle sfilate nemmeno quest'anno, lasciarmi la Corsa è il minimo.»

«Le sfilate?» chiedo, reggendomi forte per superare la prima curva che ci immette, per fortuna senza incidenti – a parte un paio di strombazzate del tizio a cui abbiamo tagliato la strada –, nel traffico serale di Manchester.

«La Settimana della Moda di Parigi» sbuffa. «Hai presente?»

Annuisco, troppo concentrato sui margini della carreggiata che sfilano a pochi centimetri dal mio lato per parlare, e lei prosegue con tono petulante: «Corinne si ostina ad andare da sola ogni anno. Mi è venuto il dubbio che avesse una tresca con uno dei buyer, ma no, sono solo manie di controllo. Hai visto come si concia? Il Gruppo Heart fa una figura di merda ad averla come rappresentante. Se solo mi lasciasse partecipare...»

Vorrei approfondire il discorso, ma Liza sterza di colpo, immettendosi sull'A56, e il respiro mi muore in gola. Opto per un silenzio strategico e faccio del mio meglio per non vomitare a ogni tentativo di sorpasso. Quando rallenta e finalmente parcheggia – più fuori dalle righe che dentro – davanti a un edificio nei pressi dell'Old Trafford, non sono mai stato tanto felice di barcollare sulle mie stesse gambe.

«Mettiti il cappello, almeno finché non raggiungiamo il tavolo» mi richiama. «Non vorrei doverti difendere dagli insulti degli avventori.» Fa cenno a un murales che riproduce in formato tre metri per tre lo stemma del Manchester United Football Club e le caricature di alcuni calciatori.

Merda. «Dove mi hai portato?» domando, infilando subito il cappello e alzando pure il cappuccio della tuta per limitare le possibilità di identificazione. Non ho niente contro lo United, competizione standard esclusa, ma mi guardo bene dal presentarmi dalle loro parti senza la scorta.

«A casa» ghigna, prendendomi sbrigativa sottobraccio e trascinandomi verso l'entrata di quello che sembra a tutti gli effetti un pub. Un pub a due passi dallo stadio della squadra storica della città, con bandiere rosse e gialle che sventolano ai lati della porta in legno intagliato e graffiti inneggianti ai Red Devils.

Mi concentro sulla bellezza del camminarle accanto, come una coppia normale in giro per locali, e non riesco a fare a meno di pensare che, qualsiasi cosa succederà stasera, se non altro, potrò dire di non essere morto invano. 


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