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Capitolo 10

40

Daniel

Me ne pentirò, me lo sento. È una di quelle cose che o le fai subito, senza pensarci troppo, o non le fai affatto. Ecco, forse sarebbe stato meglio non farla. Nulla mi impediva di finirmi il tè, lasciando vagare la mente nei ricordi e lo sguardo sul cerotto con gli unicorni. Ora sto vagando per il cimitero, sotto la pioggia, alla ricerca di una macchia color sole che si è dileguata subito dopo la telefonata.

Mi aggiro fra le tombe, passando di fronte a quella di mio fratello, ma non mi fermo. Devo trovare Coly, glielo devo. Questa volta non la lascerò sola. Lo sguardo che aveva mentre ascoltava chiunque fosse a parlare mi ha fatto attorcigliare lo stomaco. So di aver assistito a qualcosa che non avrei dovuto vedere. Osservare qualcuno spezzarsi è doloroso tanto quanto perderlo.

Sfreccio fuori dal cancello, senza perder tempo a chiuderlo. Mi fermo qualche istante, cercandola con gli occhi. Non può esser andata troppo lontano. Infatti, noto con la coda degli occhi una scia gialla svoltare l'angolo.

Mi fiondo in quella direzione, la pioggia a offuscarmi la vista, ma non per questo scoraggiato a raggiungerla. Giro intorno al muretto e mi blocco.

Una pennellata verde acqua si mescola al grigio dell'asfalto e al giallo sole dell'ombrello di Coly.

Deglutisco, smarrito. Non avevo tenuto in conto che si sarebbe svegliata tanto presto.

Le due ragazze sono una di fronte all'altra, gli sguardi cupi, come se si fossero scambiate parole non del tutto cordiali. Kera si morde un labbro, chiaramente infastidita.

«Eravate insieme, vero?»

Coly la fissa, il desiderio di trovarsi da tutt'altra parte ben visibile nella smorfia che ha in viso. Non risponde e le gira intorno.

L'altra rimane immobile, quasi non credendo al fatto di esser stata ignorata. Si volta e la prende per un braccio, facendola tornare sui suoi passi. «Non dici nulla?»

Coly si libera dalla presa e ficca la mano in tasca, l'altra tiene l'ombrello. «Cosa vuoi che ti dica? Sì, eravamo insieme, ma puoi stare tranquilla. Abbiamo solo parlato.»

A queste parole Kera sorride raggiante, lasciando l'altra interdetta. «È una notizia meravigliosa.»

Alzo un sopracciglio, chiedendomi cosa abbia in mente. Di sicuro, qualcosa che non mi piacerà. Continuo a osservarle da dietro il muro, sollevato di non essermi fatto vedere.

«Non ti dà fastidio?»

«Dovrebbe?» Kera continua a sorridere come se stesse assistendo a qualcosa di così bello da non poter esser descritto.

«Sei la sua ragazza, no?»

Smetto di respirare, in attesa della sua risposta. Spero abbia sufficiente buon senso. Il suo sorriso, però, mi preoccupa, tanto da farmi attorcigliare le budella.

«Non è com-»

«Amore!» Lascio il mio nascondiglio, avvicinandomi a Kera e prendendole l'ombrello di mano. Le avvolgo un braccio intorno alle spalle e la stringo a me. «Sei uscita presto, oggi.»

L'occhiata di Coly mi fa stringere il cuore. So di apparire in modo poco raccomandabile, ma è per una giusta causa.

«Daniel.» Kera poggia la testa sul mio petto, avvolgendomi in un abbraccio.

Deglutisco, maledicendo il suo pessimo tempismo. Se avesse dormito un po' di più, come suo solito.

Dannazione.

«Ho un po' di cose da fare. Se non vi dispiace, io vado.»

La fisso voltarsi e colgo lo sguardo che mi lancia. Vorrei prendermi a calci da solo, ma mantengo un certo contegno.

Si allontana in fretta, perdendosi fra la pioggia. L'ombrello giallo sbiadisce e si confonde con il grigio della città, lasciandosi dietro un vuoto freddo e solitario.

Lascio andare Kera e le porgo il suo, di ombrello, color pece. Affondo le mani nelle tasche e abbasso gli occhi sulla punta delle scarpe. Le gocce d'acqua scivolano sulla vernice, perdendosi nell'asfalto bagnato.

«Ho rovinato qualcosa?»

Sospiro e scuoto la testa. «Non c'è nulla da rovinare.»

Rimaniamo in silenzio, avvolti dai nostri pensieri. So perché è qui, non glielo chiedo nemmeno. In un altro momento la accompagnerei, le starei vicino, la terrei fra le mie braccia, anche se so bene che non lo ammetterebbe mai, di esser spezzata. Fisserebbe le lettere a testa alta, con tutta una vita nelle iridi color ghiaccio.

«Seguila.»

Alzo lo sguardo, indeciso. Mi sembrava la cosa giusta da fare, prima di rovinare tutto come sempre.

«Non aveva uno sguardo allegro» sussurra stringendosi nelle spalle. «Sai dove trovarmi.»

Mi riscuoto a sentirle dire queste parole. Sembra quasi come se le stessi aspettando, una sorta di permesso a riempire il vuoto che mi batte nel petto.

Le lancio le chiavi del cimitero e mi volto. «Chiudi prima di andar via.­»

Annuisce e mi dà le spalle. Quando sparisce dietro l'angolo, prendo la direzione di Coly. Corro sul marciapiede bagnato, quasi rischiando di scivolare sulle foglie, ma l'urgenza di trovarla mi spinge ad aumentare la velocità. Potrebbe essere andata chissà dove, aver preso un pullman o entrare in un bar. Potrei non raggiungerla e il pensiero di lei, sola, contro i suoi mostri, mi terrorizza.

La città mi scivola addosso insieme alla pioggia. Passo davanti a portoni scuri come la notte, simili a tombe appoggiate ai mattoni. Le finestre riflettono il tappeto grigio delle nuvole, spente e deserte. Sfreccio per le strade, estraneo e allo stesso tempo parte di questo paesaggio di ferro e asfalto. In cerca un po' di me stesso, smarrito in due pezzi d'oceano e in un campo di grano.

E se non ti troverò più, sarai sempre nella nicchia del polmone sinistro, dove non ti smarrirò.

Mi fermo solo quando arrivo in centro, fra bar e palazzi abbandonati contro il cielo. Mi appoggio a una stazione del pullman per riprendere fiato e mi tolgo l'acqua dal viso, anche se è inutile. Lascio vagare lo sguardo intorno alla piazza e mi blocco su una vetrina. Riconosco dove mi trovo appena noto la ragazza seduta a uno dei tavoli dentro il bar che mi sta davanti.

L'ho trovata. È qui, sola come me la immaginavo, più bella delle stelle in cielo. Sta fissando una tazza, lo sguardo perso nel caffè, ne sono sicuro.

La fisso attraverso il vetro, sperando che non mi noti. Potrei stare a osservarla per sempre, a cercare di leggere ciò che le passa per la mente, a indovinare la solitudine che le sfiora il cuore.

Una ragazza con un grembiule arancione a fiori bianchi le si siede davanti. Le porge qualcosa, forse un foglio, che Coly prende e osserva per lunghi secondi. Poi, annuisce e scarabocchia qualcosa con una penna, che poi abbandona sul tavolo.

L'espressione che ha in viso è ancor più triste di quella che aveva in casa del signor Toms. La voglia di irrompere nel locale e portarla via, da qualsiasi parte, mi brucia il petto. Mi trattengo a stento, ficcando le mani in tasca. Distolgo lo sguardo e mi cade su un volantino.

Mi illumino come le luci a Natale.

"Music Festival - Musica Indie e Cover; se sei un cantante, fatti avanti" recita. Lancio un'occhiata a Coly e dal grembiule che tiene in mano capisco le sue intenzioni. Si alza e stringe la mano della cameriera, poi infila la divisa sotto il cappotto, raccoglie l'ombrello e si avvia verso l'uscita.

Mi nascondo dietro la tettoia della stazione un attimo prima di esser scoperto. Aspetto di vederla allontanarsi, ma mi si affianca.

Per poco non mi strozzo con la mia stessa saliva. Abbasso la testa e prego i Santi che non si accorga di me.

Con mia grande fortuna è troppo persa nei suoi pensieri per rendersi conto di ciò che la circonda. Fissa un punto imprecisato sull'asfalto, senza vedere la pozzanghera e le foglie che ci navigano dentro.

La vedo proprio così. Una foglia che ha abbandonato il suo albero, in viaggio per il mondo, leggera come il vento, smarrita in un lago d'asfalto e altre foglie simili a lei.

Il pullman arriva e ci sale sopra. La osservo con la coda dell'occhio mentre il veicolo si allontana, portandola lontano da me.

L'ho lasciata andare. Per l'ennesima volta.

Stizzito con me stesso, ma anche deciso, mi avvicino al bar e ci entro. Un sottofondo tranquillo mi avvolge e mi tiene compagnia fino al bancone. A ogni passo mi convinco sempre più. Se non posso fare qualcosa in modo diretto, le starò accanto con delicatezza, soffice come la nebbia.

«Ciao. Cosa prendi?» La stessa ragazza che ha parlato con Coly mi saluta raggiante, un paio di occhi color cioccolato a rendere più dolce il suo sorriso.

Rimango senza parole per un secondo. «Ho visto la locandina sulla porta.»

La cameriera si illumina ancor di più. «Vuoi suonare da noi.»

Annuisco, pur non essendo una domanda. «Faccio un po' di tutto.»

«Perfetto» dichiara recuperando un taccuino dal grembiule e una penna da dietro un orecchio. «Come ti chiami? Così ti metto in lista.»

Mi blocco e una sensazione scomoda mi solletica il petto. Forse, potrei farlo. Nessuno capirebbe.

Mi mordo un labbro e ricambio lo sguardo paziente della giovane. «Rico» mormoro, un nodo a serrarmi la gola.

«Rico e basta?»

Annuisco piano. «Rico e basta.»

Scarabocchia il nome su un foglio vuoto e non posso fare a meno di fissare l'insieme delle lettere. Semplici segni blu scuro, bollenti e dolorosi.

Non pentirti, se è l'amore a dettarti le emozioni. Non guardarti indietro, se vuoi andare avanti.

«È un nome d'arte a effetto. Mi piace» dichiara entusiasta. «Bene. Ci vediamo lunedì, alle cinque. Suoni la chitarra, vero?»

Alzo un sopracciglio. «Come l'hai capito?»

Ridacchia e infila la penna dietro l'orecchio. Noto che ha cinque orecchini, piccole perle luminose. «Hai l'aria del cantante un po' triste, ma non sembri abbastanza depresso per il piano.»

Mi fa l'occhiolino e mi ritrovo a sorriderle. La saluto e lascio il cafè, tornando sotto la pioggia, con una piccola speranza in fondo al cuore. Forse, le cose cambieranno.

38

«Se non usciamo stasera, vi faccio fare il giro della facoltà in mutande!» Dominik si lascia cadere sul divano di peso, ignorando i libri e i fogli sparsi di Alec.

«Elefante come tuo solito» borbotta, cercando di salvare qualche appunto, ma fallendo miseramente.

Reprimo una risata e recupero dell'acqua dal frigo. «Coca?»

«Sono serio, ragazzi. Non vi vedo da quasi una settimana. Ancora poco e avrei dimenticato i vostri volti.»

Io e Alec ci scambiamo un'occhiata a metà fra il divertito e l'esasperato.

«Marianne ti ha dato ancora buca?» gli chiedo raggiungendolo e mettendogli in mano la lattina.

Fa una smorfia e trangugia la bibita tutta d'un fiato. «Marianne non c'entra.»

«Certo, e il tuo quoziente intellettivo è di 130.»

Dominik fulmina Alec e quasi mi aspetto che gli lanci la lattina in testa. «Ma come sei simpatico, oggi. Non mi sei mancato per niente, sai?»

«Lo so che in fondo mi ami» ribatte l'altro, facendogli l'occhiolino.

Non resisto e scoppio a ridere, così forte da dovermi tenere la pancia. Sono epici insieme. Lo siamo tutti e tre - non a caso siamo il Trio, il gruppo più invidiato e amato della facoltà.

Faccio il giro del divano e li prendo per le spalle, tirandomeli vicino al viso. «I miei piccioncini preferiti. Cosa farei senza di voi?»

«Probabilmente moriresti.»

Raggelo all'istante, il fiato bloccato nei polmoni, il petto accartocciato. Il sorriso mi sparisce e deglutisco.

Un silenzio imbarazzate s'infila fra di noi. Ritorno nella realtà, schiantandomi contro ciò che sono.

Alec colpisce la spalla di Dominik con un pugno. Quest'ultimo se la massaggia e fa per protestare, ma si riceve un secondo colpo.

«Avevi una macchia sulla camicia» si giustifica.

Li lascio andare e sorrido leggero, incapace di nascondere l'effetto che le parole stanno avendo su di me. Vorrei poterci passare sopra, ignorare i tagli, ma pizzicano da morire. Mi ricordano dove non dovrei essere, di star respirando un'aria che non merito di respirare. Non sono lui, non potrò mai esserlo.

Non smetterà.

Il dolore rimarrà.

Sempre.

«Non dicevo sul serio, Daniel.»

Mi riscuoto dai pensieri e ricambio lo sguardo contrito di Dominik. Si sta grattando la nuca. Alzo le spalle, rassegnato. «Dovrò farci l'abitudine, prima o poi.»

Li noto guardarsi e distolgo gli occhi prima di leggere qualcosa che non voglio sapere. Fintanto che mi piango addosso, da solo, posso accettarlo, ma non voglio influenzarli con i miei fantasmi.

«Vado in bagno» dichiaro a mezza voce. «Ci vediamo in aula.»

Dominik si alza, ma Alec lo trattiene per un braccio. «Va bene, a dopo.»

Li saluto con un cenno della testa e lascio la sala ristoro. Attraverso il corridoio e passo davanti al bagno, lasciandomelo alle spalle. Arrivo alle scale e le salgo, il suono dei miei passi come unico compagno.

Non sto pensando a nulla, la mia mente vaga, gira intorno a un unico solo ricordo. Non ci si sofferma, eppure riesce a raggelarmi con la stessa intensità di allora.

Entro nel sesto piano e mi fermo davanti all'unica porta incastonata nella parete. Non la vedo da un po', sin da quella volta, un anno fa.

Deglutisco e, con mano tremante, la apro. Lascio che si scosti con calma e si porti via i pensieri brutti, quelli che non dovrebbero nemmeno sfiorarmi la mente.

Dà su un terrazzo poco usato, nascosto nella piega dell'edificio vecchio con quello nuovo. Torreggia su una parte di giardino dimenticata dagli studenti, lasciata a se stessa - un po' come me.

Era vuoto, allora. Deserto.

Alzo lo sguardo e sento gli occhi pizzicarmi. Un sorriso mi sfiora le labbra e il cuore inciampa.

Se devo affondare, voglio farlo in un oceano color sole, con i tuoi occhi a salvarmi.

Angolo autrice

Spero che la lettura sia stata di vostro gradimento. In caso contrario, mi nascondo dietro questo bel lettino.

Augh!

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