Capitolo 8
41
Daniel
If I was dying on my knees
You would be the one to rescue me
Non ti fa ridere? Ho passato una vita intera a odiarti senza conoscerti davvero. Ti ho sempre visto come un estraneo, uno da osservare e invidiare perché avevi ciò che a me hanno tolto. Eppure, nonostante tutto, nonostante la rabbia, il dolore e la solitudine, non posso far altro che chiedermi come sarebbe stato.
Non è giusto, sai? Mentre il tuo ricordo sbiadisce, non posso fare a meno di essere qui. Vivere e non vivere. Respirare e cercare di buttare i cocci di chi ero prima di te.
Potevo rimanere nella nebbia, ma la verità è che non sono come te. Un granello di polvere in una galassia di luce e materia. Un nulla, se paragonato al vuoto che mi lacera respiro dopo respiro.
«La prende quella mela?»
Una mano spunta sotto il sacchetto che sto osservando da un po'. Mi volto e una bambina mi sorride sdentata. Ricambio il suo sguardo, smarrito e confuso.
«Signore?»
Continuo a fissarla, perso nello spazio che sta a metà fra i miei pensieri e la realtà, incapace di far uscire la voce dal nodo che mi blocca la gola. Scuoto la testa senza neanche accorgermene e la bambina torna a sorridermi. Afferra la mela e la tuffa in un sacchetto, le piccole manine avvolte in un paio di guanti con dei carciofi disegnati sopra.
Subito penso a Coly, ma il lieve sorriso che mi nasce sulle labbra sparisce.
Mi starà odiando, ora. E questa volta sul serio. Lo so perché è sparita di nuovo. Pur non sapendo nulla di lei, mi rendo conto che questo sia il suo modo di lasciarsi i problemi alle spalle.
E io sono un problema.
Meglio così. Per lei e per me.
Deglutisco e sposto lo sguardo sui kiwi. Vorrei tanto che fosse così, ma il groviglio nello stomaco non me lo permette. Continuo a pensare che avrei fatto meglio a seguirla, a non lasciarla tornare a casa da sola. Che poi, non so nemmeno dove vive. Me la sento sulla pelle e in mezzo alle costole e non so niente.
La suoneria di un cellulare spezza il flusso dei miei pensieri. Mi guardo in giro e solo dopo parecchi secondi riconosco il ritornerllo di Hotel California.
Recupero il telefono dalla tasca dei jeans e rispondo senza guardare chi sia. «Cosa vuoi?»
«Rispondi così alla tua dolce metà?»
Non alzo gli occhi al cielo solo perché sono troppo stanco per farlo. «Cosa vuoi, Kera?»
«Che antipatico. Sono sotto casa tua» annucia allegra.
Sbatto le palplebre un paio di volte, chiedendomi come faccia a essere così tranquilla. «Sono in giro» dichiaro nella speranza di smorzare il suo entusiasmo.
«Lo so, ti vedo dalla vetrina.»
Mi volto sconcertato verso l'uscita e la intravedo salutarmi attraverso il vetro. La fisso per lunghi istanti, cercando di capire come continuare a evitarla. Sto esaurendo le idee e so che l'ora di parlare è ormai vicina.
Chiudo la chiamata e mi dirigo verso le porte scorrevoli. Alla fine, non ho comprato nulla. Anche stasera hamburger e patatine: la cena dello studente per eccellenza.
Passo al di là della cassa, ma subito mi blocco.
Coly è fuori. Stretta in quel cappotto che mi sembra troppo leggero ogni volta che la incontro. Ha le mani in tasca e la faccia avvolta da una sciarpa color sole. Indossa un cappello dello stesso colore e i capelli che le sfuggono dalla lana le carezzano le guance rosse.
Mi rendo conto di star trattenendo il respiro quando qualcuno mi viene addosso.
«Scusi.» È la bambina di prima. Mi lancia un altro dei suoi sorrisi e poi se ne va.
Rimango a fissare il pavimento, a chiedermi dove abbia già visto quell'incurvarsi di labbra. Mi è così famigliare e sconosciuto allo stesso tempo.
Se non posso salvarti, allora affonderò con te.
«Tutto bene?»
Alzo lo sguardo e incontro due occhi color ghiaccio. Trattengo una smorfia e infilo le mani in tasca. «Mai stato meglio.»
Kera annuisce e mi prende per una manica. «Andiamo, ho una sorpresa per te.»
Mi lascio trascinare fuori dal negozio, nel freddo della sera.
Coly non c'è più. È sparita di nuovo. E di nuovo non ho fatto nulla.
«Ti piacerà da morire» esclama Kera tirandomi leggera ma con decisione.
L'aria mi gela le guance e non posso fare a meno di pensare che stia gelando anche lei. So di dover lasciar perdere, di non avere il diritto di entrare nella sua vita, ma lei, ormai, è entrata nella mia.
Eppure...
«Ti piace, non è vero?»
Mi fermo prima di finirle addosso. Aspetto che si giri, ma non lo fa. Continua a stringermi la manica della felpa e io continuo a guardarle la schiena. Le sue spalle tremano, mentre il mio cuore batte veloce. «Lo sa?»
«No» rispondo dopo lunghi istanti. La mia voce è un sussurro, ma so che mi ha sentito. Lo capisco dalla sua stretta.
Si volta a guardami, una tristezza che conosco fin troppo bene nelle iridi quasi trasparenti. Mi lascia andare la manica e riprende a camminare, il passo lento di chi è perso in se stesso.
Percorriamo le strade della città non vedendo nessuno, non sentendo un suono, smarriti nei ricordi più dolci e per questo più dolorosi.
Distruggimi, uccidimi, tagliami e bruciami. Ma non lasciare che si spezzi, non se lo merita. Lei è tutto, il mio tutto.
La seguo senza dire una parola, saltellando da un pensiero a un altro. Ripenso a questi ultimi tre anni, al fatto che non si sia fatta viva. Mi chiedo dove sia stata, cosa abbia fatto, come si sia sentita.
La osservo. I capelli verde acqua lanciano bagliori ghiacciati a ogni passo, le spalle continuano a tremare, le mani in tasca, ma sicuramente strette in un pugno, nella vana speranza di non perdersi nel vento.
Non deve essere facile. Guardarmi, parlarmi, sorridermi.
Proverà ciò che provo io di fronte al mio riflesso?
Mi aggiusto le spalline dello zaino e le stringo, cercando di soffocare il bisogno di suonare. La voglia di scappare, nascondermi nella nebbia e riempire il vuoto che ho nel petto con la musica mi brucia la pelle. Eppure, rimango qui, a fare un passo dopo l'altro, pur rimanendo nello stesso posto.
Kera si ferma davanti all'entrata di un parco. Prendo un paio di respiri profondi e si gira. Non riesco a decifrare il suo sguardo, ma mi fa stringere il cuore. Mi sorride leggera e poi sparisce fra gli alberi.
La raggiungo in un piccolo spiazzo con due panchine. È seduta su una, le ginocchia al petto e il mento poggiato su di esse.
Mi siedo sull'altra, la chitarra al mio fianco e infinite domande in testa. «È qui?»
Non risponde, ma so già quale sia la risposta.
I lampioni lanciano una luce tenue sugli alberi, smorzandone gli angoli in un abbraccio delicato. Il cielo è coperto, segno che nevicherà ancora.
È un bacio dolce e ghiacciato, l'unico in grado di scaldarti, di farti tornare bambino.
«Dovresti dirglielo.»
Porto lo sguardo su di lei. Sta giocando con una ciocca di capelli. Se la avvolge fra le dita e la scioglie per avvolgersela di nuovo. La fisso affascinato.
«Non credi?»
Smette di accarezzarsi i capelli e mi guarda negli occhi. Scuoto la testa piano e la abbasso, in fuga da ciò che sto leggendo nelle sue iridi. Stringo le mani e poi le riapro, lasciando che i miei frammenti scivolino fra le foglie secche. «Non capirebbe.»
«Io credo di sì.»
Non riesco a non trattenere una risata amara. «La mia dolce metà non dovrebbe dire questo.»
Ride anche lei, ma allegra. «Dici?»
«Non sei gelosa?» le chiedo con un sorriso malizioso.
Si stringe nelle spalle e scioglie l'abbraccio intorno alle ginocchia. «So di star ponendo la mia fiducia nelle mani giuste.» Si alza e mi si avvicina con passo lento. Si piega verso di me e mi prende il viso fra le dita. Un ciondolo le scivola dalla giacca aperta e lo fisso, lasciandomi ipnotizzare dal suo dondolio.
Ne indosso uno uguale e mi brucia il petto mentre Kera avvicina le labbra alle mie.
40
Non esiste risveglio migliore dell'aprire gli occhi e ascoltare il silenzio del mattino. Il suono delle lenzuola, le gocce che battono sulla finestra, il respiro di chi ti sta accanto.
Assaporo i secondi prima di alzarmi e iniziare un'altra giornata. Inspiro il profumo di bucato e la leggera fragranza della pelle di Kera. Sa di lavanda, fresca e delicata. O forse è l'ammorbidente che ho usato in lavatrice. Mi accarezza le narici e tiene lontani i pensieri che di qui a poco mi affolleranno la mente. Il respiro di Kera mi culla nel dormiveglia, mescolato ai suoni di un qualche vicino sveglio prima dell'alba.
La luce grigiastra passa attraverso il vetro, colorando la mia stanza di una monotonia dolce e malinconica.
È in momenti come questo che riesco a sentirmi me stesso, poco prima del sorgere del sole. Smetto di essere e semplicemente respiro, ritrovando ciò che ogni tanto perdo.
Una porta sbatte in lontananza, spezzando la magia dell'alba.
Mi tolgo di dosso il piumone e scivolo giù dal letto. Rabbrividisco al contatto con il pavimento mentre recupero i jeans dalla sedia ed esco dalla stanza, lasciando Kera dormire. Indosso una maglietta pulita e con ancora qualche traccia di sonno negli occhi esploro il frigorifero. Solo vedendolo vuoto mi ricordo di non aver comprato nulla ieri sera.
Chiudo lo sportello e decido di saltare la colazione. Spero di essere fortunato e incontrare il signor Toms al cimitero. Una tazza di tè e una fetta di torta sono il giusto rimedio a una giornata tanto uggiosa.
Mi avvolgo in una felpa e uno smanicato e faccio per uscire dall'appartamento, ma mi blocco sullo stipite. La chitarra. È in camera, con Kera. Non voglio svegliarla, perciò lascio perdere. Per la prima volta in anni vado a trovare mio fratello a mani vuote.
La strada è deserta. Tutto ancora dorme, protetto dalla pioggia che sta scendendo leggera. Mi inzuppa il cappuccio e le spalle, ma non ci faccio caso. Come ogni mattina, percorro i chilometri che mi separano da lui senza dare ascolto a ciò che mi circonda.
Perché dovrei? La città non mi dice più nulla. È tornata a essere un insieme di suoni, ammucchiati uno sull'altro alla rinfusa. Semplici e inutili.
Il cancello del cimitero mi aspetta tranquillo. Mi ha visto così tante volte da riconoscere il passo strascicato e il battito del cuore ormai stanco.
Alcune persone muoiono tardi, dopo aver vissuto una vita intera. Altre, invece, troppo presto, pur finendo sottoterra dopo decenni. Dicono che la vita sia così. Mi va bene e lo accetto, ma quando uno pensa di aver perso tutto dovrebbe continuare a pensarlo.
Eppure, la vita è davvero così. Semplice da far male.
Mi addentro fra le lapidi che si mescolano alla pioggia, piccole finestre bianche su un passato di colori. Sfilo di fronte alle pietre che mi hanno sempre accompagnato in questi ultimi tre anni. Sono come un conto alla rovescia prima dell'inizio dei ricordi e di tutto ciò che mi portano.
Cinque.
Quattro.
Tre.
Due.
U-
Mi blocco a qualche metro di distanza, gli occhi fissi avanti.
Un cappotto troppo leggero mi dà le spalle, in parte coperto da un ombrello del colore del sole. Una sciarpa spunta dal giallo dorato, andando ad avvolgere un campo di grano. Non ho bisogno di riconoscerla.
Mi son smarrito e mi hai trovato ancora.
È Coly, ed è qui. Davanti alla lapide. Fra me e la parte che vorrei avere indietro.
Dovrebbe darmi fastidio, innervosirmi. Farmi sbraitare come un pazzo. Eppure, la sua intrusione mi tranquillizza, come se fosse il rimedio al buio senza stelle.
La guardo, cercando di carpire il più possibile, far mio questo sole che si porta addosso, nonostante l'inverno si mescoli ai suoi capelli.
Si volta piano, mostrando un viso innevato di lentiggini leggere, quasi invisibili, e coperto da un cappello giallo come il resto. È al telefono e sorride come non l'ho mai vista fare.
«Va bene, Drew. Solo perché sei tu» afferma al suo interlocutore. «Sei speciale e sai quello che provo.»
Sgrano gli occhi, il fiato bloccato in gola.
«A stasera, alle otto.» Ride leggera. «Anche io.»
Infila il cellulare in tasca e scuote la testa, il sorriso ancora sulle labbra.
Mi nota dopo un paio di passi. Si ferma di fronte al mio sguardo, un oceano nelle iridi ancora calde.
Dovrei dire qualcosa, anche se stupido, forse un ciao o un come stai, ma riesco solo a guardarla, avvolto dal rumore della pioggia che batte sull'ombrello. Mi riempie con una completezza tale da farmi girare la testa, nonostante sia rimasto scioccato da ciò che ho appena sentito.
«Sei qui» mormora, infine.
Un sorriso triste mi colora le labbra. «Dove altro potrei essere?»
Mi squadra per alcuni battiti di ciglia, la bocca stretta in una linea sottile. Alza le spalle. Ha un'espressione poco amichevole negli occhi, alquanto pericolosa. «Con la tua ragazza, ad esempio?»
Tutta la dolcezza è sparita. Il cuore mi si accartoccia, ma dura solo un istante.
È meglio così.
«Dovrei dire la stessa cosa, non credi?»
Sembra confusa, ma non le lascio il tempo di ribattere. «Non dovresti essere con Drew?»
Mi lancia uno sguardo di fuoco e mi preparo a ricevere una risposta sgarbata, ma, con mia sorpresa, mi volta le spalle e fa per andarsene.
Il mio corpo reagisce prima della mia mente. Scatto in avanti e la prendo per un braccio.
Si volta con stizza, quasi trapassandomi la guancia con l'ombrello. Piega la testa in alto e riesco a leggerle una rabbia sommessa nelle iridi azzurre.
«Non sono affari tuoi con chi dovrei essere» sibila adirata.
«E, invece, lo sono» dichiaro di rimando. Ho appena firmato la mia condanna a morte.
«Lasciami andare.»
«No.»
Mi uccide con uno sguardo assassino, mentre cedo per un istante e affondo nell'azzurro limpido delle sue iridi. Non l'ho mai avuta così vicino ed è come morire e tornare a vivere. Mi smarrisco tra i fiocchi di neve ramati sul suo viso e rischio di perdere me stesso.
«Intanto, cosa ci fai qui?»
La guardo con un sopracciglio alzato. «A trovare mio fratello. E tu?»
«A trovare mio padre.»
Le sorrido. «Bene.»
Altra occhiata omicida. «Bene.»
Rimaniamo così per altri istanti, lei accigliata, io con un sorriso che non vorrei mai più togliermi dal viso, pur di girare e apparire come un idiota.
«Comunque, penso ti sia persa. Questa non è la tomba di tuo padre.»
Sobbalza e un rosso colpevole le colora le guance. Abbassa la testa e molleggia su un piede e poi su un altro, in evidente difficoltà.
Il sorriso mi si allarga, per quanto possibile. Se è qui, davanti a lui, significa solo una cosa: sono ancora nei suoi pensieri.
Alza il viso di scatto, una luce decisa negli occhi. «Mi sono persa.»
Scuoto la testa. «Bugiarda.»
Mi stringe la mano e solo ora mi accorgo di aver fatto scivolare la mia nella sua.
«Non sono io la bugiarda, qui.»
Il sorriso mi si congela sulle labbra. Ha toccato il punto più sensibile, quello che mi fa dannare ogni volta che la incontro sul mio cammino.
«Non sono l'unico ad aver tenuto nascosto qualcosa» ribatto. Continuare sulla mia strada è l'unica soluzione.
«Se ti aspetti che ti dica tutto della mia vita, sei sulla strada sbagliata.» Si libera dalla mia stretta e stringe il manico dell'ombrello con entrambe le mani. «Non ci conosciamo nemmeno.»
«A questo possiamo rimediare.» Le porgo la mano destra. «Daniel Jiménez.»
Me la fissa, palesemente incerta se lasciarmi lì o stare al gioco. Ci scambiamo un'occhiata veloce e una strana luce le illumina gli occhi.
Contro ogni mia aspettativa me l'afferra e la stringe con forza. «Coly Scott.»
Sorrido, il calore che ci scambiamo mi scalda dentro. «Coly sta per?»
Assottiglia le labbra. «Coly e basta.»
Alzo un sopracciglio, non convinto. «È un nome insolito.»
«Già, che fortuna, eh?»
Scoppio a ridere come non faccio da tempo. Senza filtri, senza preoccupazioni, semplicemente con il cuore in mano e la spensieratezza nello sguardo.
Sorride, ma è evidente che si stia trattenendo dallo scoppiare anche lei. Le sue labbra tremano e non riesco più a frenarmi.
La tiro e l'ultima cosa che noto prima di avvolgerla fra le braccia è la sorpresa nelle iridi azzurre come l'oceano d'inverno.
Angolo autrice
*si nasconde sotto il letto per schivare i pomodori marci*
E dopo quasi un mese, ri-eccomi qui! Nella speranza che qualche lettore sia rimasto. Nel dubbio, me la leggo io la storia. *piange disperata mentre si sbafa un barattolo della Nutella da cinque chili*
Lo so, il capitolo è lunghissimo, ma è un po' un modo per farmi perdonare per l'attesa passata e futura. Sono in viaggio per la Russia e fino a lunedì 19 novembre non potrò aggiornare - che poi, non farei nemmeno fossi qua, dato che sono na lumaca patentata a scrivere. Prometto, però, che fra un bicchiere di vodka e una mazurca - è una cosa russa? - scriverò offline, così da portarmi avanti, per quanto posso.
Che altro dire. Grazie a chi leggerà e ai lettori veterani. Senza di voi questa storia non sarebbe mai approdata su wattpad.
Dasvidania - lo so, non si scrive così, ma non so il russo.
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