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Capitolo 3

53

Coly

«E anche per oggi è fatta.»

Evie - come mi ha minacciato di chiamarla il primo giorno di lavoro, pena la purea in faccia - si toglie la cuffia, liberando una chioma riccia e indomabile. Cerca di spostarsi un ciuffo ribelle dal viso, ma questo ritorna a coprirle gli occhi verde bottiglia. È graziosa, con le lentiggini su tutta la faccia, e non dimostra i suoi trentacinque anni. Affatto.

Sbatto l'anta dell'armadietto con troppa forza e libero anche io i capelli, ma mi dimentico di averli legati con una biro. Cade per terra, lasciandoli andare da tutte le parti e mettendo i miei nervi a dura prova.

«Come ti invidio. Non immagini quanto vorrei averli anche io così lisci. Starebbero al loro posto», sospira mentre si pettina i ricci con le mani.

Recupero la penna dalle piastrelle sporche dopo il pranzo e, con uno sbuffo, mi faccio uno chignon disordinato. «Questo lo dici tu. Se non li lego, sembrano spaghetti.»

«Almeno puoi usare la spazzola. Se ci provo, mi rimane incastrata», ribatte scoppiando a ridere.

«Non sarebbe male come acconciatura.» Rido insieme a lei e raccolgo le mie cose. Il turno di oggi è stato parecchio impegnativo. Non ho mai visto così tanti studenti tutti insieme. È stato come vivere un assedio alla Risiko. Devastante.

«Sono distrutta. Per colpa del Trio, tutta l'università è venuta in mensa.»

«Trio?», le chiedo, ma credo di capire di chi stia parlando.

Si toglie la divisa azzurra e la appende nell'armadietto. Tira fuori la borsa e recupera un rossetto che si passa sulle labbra. Si sistema ancora una volta i capelli e poi si gira verso di me, una luce maliziosa nelle iridi. «Daniel Jiménez, Alec Holst e Dominik Leclerc.»

Continuo a fissarla, cercando di nascondere il fastidio dietro uno sguardo confuso.

Sgrana gli occhi e si avvicina. «Non puoi non conoscerli, Coly. Ci hai anche parlato.» Di fronte alla mia faccia da pesce lesso sbuffa. «Ragazzo alto, occhi color cioccolato, figo da far scoppiare tu sai cosa.»

Ho ben presente. Arrogante e donnaiolo, il classico figlio di papà con la macchina sportiva e il conto corrente a zeri multipli di tre. Il suo viso mi ritorna in mente, come il ricordo delle sue iridi. Nonostante il carattere, non ho potuto fare a meno di perdermi in quel marrone simile al caffè.

«Ho capito», borbotto. «E cosa avrebbero di speciale?»

Mi posa le mani sulle spalle e scuote la testa. «Domani ti farò un corso accelerato su come funzionano le cose, qui.»

Una sensazione di sollievo mi carezza lo stomaco. «Parlando di domani. Non ci sono, devo andare in un posto.»

Abbassa il viso, sconsolata. «Vero. Me n'ero scordata. L'età comincia a giocarmi brutti scherzi. Bene, farò venire Chloe.»

Il suo tono da cimitero mi fa sorridere. La consolo con un paio di pacche sul braccio e mi libero dalla sua stretta. Mi metto lo zaino in spalla, pronta a tornare a casa, ma quando sono con la mano sulla maniglia, Evie mi ferma.

«Aspetta. Già che sei di strada, porteresti questo nella sala ristoro del quarto anno?» Mi porge una busta di carta, che pesa come due lingotti di piombo.

«Ci hai messo un cadavere?»

«No, bevande energetiche.»

La saluto con la mano libera e lascio la mensa. Il Campus è immenso, ma la cosa positiva è che per ogni aula c'è un cartello indicante la strada. Senza, mi perderei. Io e l'orientamento siamo come i binari di un treno: non ci incontreremo mai. E poi, infastidita come sono, non presterei attenzione a dove vado.

Mentre raggiungo le scale ripenso all'incontro con il ragazzo di questa mattina. Averlo davanti, senza un vetro a separarci, ha fatto un certo effetto. I suoi occhi, poi, mi hanno fatto stringere il cuore. Di nuovo. Sembravano urlare, spaccare ogni cosa su cui si posassero. Almeno, fino a quando non ha aperto bocca. La delusione è stata forte, devo ammetterlo. E anche la rabbia, soprattutto verso me stessa.

Sono sempre stata sensibile agli sguardi della gente. Riconosco quando qualcuno ha bisogno di aiuto con un'occhiata. E la maggior parte delle volte non è una cosa positiva. Specie perché vorrei fare di tutto per aiutare. Anche solo battere una pacca sulla schiena, per scrostare via la solitudine.

Rivedere le sue iridi, perdermici dentro, ha riaperto le porte del mio cuore. Anche se è stato arrogante, non ho potuto fare a meno di ripensare allo sguardo che ha avuto prima di salire sul pullman.

Male. Molto male. Ho deciso di non dare più peso a queste cose e aiutare una sola persona. E così farò. Non posso perdere di vista il mio obiettivo, il senso di tutto quello che sto facendo e a cui sto rinunciando.

Con questi pensieri in mente, raggiungo l'ala del quarto anno e la sala ristoro. Varco l'entrata e mi osservo in giro.

Tutto, dai divani in pelle alle pareti piene di libri all'angolo bar lucente sprizza ricchezza. Il Campus è l'università privata più costosa della regione, a maggior ragione ogni cosa vale più di quello che ho mai posseduto nei miei diciotto anni di vita.

Raggiungo il frigorifero e lo apro. Mi aspetto quasi di vedere bevande strane, miscugli sconosciuti, ma normali succhi di frutta e gasati riempiono i ripiani, disordinati come non mai. Mi prudono le mani dalla voglia di riorganizzarli. Ne approfitto e li posiziono in file da sette, seguendo l'ordine alfabetico. Ci aggiungo le bevande che mi ha dato Evie e osservo la mia opera con una certa soddisfazione.

Mi sfrego le mani per scaldarle, contenta di aver ritrovato la calma. Mi volto, il sacchetto di carta sotto un braccio, ma mi blocco, sorpresa.

Un ragazzo è disteso su uno dei divani. Ha gli occhi chiusi e un paio di cuffie nelle orecchie. Nella posizione in cui si trova non è visibile dall'entrata, perciò non me lo aspettavo.

Riprendo a respirare e lo osservo meglio, ma il fiato mi si incastra in gola. È lui.

Sembra addormentato. Ha un braccio sotto la testa e l'altro è abbandonato verso il pavimento. L'orologio che ha usato per pagare gli è scivolato, mostrando un piccolo tatuaggio. Ha un'espressione così serena da farmi venire dubbi sul suo comportamento a pranzo.

Vorrei andarmene via, decisa a non averlo più fra i piedi, ma mi avvicino, spinta da una forza alla quale non posso oppormi, e mi rannicchio per vedere cosa si porta sulla pelle.

Una semplice lettera d, in stampatello minuscolo. Una macchia nera sulla pelle caffelatte.

Da quello che ho intuito, si chiama Daniel. Perché tatuarsi l'iniziale del proprio nome? Il Principe ci starebbe meglio. O io sono il Sole e voi i pianeti.

Un momento. Forse, una ex?

Scuoto la testa con energia. Non credo proprio. Il suo ego non glielo permetterebbe.

Una sensazione di fastidio mi graffia lo stomaco e sgrano gli occhi. Devo essere impazzita. Non ho niente a che fare con lui. Né ora né mai.

Il braccio si muove e rimango pietrificata. Non riesco ad alzare gli occhi, la vergogna è troppa per guardarlo in questa posizione. Lo sento sedersi e gli fisso le gambe. Indossa delle scarpe in pelle che immagino costino più dei miei reni. Poggia i gomiti sulle ginocchia e abbassa il viso verso il mio.

Non lo guardo, non voglio. Preferisco sentire il suo fiato sulla fronte e far finta di niente. Mi sfiora il pensiero di darmela a gambe, ma sono come alberata al pavimento in legno.

«Devo aver fatto colpo sul serio», dice con un tono di voce che mi fa ribollire il sangue nelle vene.

Faccio per alzarmi, ma calibro male l'equilibrio e cado di sedere. Non ho più paura di guardarlo negli occhi, figuraccia o meno. Lo fulmino con uno sguardo di fuoco, mentre processo una risposta tanto insinuante quanto la sua affermazione. «Quando i carciofi avranno le ali e voleranno.»

Alza le sopracciglia e stringe le labbra per non scoppiare a ridere. «I carciofi? E dove?»

«In faccia a te», rispondo alzandomi a testa alta. «Con le spine.»

«E rovinare il mio viso affascinante?»

Lo fulmino di nuovo, ma mi incastro nei suoi occhi. Stanno ridendo, ma non di me. Sembra un sorriso sincero, di quelli che fanno andare via le nuvole e uscire di nuovo il sole.

Aggrotto la fronte, indecisa se continuare la battaglia o continuare a perdermi nelle sue iridi.

«Ho capito le tue intenzioni», afferma, incrociando le braccia sul petto. Pensandoci bene, Evie ha ragione, non è niente male, ma mi morderei la lingua pur di non ammetterlo.

«Sono tutta orecchi.» Mi sistemo gli occhiali sul naso e incrocio le braccia a mia volta.

Si alza e si avvicina, fermandosi a un paio di centimetri, le mani in tasca. È dannatamente alto e mi tocca inclinare la testa per sostenere il suo sguardo.

Ci fissiamo per lunghi istanti, in attesa di qualcosa. Non so di preciso cosa, ma sono confusa dalle sue iridi. Mi scrutano come a volermi leggere tutti i segreti. E ho paura che ci riesca, come io riesco a scorgere i suoi.

Si abbassa lentamente, fino a raggiungere il mio orecchio. «Mi dispiace fare il guastafeste, ma non funzionerà, il tuo trucchetto.»

Ignoro il brivido che mi sta scendendo giù per la schiena e mi avvicino al suo orecchio. La barba corta mi solletica una guancia. «Neanche il tuo.»

52

Strappo l'erba con forza, sfogando tutto il fastidio che provo. La estirpo come vorrei fare con qualcuno, con così tanta violenza da staccare anche zolle di terra. Ripulisco la pietra a fondo, fino a farla splendere, ma non mi dà la soddisfazione che sto cercando.

Sospiro e mi sistemo gli occhiali sul naso. Ogni volta che ci ripenso mi viene voglia di cancellargli il sorriso con lo zaino o una scarpa in faccia, altro che carciofi.

Cerco altra erba da disintegrare, ma non ne è rimasta la minima traccia. Solo qualche margherita, ma non me la sento di sfogare i miei nervi su dei poveri fiori.

Cosa mi sta succedendo? Non reagisco mai così, a meno che qualcuno non tocchi il mio unico punto debole. Ma non è questo il caso. Non ha toccato nulla, niente di niente, eppure mi sento punta sul vivo.

Scuoto la testa e fisso le lettere dorate senza vederle realmente. La mia mente ritorna al giorno in cui le ho viste la prima volta. Poche volte ci si sente così persi e smarriti. Come se una parte del proprio corpo venisse amputata. Senza anestesia. E con una lentezza devastante.

Ma ci si rialza sempre. O almeno, in teoria è così. Lasciare la terra su cui si piangono rimpianti amari è difficile, ma quando c'è di mezzo il bene di qualcuno, cosa sono un po' di tagli sul cuore?

Il vento comincia a soffiare e il sole sparisce dietro una nuvola. Un freddo pungente mi entra nelle ossa, ricordandomi lo stesso gelo che avevo provato allora. Ripensandoci, non è stato male in tutto e per tutto. Al novantanove virgola novantanove per cento è stato dolore e schegge e polvere, ma per quella minima parte mi ha portato a tutto questo.

Filosofico da parte mia, ma so che fra qualche anno, quando tutto sarà a posto, ci ripenserò con un sorriso - e una tazza di caffè fra le mani.

Il telefono squilla e rompe il silenzio fra le tombe.

«Sono arrivati i risultati.»

«Giorno anche a lei, dottor Meyer.»

«Tecnicamente è pomeriggio, quasi sera.» La voce del mio psicologo mi accarezza il timpano, calmandomi come suo solito. È pericolosa, sarebbe in grado di addormentare chiunque, persino una carica di alci impazzite. Utile nel suo mestiere e il dottore la sa usare con maestria. Forse fin troppa.

«Sempre a mettere i puntini sulle i. La sua è un'ossessione, lo sa?»

Ride ma torna subito serio. «Non sono buone notizie.»

Deglutisco e raccolgo una foglia che è arrivata con il vento. È tutta arricciata, chiusa in se stessa, come vorrei fare in questo momento. «E...»

«Che ne dici di parlarne davanti una tazza di caffè?»

«Me lo dica ora. Non deve indorarmi la pillola.»

Lo sento sospirare. «Negativo.»

Chiudo gli occhi e stringo la mano in cui ho la foglia a pugno, sbriciolandola. Respiro piano un paio di volte, la nausea ad attorcigliarmi lo stomaco. «Io o...»

«Tu.»

Apro gli occhi e la mano e osservo i pezzi di foglia volare via col vento. Si perdono nell'aria insieme al mio cuore e a tutte le mie convinzioni.

«Forse è meglio che tu venga qui.»

Soffio gli ultimi granelli dal palmo e mi sistemo ancora gli occhiali. Dovrei farli stringere. «Non si preoccupi, non mi butterò giù da un ponte.»

«Non è questo. Ho fatto troppo caffè e mi dispiacerebbe versarlo nel lavandino.»

Un leggero sorriso mi colora le labbra. «Questa è buona, gliela concedo. Un'ora e sono lì.»

Prima di chiudere, però, mi ferma. «Dovremmo dirglielo.»

Annuisco, pur sapendo che non può vedermi, ma basta il mio silenzio a fargli capire che sono d'accordo. Sappiamo entrambi che lo capirebbe comunque, è troppo intelligente. «Mi dia un po' di tempo.»

«Certo», e chiude la chiamata, lasciandomi sola ad ascoltare il battito del mio cuore.

Rimango qualche minuto a raccogliere i pensieri e i pezzi di me stessa che sono caduti sul marmo bianco. Più tardi, quando sarò a letto, li riattaccherò con la colla. Per ora, li metto in tasca e accarezzo la pietra prima di lasciare questo posto così tranquillo e sereno. «A presto.»

Passo di fianco alle altre tombe, osservando i nomi e contando i momenti fra le uniche due date che ci lasciamo dietro. Avranno sofferto anche loro? Si saranno sentiti spezzati e fuori posto come una forchetta finita in mezzo ai cucchiai?

Raggiungo il cancello ed esco dal cimitero, con il suono del vento fra i capelli. Una figura mi passa di fianco, diretta all'interno, e mi sento prendere per un braccio. Alzo lo sguardo e due occhi color caffè mi fissano turbati.

«Che fai qui? Mi segui?»

Aggrotto la fronte, ancora presa dai miei pensieri per capire appieno le sue parole. Lo fisso di rimando, mentre processo una risposta.

Indossa la stessa felpa nera di ieri mattina e lo zaino dal quale spunta la chitarra pende da una spalla. Ha lo stesso sguardo tormentato che mi fa venir voglia di stringerlo fra le braccia, per impedirgli di spezzarsi nell'aria. Mi stringe con la stessa mano su cui ha il tatuaggio, ora non più nascosto dall'orologio ma dalla manica.

Metto una mano sulla sua e me la tolgo di dosso. «Come posso seguirti, se sto andando nella direzione opposta?»

Stringe le labbra e si avvicina, tanto da sentire il suo fiato sul viso. «Ti manda lei, non è vero?»

Retrocedo di un passo. «Non capisco di che stai parlando.»

«Cosa sai? Che ti ha detto?»

«Tu sei pazzo.» Lo pianto lì, ma mi si para davanti. È davvero alto, dannazione.

«Che ci fai al cimitero, allora?»

Lo fulmino con lo sguardo, pronta a rispondergli come merita, ma glielo leggo negli occhi, il dolore di aver perso qualcuno. Tutta la mia belligeranza sfuma in un istante. Il cuore mi si accartoccia, mentre pronuncio parole che non vorrei pronunciare.

«Per mio padre.»

Angolo autrice
Et voilà! Ecco a voi un piccolo regalino, qualche ora in anticipo.
Incontro ravvicinato con il Principe e visita al cimitero... Risultati negativi a chissà cosa e una tazza di caffè che attende. Quali ingredienti migliori per un terzo capitolo tranquillo tranquillo?
Ancora un paio di capitoli e si entra nel pieno dell'azione, promesso.
Che altro dire, buona lettura e alla prossima.
Ad maiora.
:3

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