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Capitolo 11

38

Coly

Siamo le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano.

La cosa più difficile da accettare, nella vita, è vedere una persona che hai sempre ammirato diventare umana; lasciare la maschera e il mantello da eroe appesi al chiodo, a coprirsi di polvere e ricordi, mentre il tempo passa e ti rendi conto che no, nessuno è invincibile.

Ho visto mio padre quando ormai era tardi, chiuso in una stanza d'ospedale, a fissare un vuoto che non avrei mai potuto condividere, neanche se lo avessi voluto.

Ha fatto male; tanto da distruggermi e lasciarmi senza parole, un burrone incolmabile nel petto.

Non è stato facile. Mentirei, se affermassi il contrario; d'altronde, la vita è fatta così. A volte ti prepara a perdere tutto, altre te lo sbatte in faccia - e pace all'anima tua se sei pronto o meno.

La vibrazione del cellulare mi strappa da questi pensieri. Prego che sia Evie, che si sia dimenticata di dirmi qualcosa mentre lasciavo la mensa, dieci minuti fa. Mi ritrovo a desiderarlo con tutte le fibre del corpo - così intenso da far male, da sentirne i graffi sulla pelle.

Il numero del dottor Meyer è sul display. Dopo due anni non l'ho ancora salvato, ma non ce n'è bisogno. Lo riconosco sempre; mere cifre attaccate le une alle altre, a ricordarmi che ho una vita da vivere e che, volente o nolente, non posso ignorare.

Mi guardo intorno, alla ricerca di una scusa per non rispondere, spostando l'attenzione su qualsiasi cosa che non sia la chiamata in arrivo. Forse, qualcuno conosce questo posto e lo frequenta. Forse, ho davvero una scusa.

Sorrido amara e scuoto la testa. Chi voglio che ci sia su questo terrazzo? La porta cigolante e restia ad aprirsi ha mandato un messaggio chiaro: nessuno ci mette piede da anni. Ne sono così certa dal prendermi un colpo quando scorgo un'ombra di sfuggita.

Mi volto, il cuore in gola, incastrato insieme al respiro. Lo spavento scivola via appena incontro un paio di occhi color caffè.

Il cellulare smette di vibrare, ma non ci faccio più caso; mi smarrisco, con un abbandono tale da spaventarmi.

È lì, sulla porta, a guardarmi come vorrei non facesse; diversi e simili allo stesso tempo, a fingere di essere forti, pur sapendo di esserlo.

Perché in fondo lo siamo. Non possiamo fare altrimenti.

Lo fisso avvicinarsi, fermarsi a qualche passo; squadrarmi con questi occhi a cui, ormai, non riesco più a sfuggire. Mi basta solo sfiorarli con uno sguardo e la ragione si spegne, lasciando spazio solo a quello che non vogliamo dirci, troppo spaventati dalle conseguenze.

Esser tanto vicini a una persona rende fragili. Vulnerabili.

In balia della vita di tutti i giorni.

Infila le mani in tasca e una smorfia che sembra un sorriso gli scivola sulle labbra.

Lo capisco subito; c'è qualcosa di sbagliato, qualcosa che non dovrebbe esserci. Un segreto invadente, incastrato fra le ciglia e sul rischio di sfuggire.

Eppure, non mi muovo. Lo guardo e basta, troppo impegnata ad ascoltarmi il cuore, a interrogarlo sul perché non riesca mai a ignorarlo.

Non ci riuscirei. Neanche se lo volessi.

«Ciao».

Ricambio il suo quasi sorriso. «Ciao».

Si guarda intorno, poi riporta le iridi color caffè su di me. «Come va?»

Lo stomaco mi si attorciglia, ricordandomi la chiamata e il fatto di non aver risposto. Vorrei semplicemente non pensarci e continuare a illudermi di avere tutto sotto controllo. «Bene, tu?»

«Bene».

Annuisco, incapace di spiccicare parola. Un imbarazzo impacciato mi scalda le guance, facendomi sentire fuori posto. Gli do le spalle e torno a fissare il giardino attraverso i rami; le foglie ormai secche colorano le panchine e le mattonelle invase dall'erba incolta, ricordandomi il francobollo di prato che avevamo dietro casa, in un'altra città; in un'altra vita.

«Una volta era pieno di studenti».

La sua voce mi coglie di sorpresa, più vicina di quanto mi aspettassi. Si è appoggiato alla ringhiera, a un gomito di distanza, lo sguardo perso nel vento.

«Con l'apertura del nuovo edificio è stato lasciato a se stesso».

Solo.

E abbandonato.

Un po' come lui.

Non c'è bisogno che lo dica, glielo si legge in faccia, nella stretta della mandibola, nella rigidità delle spalle. Nel modo in cui vorrebbe stringere il ferro tra le dita, ma trova solo aria, fredda e vuota.

E vorrei poterlo stringere, salvarlo dai suoi ricordi, ma se non sono in grado di farlo con me stessa, come potrei mai cadere al suo posto?

Chiudo gli occhi e sospiro leggera, cercando di non farmi sentire, per non disturbare i suoi pensieri. Ascolto il vento, nella speranza di carpirgli qualche segreto, ma ricevo solo il suo soffio in risposta. Tenue e delicato, come il suono che lo spezza.

Apro gli occhi e lo guardo di sbieco. Ha aperto un pacchetto di sigarette palesemente vuoto, che richiude con un gesto secco e ficca in tasca. Un sorriso ironico gli piega le labbra e scuote la testa.

«Neanche la gioia di fumare», mormora. Fissa il prato con una tristezza che mi fa accartocciare lo stomaco.

Deglutisco e d'istinto porto le mani al cappotto, dove so di trovare qualcosa che gli appartiene. Recupero la sigaretta che gli ho sequestrato giorni fa, nel vano tentativo di salvare i suoi polmoni.

L'ironia della vita mi fa sorridere. Un semplice cilindro di carta e tabacco contro i ricordi e il dolore. Temporanea, ma efficace come soluzione.

Ignorando i miei principi, gliela tendo.

Abbassa lo sguardo e fissa il bianco un po' rovinato colorarmi il palmo della mano. Alza un sopracciglio e ricambia il mio sguardo. «Ti credevo più creativa».

Gli sorrido, sollevata di averlo strappato dai suoi pensieri. Ho come la sensazione che siano più bui di quello che penso, più profondi, più soffocanti.

Mi stringo nelle spalle e ritiro il braccio. «Hai ragione. Meglio buttarla».

Si sporge verso di me e mi afferra il polso con entrambe le mani. Il suo tocco delicato mi fa perdere un respiro e lascio che mi sfili la sigaretta dalle dita, sorpresa di sentire la sua pelle sulla mia.

«Accetto volentieri il tuo dono» dichiara accendendosela, mentre il suono secco dell'accendino copre il battito nel mio petto.

Sfioro il punto in cui mi ha toccato e distolgo lo sguardo, confusa dalla mia reazione. L'odore acre del fumo mi invade le narici, offuscando i miei tentativi di darmi una spiegazione.

Arriccio il naso, gesto che non gli sfugge e che lo fa sorridere. Tira una boccata, gustandosi il momento, e sono sicura che, in questo istante, i suoi demoni siano lontani, relegati in un angolo della mente. Espira con calma, il fumo a creare una nuvola di ghirigori che svanisce in fretta, portata via dal vento. Mi lancia un'occhiata e mi porge la sigaretta consumata a metà.

La osservo per un secondo, indecisa, ma mi riscuoto e declino l'offerta. Pesco un rettangolo dall'altra tasca e glielo mostro. «Preferisco rovinarmi con questo».

Ride, portandosi la sua droga alle labbra, lasciandomi con la mia. «Il cioccolato non fa male, da quel che ricordo».

Lo scarto e me lo tuffo in bocca. La mente mi si svuota e il sapore dolce mi esplode sulla lingua. «L'alta concentrazione di zucchero sì».

Continua a ridere, portandosi una mano alla bocca, gli occhi stretti in un sorriso.

Perché si deve scegliere a un certo punto, se provare a salvare se stessi o qualcuno.

«Scommetto che è al caffè».

Gli regalo uno dei miei sorrisi migliori. «Scommessa vinta».

E se sceglierai quel qualcuno, salverai anche te stessa.

È questo il segreto.

35

Osservo la porta chiudersi, lo scampanellio allegro dissolversi nell'aria e attaccarsi ai libri. Il silenzio torna padrone, interrotto solo dall'orologio a forma di macchina da scrivere appeso sopra il bancone.

Conto i secondi e i granelli di polvere che fluttuano nel cono di luce lanciato dal tramonto, fuori dalla vetrina laterale; piccole sfere dorate, simili a stelle smarrite e cadute dal cielo.

Un suono secco mi fa alzare la testa, seguito dal campanello, l'inquietudine dell'attesa a gonfiarmi il petto. Ma il visitatore non è chi spero.

«Buonasera», saluto il signore appena entrato, nascondendo la delusione dietro a un sorriso.

Si tocca la visiera del cappello e accenna un saluto.

Lo fisso perdersi fra le pagine e mi riscuoto, dandomi della stupida per saltare sull'attenti ogni volta che la porta si apre.

Resisto alla tentazione di sbirciare l'orologio per l'ennesima volta e mi dedico al catalogo del mese. I signori Mills sono a una fiera a qualche paese da qui, alla ricerca di storie a cui dare nuova vita, e mi ha fatto più che piacere tenere la libreria aperta. Non me ne intendo molto di libri - e i miei consigli in merito lasciano un po' a desiderare - ma so vendere e dare il resto giusto. Doti più che sufficienti per portare avanti la baracca per un paio di giorni.

Recupero un tomo dalla scatola che invade metà bancone e mi perdo a osservarne la copertina, senza, però, vederla davvero. I miei pensieri non fanno altro che tornare sulla piega che la mia vita ha deciso di prendere; più ci rimugino, meno ne vengo a capo - e mi sembra di essere alla ricerca del capo di un gomitolo troppo ingarbugliato.

Apro il libro per registrarne il titolo e una macchia bianca scivola via dalle pagine. Mi piego per recuperare il pezzo di carta finito sotto il bancone e quando mi rialzo il cuore mi salta in gola.

Il signore entrato prima mi sta davanti, un'espressione arcigna in viso. Mi posa un libro che ha visto giorni migliori sotto il naso, insieme a una banconota rossiccia. «Prendo questo».

Infilo il foglietto nella tasca dei jeans e batto il prezzo sul registratore di cassa. Strappo lo scontrino con uno schiocco allegro e glielo tendo, insieme al volume che ho fatto scivolare in una busta di carta e il resto. Lancio un'occhiata veloce al logo della libreria e mi apro in un sorriso. «Buona lettura».

Annuisce e se ne va, lasciandomi in  compagnia del ticchettio dell'orologio e di una sensazione fredda alla bocca dello stomaco. È graffiante, seppur leggera, e so che scaverà sempre più, inesorabile.

Torno a quello che stavo facendo e il ricordo del foglietto mi s'infila nei pensieri. Lo stringo fra le dita e, dopo averlo studiato in un battito di ciglia, lo apro, notandone i bordi strappati.

"Servizio adulti in difficoltà - via dei Cipressi, 4".

Aggrotto la fronte, chiedendomi cosa possa essere, ma non ho la possibilità di pensarci oltre. Uno scampanellio agitato riempie il silenzio.

Alzo gli occhi e il petto mi si riempie di gioia, un battito d'ali sollevato fra i graffi e i morsi. Tuffo il pezzo di carta da qualche parte e raggiungo le due figure appena entrate, dimenticandomene.

«Drew», mormoro tremula. Mi inginocchio e la stringo in un abbraccio da orso, come li definisce lei. Affondo il naso nei capelli dorati, tanto identici ai miei, e tiro su con il naso, l'emozione di averla con me a sfiorarmi le guance.

Lei si divincola, ma non lascio che si liberi dalla stretta. «Così mi passi il raffreddore, Coly!»

Lancio uno sguardo interrogativo al dottore e lui si stringe nelle spalle. Drew scivola dalle mie braccia e fa per allontanarsi, le manine sul naso, nel tentativo di proteggersi dalla mia malattia.

Le sorrido e incrocio le braccia sul petto, una smorfia offesa in viso. «Non vuoi condividere i batteri della tua sorellona?»

Scuote la testa con energia, le ciocche a incorniciarle il viso paffuto e pieno di lentiggini.

Gioco la carta del labbrino infelice, ben consapevole di vincere il suo cuore.

Mi abbraccia con trasporto, le braccia intorno al collo e la guancia contro la mia. «Non piangere, Coly! Possiamo condividerli, ma solo un po', okay?»

Annuisco, ignorando la tempesta di emozioni che mi sta bloccando la gola. Le batto sulla schiena con delicatezza e mi sciolgo, anche se vorrei rimanere così per sempre.

«Siete venuti a trovarmi?»

«Sì. Tio dice che stai male, così ho pensato di darti questo». Infila una mano nella tasca del cappotto e mi porge un quadratino.

Sorrido, mentre prendo in mano il cioccolatino al caffè. «Grazie, Drew. Così il raffreddore va via».

Annuisce con entusiasmo e si osserva in giro, una luce che conosco fin troppo bene nelle iridi color cielo. Le scompiglio i capelli e le indico uno scaffale. «Scegli un libro».

Aspettava solo questo. Si fionda in quella direzione e sparisce fra i volumi per i bambini, lasciandosi dietro una risata leggera.

Mi rialzo e rigiro il rettangolo color oro fra le dita, indecisa se chiederglielo o meno. Mi mordo un labbro e trattengo un sospiro, spaventata dalla risposta che potrei ricevere.

«Non è ancora definitivo».

Il fiato mi si accorcia e un frullo di battiti mi solletica le costole.

«Non le ho ancora detto nulla, perciò non lo sa».

Annuisco e stringo il cioccolato nel palmo, consapevole di scioglierlo con il calore della pelle. Eppure, il freddo mi pervade ancora e vederla ha solo peggiorato la situazione.

«Non so cosa fare», sussurro, smarrita fra le diverse possibilità, ognuna delle quali poco ottimiste.

Il dottor Meyer non risponde e mi sento più sola che mai, indecisa su cosa sia la cosa migliore da fare.

«Il tribunale ha dei buoni avvocati. Non deve per forza vincere la causa», dichiara con la sua voce profonda e rilassante.

Vorrei credergli, dirgli che ne sono convinta, ma la verità è che non sono che una ragazzina, appena diciottenne, con uno stipendio troppo misero per ottenere la custodia di una bambina.

A questo pensiero mi riscuoto, gli occhi all'orologio. «Devo andare», dichiaro trafelata. «Alle sei devo essere al cafè».

Il dottore sorride, uno di quei sorrisi che lancia a tutti i suoi pazienti, sobrio e distaccato, ma dai suoi occhi grigi come il mare in tempesta capisco quanto tenga a noi. «Ci penso io a Drew».

Ricambio, sollevata di averlo nelle nostre vite.

Alla fine, ciò che conta è decidere di salvare. Sempre e comunque.

Angolo autrice

Bene... rieccomi dopo eoni di silenzio. Spero che qualcuno ci sia ancora.

Al prossimo capitolo.

Mwah.

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