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Capitolo 4

52

Daniel

Le sue parole mi rimbombano nel petto. S'incastrano fra le costole, taglienti come cocci di vetro, e graffiano la pelle.

Per mio padre.

Per mio padre.

Mi sento uno stupido. I suoi occhi mi fissano e sono così limpidi da riuscire a leggerci tutto. Il dolore, i frammenti persi, i graffi, le cicatrici. E mi rendo conto che è lì, il motivo per cui mi sono sentito al sicuro la prima volta.

Per mio padre.

Sono decisamente uno stupido. Lo capisco dal velo di lacrime che illumina le sue iridi. Lo stomaco mi si chiude, la maschera vacilla. Ancora poco e la lascio cadere, proprio davanti a lei che non mi conosce, che non sa nulla di noi, di quello che eravamo prima. Sono così stanco di non essere.

Distoglie lo sguardo e si sistema gli occhiali. Sono troppo grandi per lei, ma la rendono dolce, anche se di dolce l'occhiata che mi lancia non ha nulla.

Deglutisco, un po' spaventato.

«Non ti sto seguendo. Puoi stare tranquillo.»

Quasi ci spero. A volte vorrei mandare tutto all'aria, prendere la mia chitarra e sparire. Librarmi come le foglie agli angoli dei marciapiedi. Vorrei inseguire il vento, parlare con le stelle. Tornare a essere.

Mi volta le spalle e se ne va, senza lasciarmi il tempo di ribattere, né di scusarmi. Ma forse è meglio così.

Dammi la schiena, così da spingerti e cadere invece di lasciar cadere te.

È meglio così.

Me lo ripeto mentre attraverso il cancello, mentre vago fra le lapidi. Me lo ripeto ancora quando arrivo davanti alla pietra, le lettere dorate già scrostate. A ogni passo un pezzo di me si perde fra l'erba. A ogni secondo sono di nuovo io. Quello di una volta.

È davvero meglio così.

Lascio la chitarra appoggiata al marmo e mi siedo sul prato, all'altezza dei suoi occhi. Li fisso, pur sapendo di non poterci vedere nulla. È strano come del semplice inchiostro sulla pellicola possa far così male.

Mi prendo la testa fra le mani e li noto. Sono in un piccolo vaso bianco come la pietra e hanno i petali dello stesso colore. Si confondono con la tomba, le piccole campanelle piegate verso il basso, come se stessero piangendo.

Il respiro mi graffia la gola. È stata lei. Ne sono sicuro. Nessun altro sa della sua morte.

Qualcosa di umido mi sfiora una mano. Alzo la testa e uno sguardo color cioccolato mi riempie il campo visivo. Un attimo dopo una palla di pelo mi salta addosso, la lingua sul viso.

«Peki, cagnaccio che non sei altro, dove le hai lasciate le buone maniere?» risuona una voce alle mie spalle.

Evito una zampata sul mento e prendo Peki per il collare, allontanandolo a distanza di sicurezza. Lo coccolo sulla pancia - l'unica arma che riesca a calmarlo - e mi tolgo la saliva dalle guance. Nel mentre, una mano rugosa mi si posa sulla spalla.

«Di nuovo qui?»

Ingoio l'amarezza e annuisco. «Di nuovo qui.»

Il signor Toms rimane in silenzio e i nostri respiri si mescolano al vento. Continuo a carezzare Peki, ma la mia mente torna a smarrirsi. La parte peggiore non è perdere una persona. Il difficile arriva dopo, quando la sua mancanza colpisce dal nulla e senza un motivo apparente. Ed è così forte, così devastante, da lasciare senza fiato. Dimenticare diventa impossibile, anche ad anni di distanza.

Mi chiedo come si sia sentita. Avrà sofferto molto?

«Ho lasciato il tè sul fuoco. Ne vuoi un po'?»

Annuisco e mi alzo, nonostante i mugolii di protesta del cane. Recupero la chitarra e me la metto in spalla.

Non è la prima volta che passo del tempo con il custode del cimitero. Mi capita spesso di prendere una tazza di tè e osservare il prato al di là del vetro, le lapidi che si confondono con i fiori. Non fosse per qualche statua di angelo qua e là, penserei di trovarmi in un parco. Ma una in particolare mi ricorda dove sono e perché sono.

Attraversiamo i prati ben curati fino all'ala est. Una piccola casupola veglia sulle tombe più antiche, le mura segnate dal tempo e invase dall'edera. Il signor Toms infila la chiave nella serratura e con dita tremanti cerca di aprire la porta color cielo.

Succede tutte le volte. Gli do il tempo di non sentirsi vecchio e malridotto e poi lo sposto da parte, con delicatezza. Afferro la chiave e la giro con forza, tirando dalla maniglia. La porta si apre con un cigolio.

«Prima di andar via ci metto del lubrificante» dico, come a giustificare il fatto che gli anni non sono stati clementi con lui.

Mi sorride con quella rassegnazione che solo chi ha vissuto molti decenni conosce. Entra nella stanza e un leggero profumo di menta mi investe. Cresce d'estate intorno ai gradini in pietra e al signor Toms piace lasciarla seccare e appenderla vicino ai fornelli.

«Senza zucchero e bollente.»

Lo ringrazio e prendo posto su una sedia. Peki si alza sulle zampe e poggia la testa pelosa sulla mia coscia. Lo gratto dietro le orecchie e mi porto la tazza alle labbra. La ceramica mi brucia la pelle, ma fa meno male dei demoni che ho nel cuore.

«Li ha portati una ragazza.»

Il fiato mi si ferma in gola, insieme al sorso di tè. Capisco subito a cosa si sta riferendo. Ogni cellula del mio corpo pietrifica, persino il battito del mio cuore rallenta. Avevo visto bene. Era lei ieri mattina. La riconoscerei ovunque con quei capelli verde acqua.

Se è tornata, vuol dire solo una cosa.

Un brivido mi corre giù per la schiena. Tento di scaldarmi con un altro sorso di tè, ma nonostante bruci il freddo rimane attaccato alle ossa e al cuore.

«È la giovane di cui mi hai parlato?»

Butto giù per la gola il liquido restante e finalmente lo guardo negli occhi. Sono di un azzurro chiarissimo, quasi bianco. Racchiudono tutta una vita e gli basta un'occhiata per capire che sì, è la giovane di cui gli ho parlato. È impossibile sfuggire al suo sguardo, ma da un lato sono sollevato. Non devo parlare e ricordare.

Il custode si passa una mano fra la barba candida come la neve che dovrebbe cadere a giorni, perso nei suoi pensieri. È di poche parole e riflette sempre a lungo su quali usare. In questi tre anni ho imparato a conoscerlo, e ad aspettare. Si aspetta sempre con gli anziani.

«Non è strano?» Torna a fissarmi, gli occhi vispi. «Portiamo più fiori ai morti che ai vivi.»

Sposto lo sguardo sulla finestra e lo lascio vagare sui petali che colorano le pietre rovinate. Nessuno è rimasto per lasciarli su quel pezzo d'erba. Ci pensa, però, il signor Toms. Li cambia ogni giorno e cura ciò che il tempo danneggia, con Peki fedele al suo fianco.

«Il rimpianto è più forte della gratitudine.» Fa una pausa ad effetto, come a volermi preparare per ciò che sta per dire. «Non lasciare che ti distrugga. Ci ha già pensato il dolore.»

Abbasso la testa e incontro gli occhi di Peki. Ha smesso di scondizolare e comincia a leccarmi le dita. Non riesco a non trattenere un sorriso. È un uragano di cane, ma sa anche essere dolce. Mugola e gli liscio il pelo dietro le orecchie. «Vuoi un biscotto?» Ne tiro fuori uno dalla tasca della felpa e glielo metto sotto il muso. Se lo mangia in un colpo solo e torna a scodinzolare.

«Ti ha fregato, lo sai?»

Annuisco ridendo. «È furbo.»

«Anche la ragazza dell'entrata lo è.»

Rizzo la testa come fa Peki con gli scoiattoli e le foglie che cadono in autunno. Ha un'espressione che la sa lunga. Sento le orecchie andare a fuoco e distolgo subito lo sguardo, prima di fargli capire cose che non vorrei capisse.

Si alza con lentezza e fa per prendere le tazze, ma lo faccio al posto suo. Per non farlo affaticare e per evitare di parlare. Le lavo, ma finisco troppo in fretta, perciò pulisco anche i piatti e le pentole che ha lasciato nel lavandino.

«Non vuoi sapere nulla?»

Se c'è qualcuno che sa tutto di chiunque metta piede nel cimitero, questo è il signor Toms.

Vive qui da più di mezzo secolo e la cosa impressionante è che ricorda tutto. Quando si dice "avere la memoria da elefante".

«Non sono interessato», mormoro e insisto su una macchia nera. Sfrego la spugna con forza e il fondo della pentola torna splendente come uno specchio graffiato dagli anni.

«Davvero?»

Annuisco e finisco di lavare le stoviglie. Do un'occhiata all'orologio appeso vicino a un mazzo di menta e sospiro sollevato. «Devo andare.»

Sento che mi sta fissando. Gli do ancora le spalle, non voglio che veda l'espressione che ho. Al pensiero di lei sorrido, probabilmente come un ebete, ma mi riscuoto subito. Non posso permettere che entri nella mia vita. E poi, dopo la mia uscita di prima, non penso lo farà.

«A domani, allora.» Leggo tra le righe e capisco che questa conversazione non finirà qui.

Raccolgo lo zaino e afferro la bottiglietta del lubrificante. Raggiungo la porta e spruzzo il liquido nella serratura. Giro la chiave un po' di volte, per assicurarmi che sia scorrevole, e saluto il custode e Peki.

È scesa la sera e l'aria è tanto fredda da farmi rabbrividire nella felpa. Lancio un'occhiata al cielo e ricambio lo sguardo della prima stella.

«Non sta bevendo un po' troppo?»

«Nella norma.»

«Sette bottiglie ti sembrano nella norma?» Dominik fissa Alec scioccato, poi sposta gli occhi verdi su di me. «Sei sicuro di star bene?»

Butto giù un sorso lungo e finisco anche questa bottiglia di birra. La abbandono sul tavolo insieme alle altre, irritato dal fatto di essere ancora lucido. «Non vuoi pagare troppo, ammettilo.»

Non sorride come mi aspetto. Mi scruta con attenzione, come a volermi leggere dentro, ma distolgo lo sguardo. «Ti ha rifiutato qualcuna?»

Magari fosse questo.

«Non dire sciocchezze, Riccioli d'Oro. Sai che nessuna resiste al fascino del Principe» lo rimprovera Alec, la bottiglia di birra ancora intatta.

«La bevi quella?» gli chiedo indicandola.

Alza un sopracciglio. «Deve averti rifiutato male.»

Gliela strappo di mano e ne scolo metà. Voglio ubriacarmi, stasera. Voglio smetterla di pensare, di ricordare, di provare qualsiasi cosa. Voglio semplicemente respirare e lasciare che il tempo mi scorra sulla pelle e via dalle dita.

«Deve essere quella della mensa» dichiara Dominik.

Alec ride. «Concordo.»

Bevo anche l'altra metà e la lascio sulla superficie ormai piena di bottiglie. Frugo nella tasca del cappotto e tiro fuori il pacchetto di sigarette. Mi alzo e li lascio speculare su cosa mi abbia indotto ad accettare l'invito di Dominik e perdere la ragione nell'alcool. O almeno, a provarci. «Torno subito.»

Attraverso il locale gremito di gente.

Cercherai conforto in occhi che non sono miei, ma non sarà lo stesso, non avranno lo stesso colore.

Mi faccio largo fino alla porta principale.

Ci proverai, ma non ne varrà la pena di respirare stelle che non sono più tue.

La spingo e l'aria fredda della notte mi fa girare la testa. Mi appoggio alla parete e mi accendo una sigaretta. Inspiro a fondo e lascio che il fumo cancelli il grido intrappolato in gola.

Quando smetterà questo dolore? Andrà mai via il rimorso?

Affonderai, e nessuno verrà a salvarti.

Il signor Toms ha ragione, non devo permettere che mi distrugga, ma non sapendo la verità non posso fare nulla. Solo lasciare le cose come stanno e smettere di sperare di poter tornare a essere come un tempo.

Il vento soffia più forte e un profumo di menta mi avvolge. Giro la testa e una ragazza spunta dalla porta.

Rimango a fissarla immobile, incapace di articolare un solo pensiero.

Come l'alcool mi ubriacherò di te, non ne avrò mai abbastanza, come del sapore delle tue labbra.

Mi nota e si blocca anche lei, gli occhi azzurri nei miei. Mi aspetto che se ne vada, invece resta. E continua a guardarmi, a non distogliere le iridi color cielo e mare e oceano. Sono tutto. Un lago in cui mi lascerei affondare senza riserve.

Mi toglie il respiro e rimarrei così per il resto della vita.

Si stringe nel cappotto e fa un cenno con la testa. «Posso?»

Impiego un paio di secondi a capire che vuole la sigaretta. Aggrotto la fronte, confuso, e gliela porgo. La prende fra le dita e la osserva per qualche istante. Poi, la getta in strada.

«Il fumo e l'alcool non sono la soluzione.»

Sto ancora guardando la punta rosso fuoco quando capisco le sue parole. Un sorriso malizioso si sta facendo strada sul mio viso. «Mi guardavi.»

Incrocia le braccia e alza le spalle. Ha i capelli sciolti e il vento li sposta da tutte le parti. Vorrei tuffarci le mani dentro. «Solo perché eri nel mio campo visivo.»

«E mi hai seguito.»

«Non mi piacciono i pub e volevo prendere un po' d'aria.»

Il sorriso mi si allarga. «Quando ho deciso di uscire.»

Mi fulmina con lo sguardo e rido. Tiro fuori una seconda sigaretta e me la infilo fra le labbra. Poco prima di accenderla, me la sfila con un gesto veloce.

«Ti credevo più creativo» afferma mettendosi la sigaretta in tasca.

Scuoto la testa e rinuncio a fumare. Sarebbe in grado di prendermele tutte.

Si appoggia al muro, a qualche centimetro da me e si perde a osservare il cielo. Io osservo lei, il mio cielo. È così bella e vorrei dirglielo, ma passerei per un pazzo. Perciò rimango in silenzio, a guardare lei che guarda in alto. Mi chiedo cosa stia pensando, cosa stia provando.

«È morto quattro anni fa.» Porta gli occhi su di me, un sorriso triste sulle labbra. «Diceva sempre che sarebbe stato lì, a ballare con le stelle.»

Non capisco perché mi stia dicendo queste cose e intuisco che non lo capisca nemmeno lei. Ma non glielo dico. Ritorniamo a fissare il cielo e le sue lentiggini luminose. Forse, è lì, a ballare con loro e a viaggiare fra le galassie.

Non dimenticarmi perché io non lo farò.

Angolo autrice

Hello guys! Scusate il stra-mega-ritardo, ma con settembre sono tornata alla solita vita frenetica di sempre. Lo so, questo capitolo lascia un po' a desiderare, ma mi rifarò in futuro. Ditemi cosa ne pensate e quanto faccia schifo da uno a cento. Accetto anche numeri più alti. *ride di se stessa*

Buona lettura e a lunedì prossimo.

Mwah!

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