56. Son chiusi i begli occhi, che aperti facén men chiari i più lucenti e santi
Febbraio 1547
Il Signore diede loro un altro anno insieme e Michelangelo e Vittoria lo passarono nel modo più bello, semplice e tranquillo possibile, per vivere il loro affetto in perenne comunione con l'amore di Cristo. L'inverno, però, arrivò portando con sé nuove sciagure, la malattia di Vittoria, che sembrava essersi ormai quasi completamente ripresa e fuori da ogni pericolo, prese di nuovo il sopravvento con più forza di tutte le altre volte. La marchesa rimase mesi inferma a letto nella sua cella del convento di Sant'Anna de' Funari, accudita dalle dolcissime cure della giovane donna Prudenzia e di Michelangelo che veniva a passare con lei un'ora al giorno.
L'artista si sedeva accanto al suo letto, le portava da far vedere dei disegni e le parlava di tutto ciò che gli succedeva, di quello che era stato incaricato di fare, delle opere a cui stava lavorando e a quelle a cui avrebbe voluto dedicarsi in futuro. Vittoria ascoltava senza rispondere, le loro conversazioni, tanto belle prima, si erano ridotte praticamente ad un monologo, ma andava bene così: anche solo il condividere la loro muta compagnia li rendeva più felici di quanto si possa immaginare.
Quel freddo giorno di febbraio Michelangelo era venuto con un disegno diverso dal solito, quando lo mostrò a Vittoria, che tentava di stare un po' sostenuta con il busto per vederlo meglio, lei capì immediatamente di cosa si trattava.
«È la Basilica» disse con un filo di voce, rivolgendo il suo sguardo stanco verso l'artista.
Michelangelo annuì.
«È solo uno schizzo» rispose, «niente di definitivo, ovviamente. Il Papa vuole che sia io a dirigere i lavori della fabbrica di San Pietro.»
Gli occhi di Vittoria si illuminarono, tornò a guardare il disegno che Michelangelo continuava a porgerle.
«Sua Santità sa che se non la completerete voi non lo potrà fare nessuno» disse abbozzando un sorriso che le costò molta fatica.
«Ma io sono vecchio» rispose lui, «ho lavorato tutta la mia vita senza sosta, adesso che non ne ho più bisogno vorrei poter fare a meno degli incarichi e dedicarmi solo a quello che desidero realizzare per me. Ma non posso tirarmi indietro.»
«Fatelo per tutti i Cristiani» mormorò Vittoria, «abbiamo bisogno di una basilica che mostri tutta la grandezza della Chiesa di Roma.»
Michelangelo non rispose. Sapeva che era vero, che non c'era nessun altro che potesse portare a termine la costruzione di San Pietro oltre a lui e che il più importante luogo di culto di tutta la Cristianità doveva tornare a splendere per accogliere nel suo seno tutti i fedeli e i pellegrini da tutte le parti del mondo, per molti secoli a venire.
«Accetterò l'incarico del Papa, non posso fare altrimenti» disse con un sospiro, «Sua Santità mi ha già comunicato che, tra una quindicina di giorni, il 25 di questo mese, dovrò partecipare alla prima riunione con tutti i membri della fabbrica di San Pietro per esporre il mio progetto, non ho scelta.»
«Vi aspetto il giorno seguente, allora» disse Vittoria, «per sapere che cosa è stato deciso.»
Ci fu una pausa, un attimo di silenzio.
«Mi dispiace non poter vedere la vostra Basilica» aggiunse con un sospiro, «spero di poterla ammirare dal cielo.»
Il volto di Michelangelo si incupì: era chiaro che Vittoria non sarebbe sopravvissuta a lungo, mai abbastanza per poter vedere neanche l'inizio dei lavori alla fabbrica di San Pietro. Nonostante ne fosse consapevole, il dolore al solo pensiero era troppo: anche vederla lì, inerme e ferma, con il viso emaciato e pallido, era una tremenda sofferenza per lui, ma, nel pensare alla sua morte, al fatto che non avrebbe potuto più vederla, che non avrebbe potuto più sentire la sua voce o prendere la sua mano, sentiva che quel vuoto lo avrebbe distrutto.
«La vedrete» rispose, «in qualche modo la vedrete.»
***
Le condizioni di Vittoria peggiorarono drasticamente, il convento di Sant'Anna non era più in grado di darle le cure necessarie, aveva bisogno di un luogo più caldo, più agiato e con più aria perché si potesse sperare di scongiurare la sua morte. Vittoria non voleva andare via dal suo amato monastero, era lì che aveva desiderato stare rinchiusa per tutta la sua vita ed era lì che lei desiderava morire.
«Signora marchesa non possiamo lasciarvi qui» madonna Prudenzia, la ragazza che si prendeva cura di lei, le accarezzava dolcemente il viso ossuto, freddo e tremante, «vostra nipote Giulia e suo marito, messer Cesarini, vi accoglieranno nel loro palazzo.»
«Voglio morire qui» protestò lei con appena un filo di voce, la ragazza la guardava con grande compassione, «non voglio essere seppellita in una ricca tomba di famiglia, in qualche chiesa importante di Roma, ma voglio riposare per sempre nel cimitero del convento, con addosso l'abito monacale che non ho mai potuto portare.»
Nonostante la sua flebile resistenza, Vittoria fu portata il prima possibile a Palazzo Cesarini dove fu sistemata in una stanza con delle grandi finestre che si aprivano sul giardino, illuminavano la camera e facevano entrare un po' di aria sana e pulita.
***
Questo spostamento fu riferito a Michelangelo mentre stava per uscire di casa, uno dei servi di Giulia Colonna, su preghiera di madonna Prudenzia, era andato da lui per dirgli delle condizioni, sempre più gravi della marchesa. Michelangelo lo congedò subito, non aveva tempo per stare a parlare adesso: tutti i funzionari della fabbrica di San Pietro lo stavano aspettando non molto lontano da dove era stata portata Vittoria.
Chiuse la porta di casa e cominciò a camminare nervosamente, il pensiero della marchesa lo tormentava e non riusciva a togliersi dalla testa la sua immagine, distesa sul letto in un luogo che non conosceva, lontana da dove avrebbe voluto rimanere. Sentì l'impulso di cambiare strada e di andare direttamente a Palazzo Cesarini, ma non poteva mancare alla riunione, quello era proprio il giorno in cui non poteva permettersi un'assenza.
Appena entrò nella sala delle riunioni non salutò nemmeno, non aveva la mente libera, non riusciva a pensare a niente che non fosse Vittoria. Si sedette accanto a messer Giovanbattista, colui che aveva istruito su tutte le condizioni che avrebbe dovuto dire, da parte sua, e rimase in silenzio. Tutti i presenti lo guardarono, ma nessuno ebbe il coraggio di dirgli qualcosa.
«State bene, maestro?» gli domandò messer Giovanbattista vedendolo più strano e nervoso del solito.
«No» rispose senza aggiungere altro. Giovanbattista, sorpreso da quella risposta così brusca, non osò chiedergli niente di più.
La riunione cominciò e Michelangelo non ebbe la testa di ascoltare neanche una singola parola, il suo sguardo era assente e, ogni tanto, gran parte dei presenti gli lanciava delle occhiate curiose o stranite.
«Messer Michelangelo Buonarroti» il delegato del Papa lo chiamò abbozzando un viscido sorriso, l'artista lo fulminò con lo sguardo, «dato che Sua Santità ha incaricato voi per amministrare la Fabbrica di San Pietro, daremo a voi la parola.»
Michelangelo si alzò, guardò tutti per qualche secondo e poi cominciò a parlare, nel modo più brusco e insolente possibile. Non aveva tempo, non aveva voglia e non aveva interesse, adesso, per queste cose: aveva già abbastanza problemi e non era assolutamente il caso di aggravarli con queste cose futili.
«Nostro Signore me ha mandato a dire per uno palafrenero che io dovesse venire in questa congregatione per fare sapere alle Signorie Vostre quello che io voglio» cominciò, il suo tono era duro, «Da poi che Sua Santità me ha dato carico della fabrica di Santo Pietro, io dico che non voglio che altri se ne impaccia si non io, et che non si faccia altro che quello che ms. Giovanbaptista qui dirà da parte mia. Et io non voglio che si gli habbino da fare nella et robbarie, che intendo che il medesimo che è venditore di tevertine, è quello che fa il patto, et non voglio che si muri con altra calcia, pretre et puzolana, che quella che piacie a me.»
Appena ebbe finito di parlare nessuno osò fiatare, Michelangelo non si sedette di nuovo come tutti si aspettavano.
«Ho detto quanto basta» concluse, «le altre cose ve le dirà messer Giovanbattista.»
Uscì senza aggiungere niente e senza guardare nessuno negli occhi, persino messer Giovanbattista, a cui tutti adesso rivolgevano lo sguardo, era rimasto sconvolto.
***
Michelangelo non si domandò neanche quello che stava facendo, non si chiese dove i suoi passi lo stavano portando perché non ce n'era bisogno. Aveva cose più importanti a cui pensare adesso che alla fabbrica di San Pietro, per quanto lo riguardava potevano andarsene tutti al diavolo quegli sleali dei lavoratori, dei fabbricatori e degli amministratori: tutto quello che importava loro di sapere era che con lui non avrebbero potuto più fare i loro interessi, rubare e intascarsi più di quanto meritassero.
Era stremato, non avrebbe dovuto rivolgere loro parole così dure ma non era riuscito a fare diversamente: non poteva sopportare tutto quello che stava accadendo, si sentiva schiacciato dal dolore, dalla frustrazione e dall'impotenza di non poter fare niente.
Si fermò davanti alla facciata di Palazzo Cesarini, lo osservò per qualche istante e tutta quella confusione di sentimenti, di rabbia, di sofferenza, di senso di colpa esplose. I suoi occhi si riempirono di lacrime che cercò di trattenere il meglio che poté. Non esitò oltre e bussò al portone. Gli venne ad aprire lo stesso ragazzo che era andato da lui appena qualche ora prima, lo riconobbe e lo fece entrare senza una parola: Michelangelo non aveva più forza per parlare.
Quando si trovò davanti a quella porta chiusa, quando ebbe appoggiato la mano sulla maniglia e l'ebbe aperta con una piccola e debole spinta, scoppiò a piangere. Vittoria, adagiata sul letto, non sembrava dormire, piuttosto era come se si stesse già riposando nel sonno eterno. Fece qualche passo verso il letto, asciugandosi con le dita quelle lacrime che non riusciva a trattenere. Rimase in piedi accanto a lei: il viso era verdognolo, come quello dei morti, ma il suo petto si alzava ancora in un debolissimo e fioco respiro.
Le accarezzò appena la guancia e la sentì fredda come il marmo.
«Mia adorata Vittoria» sussurrò tra le lacrime, non l'aveva mai chiamata con il suo nome, non si era mai spinto oltre, nonostante la loro intimità, all'appellativo di marchesa: la loro gerarchia, per quanto non considerata, era rimasta nelle parole. Era certo che lei non avrebbe potuto sentirlo.
Rimase lì, ad aspettare, senza mai staccare gli occhi da lei, fino a quando non ebbe finito le lacrime. Quando vide che Vittoria aveva aperto gli occhi, ormai così spenti e sbiaditi, cercò di nascondere i segni del pianto.
«Michelangelo» la sua voce era appena un sussurro, non aveva più forza neanche per parlare, «siete venuto lo stesso.»
«Sono venuto» ripeté forzandosi a sorridere.
Vittoria lo osservò per qualche attimo, il suo volto si fece compassionevole.
«Non piangete, caro» mormorò, «vado da Dio.»
Michelangelo avrebbe voluto dirle tutto, avrebbe voluto dirle quanto fosse importante nella sua vita, che senza di lei si sarebbe sentito completamente perso...
«Se solo sapeste quanto vi ho amata» mise la mano sopra la sua e lentamente intrecciò le sue dita con quelle di lei, «voi siete stata la mia luce, il mio cuore, la mia stessa vita. Come farò senza di voi?»
«Lasciate che Cristo prenda il mio posto» Vittoria fu soffocata da un colpo di tosse ma poi si riprese, «dovete fare la sua Chiesa e la farete, la più bella di tutte. Io vi aspetterò.»
Michelangelo notò che Vittoria faceva sempre più fatica a parlare, i suoi occhi si stavano chiudendo come se la sua anima venisse rapita, costretta ad allontanarsi da qualcosa di invisibile.
«Ci rivedremo Michelangelo» fu tutto quello che riuscì a dire prima di chiudere per sempre gli occhi.
Michelangelo non le rispose, sapeva che ormai non poteva più sentirlo. Lasciò scorrere tutte le sue lacrime: Vittoria, la sua amata Vittoria, non c'era più. Strinse, tra i singhiozzi, quella mano fredda, accarezzò nel modo più dolce il suo volto ormai esanime. Non voleva lasciarla, non voleva più andare via. Era morta, lo sapeva ma non voleva crederlo. Si avvicinò ancora di più a lei, al suo viso, esitò qualche attimo: non aveva mai avuto il coraggio di farlo, ma, se non lo avesse fatto, se ne sarebbe pentito per sempre. Avvicinò le sue labbra e le posò dolcemente su quelle fredde di lei, le lasciò un bacio castissimo, misto a tristi lacrime.
«Addio, mia amata Vittoria» sussurrò e nella stanza calò la tenebra.
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