Capitolo 5
52
Coly
Devo essere impazzita per davvero. Non me lo saprei spiegare altrimenti. A furia di tenere tutto sotto controllo - persino i respiri che faccio - mi sono andate in fumo le sinapsi. Bruciate. Fuse totalmente.
Perché gli ho detto di mio padre lo sa la papera di gomma che il dottor Meyer usa per le sue sedute. Io non lo so di certo.
Deve essere colpa del drink, ne sono sicura. Evie me lo ha ordinato appena abbiamo messo piede nel pub. «Non resisteresti un secondo» ha detto, facendo l'occhiolino al barista di giusto un paio d'anni più giovane. Oltre a bruciarmi lo stomaco, ha recato gravi danni all'organo più importante, quello che dovrebbe farmi agire in modo razionale e ponderato.
Continuo a guardare le stelle, la testa che mi gira e mi fa sentire come se fossi sopra una nuvola. Mi stringo nel cappotto. Devo assolutamente comprarne uno nuovo. La prossima volta che esco con Drew lo farò.
Al suo pensiero sorrido. I suoi occhi dolci e quel sorriso che tanto adoro mi carezzano il cuore. Poi, ricordo la conversazione con il dottor Meyer di questo pomeriggio e torno alla realtà.
Deglutisco e cerco di contenere il peso che sento sulle spalle. È stato uno shock, anche se lo stavo già sospettando.
«Ti è mai capitato di voler scappare?»
Porto lo sguardo su di lui. Sta fissando il cielo, o forse qualcosa legato al passato, a giudicare dalla smorfia che ha in viso.
«Da cosa?»
Si stringe nelle spalle e sospira. «Da tutto. Dalla tua esistenza, dai problemi.» Mi incatena con le sue iridi color caffè. «Da te stessa.»
Non riesco a distogliere lo sguardo. È come se mi fossi tuffata in un oceano, ma invece di finire in acqua sono atterrata su cocci di vetro, taglienti eppure familiari. I suoi occhi dicono tutto ciò che non vorrebbe dire, che sta cercando di tenersi dentro per non finire in pezzi e perdersi in se stesso. E mi rendo conto di star osservando il mio riflesso. Lo stesso dolore e lo stesso smarrimento che provo anche io.
Il vento soffia più forte e mi fa rabbrividire, ma non è più freddo del gelo che ho nel cuore. Forse, funziona come nella matematica. Due segni negativi, insieme, diventano positivi. Forse, se gli raccontassi ciò che mi porto dentro, potrei porne fine.
«Io dico che è morto.»
«Secondo me è con una tipa.»
Giro la testa di scatto e fisso i due ragazzi apparsi sulla porta. Si bloccano e ci fissano di rimando, uno sorpreso e l'altro che la sa troppo lunga. Quello biondo colpisce il petto di quello castano.
«Cinque bigliettoni.»
Il castano sbuffa e si ficca le mani in tasca, dalle quali tira fuori alcune banconote verdi che mi fanno strabuzzare gli occhi, allibita.
Alle mie spalle, un colpo di tosse attira l'attenzione dei due. «Ho detto che sarei tornato subito.»
«Pensavamo fossi venuto a fumare», ribatte il biondo e mi lancia un'occhiata maliziosa.
Per un motivo a me sconosciuto arrossisco, come se fossi stata beccata con le mani nella marmellata. Abbasso gli occhi, quelli grigi del tipo mi fanno sentire esaminata come una rana a lezione di biologia.
«Lo pensavo anch'io, ma qualcuno mi ha seguito.»
I due ridono e si girano verso la porta. «Togliamo il disturbo, allora.»
«Non ce n'è bisogno. Non ho tempo per lei.» Una risata sottolinea le sue parole. «Il Principe ha di meglio da fare.»
Mi volto con lentezza, indecisa se sentirmi offesa dal suo tono di voce o rinunciarci ancor prima di provarci. Incontro il suo sguardo beffardo, ma ciò che mi delude di più è il fatto che ci sono cascata. Gli ho permesso di vedere una parte che non ho mostrato a nessuno, nemmeno al mio riflesso nello specchio o sui finestrini. Gliel'ho offerta come si offre una birra. E lui l'ha abbandonata sul tavolo, incurante del gesto o del pensiero dietro a esso.
Stringo le mani a pugno, le braccia ancora incrociate sul petto nel tentativo di scaldarmi, ma capisco che non mi scrollerò questo freddo di dosso. Almeno, non presto. Poco m'importa della luce dolorosa dietro la sua spavalderia. Non tutti quelli che si spezzano sono forti nei punti spezzati.
Distolgo gli occhi e il cuore. Senza prestar loro alcuna attenzione, raggiungo la porta e rientro nel pub. Mi poggio al ferro e osservo l'oceano di persone che ballano e bevono e vivono. Evie è ancora seduta al bancone e sta parlando con il barista. Ha un sorriso che farebbe inciampare persino un cieco.
Sospiro, buttando fuori le ultime tracce di delusione. Non ci cadrò più. Da questo momento io, Coly Scott, non gli permetterò più di confondermi con i suoi occhi color caffè. Tornerò alla cara e sicura razionalità.
Con questa nuova determinazione raggiungo la mia collega, un sorriso e il vuoto nel cuore.
45
La vita è fatta così. Non ci dà quello che vogliamo, ma quello di cui abbiamo bisogno, che ci piaccia o meno. Ho avuto la fortuna di capirlo presto e farmene una ragione. Perciò, quando ricevo un cappuccino invece di un caffè, decido di prenderla con filosofia.
Lancio un'occhiata a Drew. Si copre gli occhi e mi regala un sorriso sdentato. «Chi sono?»
Tuffo la mano nella borsa e pesco il regalo che ho preso per festeggiare il primo dentino caduto. Glielo metto davanti e mi copro gli occhi anche io. «Un bellissimo principe senza macchia e paura?»
Ride con la sua vocina leggera. «Riprova.»
Ci penso su per qualche secondo, pronunciando una lunga m. «Un draghetto dolce e coccoloso?»
«No, no. Riprova!»
Tolgo le mani dagli occhi e scompiglio i suoi capelli biondi come il grano. «Ma certo, un unicorno!»
«Indovinato!» Alza le mani al soffitto, ma quando vede il pupazzo che copre gran parte del tavolino ammutolisce, la bocca a forma di o. Lo fissa per lunghi istanti, poi lo afferra e se lo stringe al petto. «È bellissimo, Coly! Grazie grazie grazie!»
Rido, contenta di aver azzeccato il regalo. Adora gli unicorni. La sua stanza ne è stracolma, di tutti i generi e colori. Uno è persino grande quanto me. Avevo attraversato tutta la città in autobus con quel colosso. La gente mi aveva guardata in modo strambo, ma farei di tutto per vedere il suo sorriso. Mi scalda il cuore e per un po' dimentico i problemi.
«Sei la sorella migliore del mondo!»
Pizzico una sua guancia, morbida come lo zucchero filato. «Anche tu non sei male come sorellina.»
Afferra il bicchiere con una mano, mentre con l'altra non lascia andare il suo nuovo amico, e beve qualche sorso del succo che ho ordinato per lei. La imito e butto giù il cappuccino in un sol sorso. Non ne vado matta. Il caffè deve essere caffè. Punto. Una qualsiasi versione con un qualunque tipo di liquido dentro non non la si può minimamente chiamare caffè. È un po' come la birra senza alcool, o il tè solubile. Mera imitazione.
Trattengo una smorfia e allineo le bustine di zucchero con la tazza e il cucchiaino. Almeno questo mi dà soddisfazioni. Mi osservo in giro, lasciando che la mente vaghi fra un pensiero e l'altro.
Il locale è pieno di gente. C'è chi si gusta un po' di pace, chi fa le corse, chi, come me, passa il tempo in famiglia, a raccontarsi la vita.
Qualcosa mi punge lo stomaco e capisco che non potrò tenerglielo nascosto ancora a lungo. Ho provato a dirglierlo per tutto il pomeriggio, ma vederla così felice di essere fuori da quel posto, almeno per qualche ora, mi ha fatto perdere il coraggio. Gli ultimi due anni non sono stati una passeggiata. Mi piange il cuore al pensiero di darle l'ennesima brutta notizia.
«Il dottore è in ritardo.»
Lancio un'occhiata all'orologio appeso sopra il bancone. Drew ha ragione. Sarebbe dovuto essere qui venti minuti fa. Controllo il cellulare per eventuali messaggi, ma sono senza rete. «Vado fuori a chiamarlo. Tu e l'unicorno starete bene da soli?»
Tuffa il viso in quel che rimane del succo e annuisce.
La lascio e raggiungo l'uscita. Mentre esco all'aria della sera digito il numero del dottor Meyer. Suona a vuoto. Insisto una, due, tre volte. A ogni suono, un groppo che conosco fin troppo bene mi si forma in gola. Cerco di mandarlo giù, ma questo infila gli artigli nella carne, riesumando ricordi ancora troppo freschi per essere innocui.
Al quinto tentativo il risultato è lo stesso. «Andiamo, dottore, risponda» mormoro, ingoiando l'angoscia che mi provoca fare una telefonata.
Silenzio.
Assenza totale di suono.
Il cuore aumenta il ritmo già di per sè veloce. Dannazione, sa che la regola è rispondere entro il terzo squillo. Ne sono passati trentatrè.
Sbuffo e mi passo una mano fra i capelli, dimenticandomi completamente di averli legati. La matita che ho usato a pranzo per raccoglierli cade sulle pietre del marciapiede. Impreco mordendomi le labbra. Faccio partire una sesta chiamata e mi piego per raccoglierla, ma un'altra mano lo fa per me.
Alzo lo sguardo e un paio di occhi color caffè mi incastra il fiato in gola, insieme alla palla di paura. Smetto di contare gli squilli e rimango con il cellulare attaccato all'orecchio a fissarlo.
«Ce l'hai con i carciofi.» Mi lancia un'occhiata divertita.
Non dico nulla. Continuo a guardarlo, incapace di pronunciare una parola. Le sensazioni che mi stanno avvolgendo sono così tante da lasciarmi vuota, senza forze.
Lascio ricadere la mano, mentre il telefono continua a chiamare. Mi mordo le labbra, il vento fra i capelli. Me li fa andare da tutte le parti, ma l'unica cosa che riesco a sentire sulla pelle è il suo sguardo.
Ci guardiamo per lunghi secondi, entrambi in attesa. Lui di una risposta, io di raccogliere i miei pezzi e rimetterli a posto.
Il vento continua a soffiare. Ci avvolge nel suo abbraccio freddo, tappando ciò che non riusciamo a tappare da soli.
È il primo a spezzare il silenzio. «Sei sparita.»
Conto i miei respiri. Al nono rispondo. «Forse non mi hai cercata abbastanza.»
Sorride e si rigira la matita fra le dita. È la mano sinistra. Gli occhi mi scivolano sul suo polso in automatico. La lettera d è lì. Mi ci aggrappo come un naufrago. Me ne approprio come una ladra. Unica ancora nell'oceano che ho nel cuore.
«Cosa significa?» gli chiedo con voce flebile.
Riporta le iridi nelle mie. Non risponde, chiaramente indeciso se farlo o meno. Una tempesta può salvarne un'altra? Si può essere spezzati e in pace allo stesso tempo?
«È-» deglutisce. «È complicato.»
Annuisco. Immagino che lo sia. Lo è sempre.
«Mi dispiace.»
Lo guardo sorpresa. Per un attimo penso che sia stato il vento, ma c'è rammarico nel color caffè dei suoi occhi. Aggrotto la fronte. «Per cosa?»
«Per essere quello che sono.»
Lo osservo meglio. Le mani gli tremano, il respiro gli si spezza nel vento, le spalle sono tese. Sembra al limite, ma di cosa?
Mi avvicino, fermandomi a un passo dal suo petto. Alzo la testa e la scuoto. «Non chiedere mai scusa per quello che sei. Sei tu e basta.»
Smette di respirare e mi guarda sconvolto. È come se sentisse queste parole per la prima volta. Non risponde, troppo sconcertato. Mi chiedo cosa nasconda dietro queste iridi. Quale sia la sua storia.
«Vieni con me» sussurra. «Voglio mostrarti una cosa.»
Non ho tempo per rispondergli. Una voce di uomo spezza il silenzio. «Coly!»
Mi volto. Il dottor Meyer è appoggiato alla fermata dell'autobus, tutto trafelato. Si massaggia il petto, dolorante per la corsa.
Senza pensarci, mi lancio verso di lui e mi rifugio fra le sue braccia. Mi aggrappo al suo cappotto.
Mi dà piccole pacche sulla schiena, mentre riprende fiato. «Sono qui, tranquilla. Va tutto bene.»
La sua voce è dolce come il miele e sicura come un faro nella tempesta. Mi calma all'istante, l'ansia di non vederlo tornare sparisce come la rugiada ai primi raggi del sole. «Non ha risposto.»
«Lo so, mi dispiace.» Mi stringe ancora per qualche secondo, poi mi scioglie dall'abbraccio e mi mette le mani sulle spalle. I suoi occhi color argento non sono calmi come mi aspetto. «Devo dirti una cosa. Riguarda il mio ritardo.»
Mi allontano di qualche passo. Non mi piace la luce che ha nello sguardo. Come non mi piacerà ciò che mi dirà, me lo sento sulla pelle.
Un colpo di tosse mi riporta davanti al bar. Mi volto e incontro un Daniel confuso.
Il dottor Meyer si avvicina e gli tende una mano. «Theodore Meyer.»
In risposta, lui gliela fissa, un'espressione corrucciata in viso.
«Devi essere Daniel» continua il dottore. Sgrano gli occhi, sapendo già cosa dirà dopo. «Coly mi ha parlato molto di te.»
Vorrei scappare, o sprofondare sotto terra. Prego che il marciapiede si apri e uno zampillo di mantello mi faccia sparire dalla faccia della litosfera.
«Lei sarebbe?» gli chiede con voce tagliente.
Il mio pischiatra e pscicologo mi lancia un'occhiata. Stringo gli occhi e lui annuisce impercettibilmente. «Un amico.»
Daniel alza un sopracciglio. «Amico.»
«Di famiglia» aggiungo io. Non voglio che sappia di essere una dei suoi pazienti. Nemmeno i signori Mills lo sanno.
Ci fissa entrambi, non convinto. Ha altre domande, glielo leggo in viso, ma non ho voglia di rispondere a quesiti che non vorrei mi siano posti. Perciò mi volto verso il dottore. «Cosa deve dirmi?»
L'unico uomo a cui ho permesso di entrare nella mia vita e quella di Drew negli ultimi due anni sembra invecchiare di un decennio in un istante. Lo vedo pensare alle parole adatte e capisco che sarà un colpo duro.
«Tua madre è qui. Vuole Drew.»
Angolo autrice
Eccomi, finalmente! Scusate il ritardo. Ieri ho avuto da fare tutto il giorno e non ho avuto un secondo libero per scrivere.
Vorrei dire tante cose, ma sto zitta. Vi lascio alla lettura.
Alla prossima.
Baci. :3
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