Capitolo 21
Il sabato mattino la via in cui abita Parker risuona del rumore dei clacson, dei bambini in fondo alla strada intenti a giocare nel piccolo parco giochi. Le madri intente a spettegolare con le loro amiche dopo una settimana pesante, mentre gli uomini si riuniscono in uno dei bar aperti per un caffè e la lettura del giornale. Fa tanto freddo. Le temperature si sono abbassate durante la notte ma ciò nonostante nessuno rinuncia a quei pochi minuti di libertà e allegria. Sono ancora scossa dalla nottataccia appena passata. Me ne sto rannicchiata di fronte alla vetrata ad osservare in silenzio mentre il vero rumore si trova dentro la mia testa. Le mie spalle vengono avvolte da un plaid assieme a due braccia. Il mento di Parker si posa sulla mia spalla mentre mi stringe da dietro contro il suo petto. Se ne avessi la forza eviterei questo contatto ma ora come ora, lascio che tutto scorra come sabbia in balia del vento.
«Non hai dormito», mi mette sotto il naso una tazza fumante di cioccolata.
Ringrazio assaggiando per riscaldarmi. Come al solito manca lo zucchero ma non è poi così male perché amo il fondente.
Si accorge della mia smorfia e gratta la tempia in imbarazzo. «Ho usato la busta fondente. So che ti piace così...», passa una bustina di zucchero davanti.
Scoppio a ridere. «Solo tu puoi preoccuparti così tanto per una cosa del genere. La cioccolata va bene così rilassati.» Mando giù un altro sorso. «Grazie»
Mi guarda perplesso. So che sta pensando che a breve avrò uno dei miei crolli nervosi ma si sbaglia, sono forte, non piangerò ancora. Ho solo avuto un momento di paura. Mi sono spaventata perché non provavo più la sensazione da mesi e mi ero abituata ad addormentarmi con un sorriso e senza la paranoia degli incubi. È strano come ci si abitui in fretta a qualcosa che ci fa stare bene.
Sospira e sorride a sua volta ma è un sorriso triste che non arriva al cuore perché si ferma su quelle labbra rosee morbide. Poggio la tazza sulla lastra di marmo e mi volto verso lui per guardarlo in faccia. «Non guardarmi così. Sto bene, davvero. Anzi dovrei essere già a casa.»
«Non vai da nessuna parte in questo momento. Finisci la cioccolata e smetti di prendere freddo davanti alla finestra. Ti beccherai un raffreddore.»
Inarco un sopracciglio. «Sei a torso nudo e parli per me? Dove sono finite le tue magliette? Nessuno te le ha lavate? Come mai sei a casa? Niente ufficio oggi?»
Alza gli occhi al cielo. «È sabato, sono il capo e posso anche rimanere a casa. In ufficio non c'è nessuno. E sono a torso nudo perché sto andando in palestra.»
Mi alzo, ripiego il plaid sistemandolo sul divano, raccolgo le mie cose e mi avvio verso la porta. Parker mi segue come un falco e corre subito sbarrandomi la strada. «Dove vai?»
«A casa?»
«Perché?»
«Perché se devo stare davanti ad una finestra mentre tu ti alleni, preferisco andare a casa mia e passare il tempo in altri modi.»
«Pensavo volessi allenarti con me.» Afferra le mie cose e va a sistemarle in camera sua. Lo seguo interdetta prima di essere afferrata per le gambe, sollevata sulla sua spalla e trascinata in palestra. Quando mi rimette a terra, mi lancia dei vestiti e dei guantoni. Riesco a prenderli a volo.
Passiamo un tempo indefinito lì dentro ad allenarci, a prendere a pugni il sacco, a correre l'una accanto all'altro sul tapiroulant o cyclette. Sudata e stanca mi siedo sul tappetino. Chiudo gli occhi e provo a recuperare il respiro. Parker si siede dietro e inizia a massaggiare le mie spalle.
«Ti stanno bene i miei boxer come pantaloncini», ridacchia tirando l'elastico. «Hai lasciato anche dei vestiti in casa quindi se ti va puoi fare la doccia e cambiarti.» Mi costringe a girarmi.
Blocco le sue mani sulla mia vita e lui stringe le mie dita attirando le mie braccia attorno al suo collo. «Mi picchi se ti bacio?»
«Si perché mi hai preso in giro per come mi stanno i tuoi boxer quindi non ci provare.»
Si avvicina per sfidarmi. Poso il palmo sulle sue labbra e lo allontano prima di rialzarmi. «Userò la tua doccia», mi richiudo nel suo sontuoso bagno e lascio sfuggire un grosso sospiro.
Avvolta nel morbido asciugamano bianco, esco dalla doccia. Di fronte allo specchio, passo una mano per togliere l'alone della condensa. Ho le guance rosse e gli occhi tristi. Da quanto tempo sto così male?
Dentro uno dei cassetti trovo la mia biancheria, pulita e ripiegata. La indosso e avvolta da un asciugamano asciutto esco dal bagno alla ricerca degli indumenti. Trovo una maglietta a maniche corte e la scarto in fretta, fa troppo freddo, e un paio di jeans stretti. Prendo a prestito una delle sue felpe dall'armadio. Quella nera che mi piace tanto. Mi sta larga ma tiene caldo.
Quando mi vede arrivare in soggiorno domanda: «È la mia felpa quella?»
Ha un asciugamano stretto in vita e si sta dirigendo nella sua camera. Faccio dietrofront e lo seguo.
«O questa o quella a maniche corte.» Mi stringo nelle spalle sedendomi sul letto.
Parker si rivestire tranquillo davanti a me. Infila una felpa grigia e si avvicina. Tiro indietro la schiena quando poggia i palmi sul materasso inchiodando il mio corpo sotto il suo. «Hai fame?», solleva le mie braccia facendomi alzare e finisco contro il suo petto. Mi manca un po' il fiato ma annuisco. Lo seguo in cucina e lo osservo mentre mette sul bancone metodicamente e ordinatamente gli ingredienti per una lasagna. Adora mangiare italiano.
Prendo la teglia e inizio a creare gli strati con la ricetta della nonna mentre Parker si occupa del secondo. Per quanto sia bravo in cucina, si occupa sempre dei secondi piatti. Sembra anche sereno e un po' divertito nel vedermi concentrata.
«Emma?»
«Uhm?» alzo lo sguardo e sporca il mio naso con un po' di sugo ridacchiando come un bambino. Lo spintono con il fianco e provo a pulirmi con un tovagliolino. Prendo un pizzico di peperoncino e glielo spalmo sulle labbra. Rido divertita quando arrossisce ed esce la lingua sventolandosi in cerca di un bicchiere d'acqua. «Sei una stronza», biascica.
Torno sulle mie lasagne e quando finisco l'ultimo strato le infilo nel forno già caldo. Inizio a togliere dal ripiano quello che non serve e lavo le posate sporche.
Parker si avvicina. «Assaggia e dimmi che te ne pare». Avvicina la forchetta con pezzo di carne. Assaggio e le mie papille si incendiano. Scoppia subito a ridere quando lo colpisco con lo strofinaccio. Bevo subito un bicchiere d'acqua e sospiro quando il bruciore si allevia dalla mia bocca. «È troppo piccante», metto il broncio.
Storce il labbro e si avvicina bloccandomi all'angolo. «Troppo? Sul serio? E le tue dita piene di peperoncino non lo erano?», sorride in un modo che non mi piace affatto. Parker è furbo, troppo. Inoltre mi conosce bene. Ha avuto modo di studiarmi e sta facendo leva su ogni mio sentimento e su ogni mia sensazione per farmi cedere. Per fortuna il timer del forno interrompe lo strano momento di vendetta e riuscendo a svincolarmi dalla sua presa, esco la lasagna dal forno e la metto a raffreddarsi un po'. In cucina si propaga subito l'odore buonissimo della pasta al forno.
Parker apparecchia la tavola in modo pratico e poi attende che io mi avvicini con la lasagna. Riempio i piatti e mi siedo. Gusto il primo sentendomi in fretta meglio. Il gusto della pasta mi riporta ad alcuni anni addietro quando la nonna preparava un pranzo in grande la domenica dopo la messa a cui si univano parecchi vicini.
«A cosa pensi?», domanda biascicando.
Pulisco gli angoli dal sugo. «La domenica nonna preparava spesso le lasagne e invitava i vicini alla nostra tavola. La casa si riempiva di persone, rumori, chiacchiere, risate, profumi. Ricordo che pretendeva di andare a messa, ci vestivamo per bene e poi tornate a casa ci mettevamo ai fornelli. Era un momento magico ai miei occhi perché potevo pranzare con qualcuno e non da sola come capitava quando magari nonna andava a lavoro e io non avevo compagnia.» Sorrido e continuo a mangiare.
«Io la domenica ero costretto ad andare dai nonni, c'era sempre una grigliata pronta, gente estranea e ricca pronta a lamentarsi degli affari. Una noia mortale! Non potevo nemmeno guardare le partite o giocare perché altrimenti mi sporcavo. Il cibo non era come questo. Non so i miei non hanno mai saputo cucinare o dedicarsi al cibo, come al contrario si dovrebbe.» Sembra perdersi un momento tra i ricordi poi domanda: «Cucinavi per il tuo ragazzo?»
«Quando le cose andavano bene si. Ci ritrovavamo spesso in casa da soli e ci divertivamo a cucinare facendo strani esperimenti. Il più delle volte però decidevamo di non tornare a casa.» Scuoto la testa con amarezza. Parker conosce parte del mio passato ma non nei dettagli.
«Dove andavate?»
Mando giù l'ultimo boccone. «Dipendeva da come ci girava. Marinavamo la scuola e andavamo al vecchio ponte oppure in un vecchio negozio di dischi abbandonato.»
«Cosa facevate?»
Prendo i piatti sporchi e vado a metterli dentro il lavello. Sto evitando questa domanda da anni. Il fatto è che in quella piccola casa, vedevo di tutto ma ero troppo cotta e spesso anche fatta per curarmene. Solo una volta o due me ne sono andata disgustata.
Parker mi segue e prendendo due piatti puliti porta a tavola il secondo. «Allora?»
Abbasso lo sguardo sul piatto e faccio un profondo respiro. Se parlo di questa cosa, mi guarderà in modo diverso ma ormai il danno è fatto. «Dentro quella casa, poteva succedere di tutto perché in molti la frequentavano. Inizialmente era il nostro rifugio. Aprivamo una birra e fumavamo ma dopo un paio di mesi, quel posto è diventato un ritrovo per tossici e gente di ogni tipo.» Scosto la sedia e mi alzo. Abbracciata guardo dalla vetrata la strada. Parker si avvicina e mi abbraccia da dietro. «È successo qualcosa di spiacevole?»
Annuisco con le lacrime agli occhi. «Io e una mia amica eravamo troppo fatte per fermarlo. Ancora oggi mi sento in colpa e una persona orribile per quello che è successo. Non ho avuto la forza di fermarlo. Non ho avuto modo di mandarlo via...», asciugo le lacrime. «Io e lui abbiamo marinato la scuola e ci siamo rinchiusi lì dentro. Abbiamo discusso perché erano giorni difficili per me. Mia nonna iniziava a stare male, dovevo trovare un lavoro perché lei non poteva più, dovevo studiare e reggere il crollo emotivo che rischiano di avere da un momento all'altro. Ci siamo spinti un paio di volte come eravamo soliti fare oltre ad urlarci contro. Poi lui ha acceso una canna e la discussione è finita lì. Finiva sempre lì. Ci siamo abbracciati, baciati e tutto è tornato normale. Iniziavo a sentire una certa stanchezza in quella brutta monotonia ma lo sballo mi aiutava a non pensare anche se per pochi minuti a quello che avrei dovuto affrontare.» Tiro su con il naso e girandomi nascondo il viso contro il suo petto. «Nel tardo pomeriggio sono arrivate tante persone. Una mia amica mi ha fatto provare una strana sigaretta dove c'era dentro qualcosa di diverso dal solito e sentivo il corpo pesante, non riuscivo a muovermi. Ridevamo, chiacchieravamo di cose assurde. I ragazzi si divertivano con strani giochi pericolosi. Poi sono arrivati loro. Una ragazza che mi aveva snobbata per gran parte della vita e un ragazzo che tutti evitavano si sono intromessi nella nostra festicciola. È scoppiato un litigio poi le risate. Ricordo lui a terra ubriaco incapace di parlare e lei intenta a sniffare qualcosa. È stata male, nessuno è riuscito ad alzarsi per aiutarla. Quando si è rialzata, un tizio l'ha seguita fuori e l'hanno ritrovata nuda e in coma da droghe il giorno dopo. Mentre la vedevo uscire dall'appartamento, la voce dentro la mia testa continuava a dirmi di alzarmi e fermarla ma non riuscivo a muovermi. Girava tutto.» Singhiozzo.
Parker sembra stordito e non sa proprio cosa dire. Inizio a vergognarmi del mio passato ma ero questo e non posso cambiarlo. Non posso cambiare le notti passate tra alcol e fumo. Non posso cambiare le volte in cui mi sono tagliata. Non posso cambiare i giorni in cui avrei voluto fuggire invece continuavo a rimanere inerme di fronte alla vita e agli errori.
«Cosa ne è stato di lei?»
«Si è risvegliata dopo il mio incidente ma non ha mai detto una parola di quella notte. Forse ha rimosso o ha deciso di non parlarne.»
«E tu? Cosa hai fatto dopo quella notte?»
«Ho smesso di bere e fumare. Ho deciso di ripulirmi perché avevo una vita davanti e meritavo di meglio.»
Torniamo a tavola e continuiamo a pranzare un po' assorti. Sospiro e provo a recuperare l'appetito. «So che ero una pessima persona ma ho fatto di tutto per cambiare. Ho fatto di tutto per crescere. A me sono mancati dei genitori e ho riposto la mia fiducia in una persona sbagliata che mi ha messo davanti delle vie di fuga. Ero senza regole ma quando arrivavo a casa e discutevo con nonna, una volta in camera, il dolore tornava e facevo male a me stessa pur di fermarlo. Non ci pensavo durante il giorno ma la notte era pericoloso.»
Posa la sua mano sulla mia stringendola. Ci alziamo e ci spostiamo verso il soggiorno dove sotto il coperchio della tortiera trovo una torta dall'aspetto delizioso. «Sei cresciuta bene. Non hai nulla da rimproverarti Emma.» Taglia due fette spesse di torta passandomene una. Solo lui può riuscire a mangiare tranquillamente di fronte ad una brutta verità. Forse sono gli anni di esperienza a combattere le battaglie altrui che lo spingono ad essere così.
«Avrei potuto evitare determinate situazioni.»
«Si ovvio ma adesso è passato e sei arrivata qua. La mia era pura curiosità mi dispiace se ti ha arrecato tristezza o dolore. Non era mia intenzione...»
«Devi sapere che non sono la persona dolce e sensibile che tu credi io sia. Sono stata una stronza insensibile per gran parte degli anni. Dopo l'incidente le cose sono cambiate e sono andata avanti. Mi sono come evoluta nella versione migliore di me perché non volevo, non voglio deludermi.»
Sfiora la mia guancia e sorride. «Sei stupenda Emma.»
Il suo sguardo rovente fa imporporare le mie guance. «Sei troppo buono con me.»
Avvicina il suo viso al mio «Perché ti amo e amo tutto di te.» Sfiora il mio naso con il suo, le mie guance poi l'orecchio. Inizio a sentire uno strano formicolio. Abbasso lo sguardo sulla sua bocca. Prendo con un dito un po' della glassa sulla torta spalmandola sul suo labbro. Passa la lingua e poi sorride ricambiando il favore creando sulla mia guancia due strisce alla Rambo. Ridacchio sentendomi imbrattata. Sa che lo odio e scoppia a ridere mentre tento di ripulirmi.
«Vuoi che ti riaccompagni a casa? Hai qualcosa da fare?»
Scuoto la testa e mi sistemo comoda sul divano. «Posso rimanere se per te va bene.»
Il suo sguardo si illumina. «Film? Ti va?»
«C'è la partita no?»
Inarca un sopracciglio e domanda: «Vuoi vedere la partita?»
«Tu si quindi accendi la tivù.»
Sorride come un bambino e mentre mi sistemo tra le sue braccia accende l'enorme schermo piatto e attendiamo l'inizio della partita.
«Hai ancora della cioccolata...», indica la mia guancia. Passa un dito sulla lingua e poi mi ripulisce.
Rido per il gesto buffo. Mi guarda interdetto poi scuote la testa con un sorriso e ritorna a fissare lo schermo.
Dopo la partita, mi rialzo stiracchiandomi. Fuori piove e mi intristisce parecchio il tempo così. Di fronte alla libreria scelgo uno dei libri presenti e mi siedo davanti alla vetrata. Leggo per un buon quarto d'ora.
«Giochiamo alla Wii? Ti straccio a tennis», strizza l'occhio.
Mi rialzo accettando subito la sfida. Ci divertiamo come matti con i vari giochi sportivi. Le sfide sono sempre più interessanti e lunghe e ben presto il mio istinto competitivo si presenta. Straccio Parker a tennis e poi a super Mario. Alzo le braccia e strillo "Vittoria!"
Passa una mano sul viso e ridendo si lascia ricadere sul divano. Prendo posto anch'io accanto a lui. Prima che possa rendermene conto sono abbracciata a lui.
«Tutto bene?», mormora contro il mio orecchio.
Faccio cenno di si e chiudo gli occhi con il viso contro il suo petto. Mi è mancato. Mi è mancato questo piccolo noi tranquillo che avevamo costruito lentamente.
«Emma?»
Apro a fatica le palpebre e sbadiglio. Mi sono addormentata tra le sue braccia. Perché mi ha svegliata?
«Si?»
«Il tuo telefono, continua a suonare. Penso sia urgente.» Lo indica sul mobiletto del soggiorno.
Mi alzo in fretta. Raggiungo il mobile e aggrotto la fronte. Perché mai David dovrebbe chiamarmi?
«Pronto?»
«Emma, dove sei?», domanda agitato.
«Perché? È successo qualcosa?»
Scoppia in lacrime e il mio cuore sprofonda. «David, dov'è Lexa? Sta bene? Cosa è successo?», alzo il tono della voce trasalendo. Parker si avvicina allarmato ma non parla mentre dall'altro capo della linea sento solo i singhiozzi di David.
«Ha accusato un forte dolore... Ho paura Emma. Ti prego raggiungimi.»
«Dove siete?»
Mi da il nome dell'ospedale a fatica. «Ok, arrivo subito!» Strillo con le lacrime agli occhi. Corro verso la porta e Parker mi segue.
«Ti accompagno io Emma. Dimmi dove devi andare, così non ti mando da sola.»
Mi rendo conto di stare tremando e di avere le mani tra i capelli. A fatica do i dettagli a Parker e mentre scendiamo nel garage inizio a pregare affinché Lexa non abbia nulla di grave e affinché la bambina stia bene.
La mano di Parker mentre guida si posa sulla mia e la stringe per darmi forza. Sto crollando e non devo, non devo.
Arrivata in ospedale inizio subito a correre verso la sala d'attesa dove trovo un David con le mani tra i capelli, il viso rosso dal pianto, gli occhi pieni di lacrime e le labbra screpolate. Mi abbraccia subito tra i singhiozzi. «Si è sentita male. C'era tanto sangue.» Scuote la testa.
Spalanco gli occhi tappando la bocca. No, Lexa no. No, cazzo! Capisco subito cosa è successo e vengo catapultata a quei tre mesi. Stringo forte David. «Shhh, lei starà bene, vedrai.»
«Volevo chiederle di sposarmi questa sera e invece...», singhiozza.
Parker si avvicina e David nel vederlo scioglie l'abbraccio. Con mia sorpresa lo stringe come un fratello e dice contro il suo orecchio qualcosa per consolarlo o farlo calmare.
Scivolo in un angolo con la testa tra le mani e scoppio in lacrime silenziose.
Un'infermiera esce togliendo la mascherina e ci guarda. «È lei Emma?»
Annuisco tirando su con il naso e rialzandomi la seguo. «Vuole solo lei qui dentro. Voi due dovete rimanere fuori.» Ordina a Parker e David.
«Come sta?»
Dallo sguardo capisco subito che qualcosa è andato storto e rabbrividisco. Asciugo in fretta le lacrime e busso alla porta prima di entrare. Non so cosa si dice in certe situazioni ma so come ci si sente e per esperienza è meglio tacere. Trovo Lexa stesa sul letto e intontita dai farmaci e dall'operazione. Non appena mi vede fa cenno di stringerle la mano e scoppia in lacrime. «Era una bambina. Per fortuna non ho comprato la culla. Non avrei saputo come toglierla di mezzo.» Mi fa spazio sul letto, mi sdraio su di un fianco e le carezzo il viso attendendo che si sfoghi finché sfinita non si addormenta. Le stampo un bacio sulla fronte ed esco dalla stanza.
Trovo David distrutto seduto sulla sedia nella sala d'aspetto e Parker con una mano sulla sua spalla. Alzano lo sguardo e leggono l'orrore nei miei occhi. Sanno già tutto. Mi siedo accanto a David e ci abbracciamo di nuovo. Lo conforto in silenzio e provo a non ripensare a quei tre mesi.
«Come hai fatto? Come hai fatto a superarlo? Come hai fatto da sola? Io, io non ci riesco...»
«Non si tratta di me ora. Lexa starà bene. Dalle solo un po' di tempo ok? Adesso va a casa, fatti una dormita e torna domani. Starò io qui con lei. Ti chiamo per qualsiasi cosa.»
«Ti accompagno io», afferma subito Parker.
David accetta il passaggio lasciando la sua auto qui nel parcheggio. Lo saluto e lo guardo mentre si allontana verso l'uscita. «Non lasciarlo solo», sussurro a Parker quando mi abbraccia.
«Sicura di volere rimanere?»
«È la mia migliore amica. Lei c'è stata io ci sarò per lei.»
Parker annuisce sfiorando le mie labbra con un dito e dopo avermi dato un bacio sulla guancia esce dall'ospedale. Torno nella stanza della mia amica, stringo la sua mano e seduta sulla piccola sedia la guardo dormire mentre dentro di me inizia a circolare il dolore per la perdita e il ricordo. Non so come farà a superare tutto questo. Non so se riuscirà mai a dimenticare la sensazione. So solo che devo aiutarla a rialzarsi, ad andare avanti per come ha fatto lei con me tempo fa.
L'infermiera torna per cambiarle la flebo. Mi informa che terranno Lexa in ospedale fino a domani.
Non ho sonno, mi alzo e mi reco nella piccola cappella. C'è un uomo intento a pregare tra le lacrime. Mi si stringe il cuore e con tutta la forza di volontà che mi ritrovo in corpo, non piango. Prego in silenzio per la mia amica e per la sua bambina non nata. Prego affinchè tutto questo non abbia delle ripercussioni sulla sua vita e sulla sua psiche. Prego affinchè possa ritornare con il sorriso e l'allegria di sempre. Lexa non è di certo come me e so che riuscirà a superare tutto con una forza straordinaria.
Il telefono vibra. Esco dalla cappella e scivolo a terra mentre rispondo.
«Piccola»
«Ehi»
«E' successo qualcosa?»
Singhiozzo tappando la bocca con la mano per trattenermi. «Sono in ospedale. Lexa ha perso la bambina. Io, io non so...», balbetto.
«Cazzo!» segue un rumore. «Tu come stai?»
«Io non lo so. So solo che non lo meritava. Andava tutto bene anche se stava male e invece...», mi abbraccio dondolando sul posto.
Ethan sospira. «Sono a Vancouver per qualche giorno. Posso venire?»
Ho un momento di esitazione. «E' arrivato tuo padre?»
«Si ma non è questo l'importante. Dimmi dove sei e ti raggiungo. Non preoccuparti, voglio solo salutarti e poi me ne vado.»
Detto l'indirizzo tra le lacrime e torno nella camera di Lexa. La trovo sveglia e mi sorride anche se in modo triste. Stringo subito la sua mano sedendomi sulla sedia accanto al letto. «Ho cacciato via David. Torna tra qualche ora.»
Annuisce con occhi rossi. «Tu come stai?»
Scuoto la testa. «Tu sei in ospedale e domandi a me come sto? Sei una pazza. Vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?»
«Ho rovinato tutto?», domanda con sguardo fisso.
«No. David ti ama e non so se lo sai ma... ti avrebbe fatto una bella sorpresa.»
Sorride e scoppia in lacrime. «Lo so. Me lo ha chiesto per non farmi svenire.» Prova a sollevarsi e mi abbraccia. «Ho risposto di si ma ora non so più se vale.»
Prendo il suo viso tra le mani. «Ma dico lo hai visto? E' cotto di te e ti ama davvero. Non si farà scappare una modella ricca e famosa e intelligente come te.»
Ride e questa volta in modo sincero. «Passerà vero?»
Trattengo il fiato prima di lasciarlo uscire. «Si e andrà meglio di prima.»
Lexa annuisce e torna a sdraiarsi. Chiude gli occhi e lascia che io le carezzi il viso e le racconti delle mie due giornate insieme a Parker. Le parlo dell'incubo e dei ricordi affiorati a causa della lasagna. Provo a farla ridere e più volte risponde con una delle sue battute.
Sentiamo bussare alla porta. Ethan sbircia e poi entra lentamente. Lexa gli sorride e poi mi lancia uno dei suoi sguardi complici. Non mi trattengo oltre, non servirebbe. Tiro indietro la sedia e corro ad abbracciarlo. Mi solleva da terra e stampa una bacio sulla mia testa con tanto amore da farmi tremare da capo a piedi. Sciolto l'abbraccio saluta Lexa la quale questa volta ricambia con affetto. Solitamente è fredda nei suoi confronti ma qualcosa in lei è cambiato da quando le ho raccontato del mio viaggio a Las Vegas.
«Esci da questa stanza. E' un ordine!»
Mi strizza l'occhio mettendosi a dormire. Capisco in fretta che ha bisogno di riposo e di un momento da sola. Anche a me è successo.
«Torno tra poco.» Stampo un bacio sulla sua tempia e dopo avere preso la mano tesa di Ethan usciamo fuori dalla stanza.
Una volta faccia a faccia mi abbraccia forte. «Volevo farti una sorpresa e invece...»
Nego con la testa. «Odio le sorprese. E' meglio così.» Sussurro.
La sua mano sulla schiena cerca di riscaldarmi. I suoi occhi azzurri intensi, mi imprigionano e il suo profumo deciso fa tremare le mie gambe. «Il viaggio è stato un vero inferno. Saperti ora qua per la tua amica, mi rende nervoso. Come stai?» Fissa i miei occhi.
«Sto male per lei. Spero che riesca davvero a riprendersi.»
«Si ma tu come stai?»
Faccio cenno di non volere rispondere e serrà la bocca. Appoggia le spalle alla parete e mi stringe ancora nel suo abbraccio. «Tra poco devo andare o mio padre troverà le porte chiuse. Abitiamo in una casa niente male sai?»
«Mi inviterai a cena?»
«Certo. Non voglio lasciarti qui da sola. Parker non c'è?»
«Dovrebbe arrivare con David tra un paio d'ore. Non preoccuparti, starò bene.» Istintivamente stampo un bacio sulla sua guancia e indugio un paio di secondi.
Ethan mi sorride e scioglie l'abbraccio ricambiando il bacio. «Prenditi cura di te intesi?»
«Anche tu», saluto con la manina e torno in camera.
Lexa chiede un resoconto dettagliato e poi crolla sfinita e sedata dai farmaci che le hanno somministrato. Mi appisolo sulla sedia ma è talmente scomoda che non riesco proprio a dormire per più di dieci minuti. Alla fine rinuncio e continuo a guardare la mia amica chiedendomi se in quei giorni terribili si sia sentita come mi sto sentendo io per lei. Fa davvero male vedere la persona a cui si vuole bene vivere un momento così terribile. Per fortuna ha accanto una persona che la ama e non è sola. Inoltre ha la forza necessaria per andare avanti. Silenziose e calde lacrime iniziano a rigare il mio viso. Mi rialzo e per non singhiozzare esco dalla stanza. Metto il viso tra le mani e poi le passo sui capelli scompigliati. Quando sono calma, rientro in camera. Infilo le cuffie e ascolto un po' di musica.
Sono le otto quando David fa il suo ingresso in camera. Lexa si è appena svegliata e ha deciso che è l'ora di alzarsi dal letto. Sembra felice ma so per esperienza che la sua è solo una corazza. Sorride tranquilla al suo ragazzo e spero ancora futuro marito.
«Se vi serve qualcosa, sono qui fuori.» Dico dando una pacca sulla spalla a David e poi richiudo la porta lasciando uscire un sospiro prima di appoggiarvi contro la fronte. Mi volto e due occhi chiari mi stanno fissando. Sul viso di Parker non c'è traccia di stanchezza ma c'è dell'altro. Riesco a percepirlo dal modo in cui tiene serrate le labbra e gli si forma quella rughetta sotto l'occhio.
«Non hai dormito»
Faccio cenno di no e lo abbraccio. «La sedia era scomoda.» Non mi ferma ma è freddo, troppo rispetto al solito. Mi ritraggo turbata. «Qualcosa non va?»
«Mi ha chiamato. E' qui e non me lo hai detto?»
Aggrotto la fronte e apro la bocca per ribattere, poi ricordo di Ethan e rimango in silenzio.
«Cosa ti passa per la testa? Io non capisco. Mi ha chiamato per dirmi che stai male e non la dai a bere con il tuo atteggiamento. Ho saputo così che vi siete rivisti e qui, in questo ospedale mentre la tua amica stava male. Mi ha chiesto di fare attenzione e di non trascurarti. Che razza di gioco è mai questo si può sapere?»
Indietreggio di un passo con sguardo annebbiato dalle lacrime. «Te lo avrei detto. Credi che io ti nasconda qualcosa? Mi ha chiamato per sapere come stavo e ho detto di trovarmi in questo posto. Non sapevo che era qui. Se ne è andato in fretta, dopo un breve saluto e c'era Lexa con noi.»
Parker stringe i pungi e diventa rosso in viso. Sta per perdere la pazienza. Afferra il mio braccio con una certa forza trascinandomi fuori. «Quando? Quando mi avresti detto che stava progettando di venire a vivere in questo posto? Quando mi avresti detto che lui non rinuncerà mai a te? Quando mi avresti detto che quello che faccio io non conta mai un cazzo?», alza il tono della voce.
Arretro ancora di un passo, lancio sguardi ovunque, verso le persone che ci guardano attonite. Spero che nessuno intervenga, conosco Parker e rischierebbero solo di peggiorare la situazione. «Te lo avrei detto quando fossi stata sicura di...»
«Di cosa?», mi interrompe con furia. «Di amarlo? Di volere stare con lui e al diavolo Parker? Per questo indietreggi e sei fredda?», scuote la testa passando la mano sul viso. «Chiarisciti le idee ragazzina, perchè io non ho più tempo da perdere. Sono stufo di questi giochetti. O lui o me!»
Mi supera ma lo afferro per un braccio. «Mi dispiace ok? Ragiono sempre d'impulso e non c'era nessuna malizia in tutto questo.»
Parker sbuffa adirato. «Non sai cosa vuoi. Non sai cosa ti fa stare bene. Non sai se vuoi vivere con me. Non sai se vuoi me o lui. Non sai mai niente.» Strattona leggermente la mia presa ma non mollo. Sto lottando per farlo ragionare. Lui, deve ragionare. «Lui lo sa che ti amo. Sa che voglio stare con te. Sa che non deve intromettersi. Si è solo preoccupato ed è corso qui in ospedale per cinque minuti. Non vivrà qui o meglio ci vivrà con il padre ma io non lo vedrò spesso... staremo lontani», singhiozzo pregandolo con gli occhi. Stringo le presa sulla sua giacca ritrovandolo a pochi centimetri dal mio viso. Il cuore mi batte a mille e so che l'orgoglio demolirà tutto quanto.
«Cerca di non fare cazzate. Ti prego.» Toglie delicatamente le mie mani dalla giacca e si incammina a grandi falcate verso il parcheggio.
Fisso la figura che diventa indistinta ad ogni metro e scivolo in ginocchio sull'asfalto bagnato incapace di piangere, di urlare, di rialzarmi.
N/A:
~ Certe delusioni ti aiutano a crescere, altre ti insegnano ad andare avanti e a non commettere più lo stesso errore. Ci sono poi certe delusioni che non riesci proprio a scrollare di dosso ed ecco che inizi a piangere, inizi a stare male, inizia a farti le paranoie e a non dormire perché, certe delusioni rimangono impresse nel cuore.
~Nella prima parte del capitolo abbiamo visto un pezzo del passato di Emma, la sua vergogna, il suo cambiamento. Momenti di vita che hanno temprato la sua persona rendendola diversa. Abbiamo visto le sue fragilità, il suo dolore.
Nella seconda parte la preoccupazione e il dolore per la propria amica, Lexa, che ha perso la bambina. L'arrivo a Vancouver di Ethan, il loro breve incontro.
Emma ha rivissuto un momento doloroso. Riuscirà a riprendersi da questo?
Nella terza parte abbiamo visto un Parker deluso, ferito nell'orgoglio e stanco.
Cosa avrà combinato Ethan? Cosa succederà ancora? Le cose si sistemeranno?
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Scusate per gli errori. Fatemi sapere se vi arrivano le notifiche sugli aggiornamenti.
Ps: ho pubblicato Forbidden una nuova storia, un thriller/storia d'amore. Se volete passate a leggere. (Fa sempre piacere).
Sempre se volete passate a leggere: Ogni traccia che ho di te. (Spero vi piaccia).
Buona serata :* ~
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro