54. Più alto è quel signore che ne' tu'occhi la mia vita ha posta
I mesi che seguirono non furono molto rosei per Vittoria. La mancanza di compagnia non le aveva per niente fatto bene, aveva bisogno di qualcuno, come Michelangelo, con cui poter parlare, a cui scrivere e con cui passare un po' di tempo in tranquillità. Come se non bastasse, poi, la questione con Gian Pietro Carafa si faceva sempre più pericolosa e Vittoria ne risentiva, aveva paura e era perennemente preoccupata nonostante la sua ferma fede in Dio le dicesse che stava seguendo la strada giusta, che stava combattendo per la vera Chiesa e non doveva arrendersi. La vita in monastero era diventata sempre più pesante, Vittoria aveva completamente smesso di mangiare, era dimagrita così tanto da far seriamente preoccupare il cardinal Pole.
«Più che far del bene, offendete Dio a sottoporre il vostro corpo a così duri stenti» cercava di convincerla a desistere da quella vita inopportuna in cui si era rinchiusa, ma, nonostante Vittoria vedesse negli occhi del cardinale tutta la sua apprensione, non riusciva a cambiare.
La malattia, inevitabilmente, riapparve, prendendo forza dalla debolezza del suo corpo. La marchesa di Pescara fu costretta, a malincuore, a ritirarsi a letto, ma non bastarono né una né due settimane per guarire da quello che lei si ostinava a chiamare uno dei suoi tanti mali passeggeri. La febbre era altissima, Vittoria riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti da quanto sentiva scoppiarle la testa e più che i giorni passavano più che delle strane perdite di sangue si facevano sempre più frequenti. Il medico veniva a visitarla ogni sera e, quando usciva dalla sua stanza, scuoteva ripetutamente il capo.
«Non c'è nulla da fare per la signora marchesa» riferiva con voce dimessa.
Era una mattina di marzo quando il cardinal Pole entrò silenziosamente nella stanza di Vittoria, era abituato ormai a farlo, la osservava dormire per qualche attimo e poi cominciava a recitare il rosario nella speranza che la preghiera potesse fare ciò che le medicine non erano in grado. Sgranò gli occhi quando vide la marchesa a sedere, con la testa sostenuta dai cuscini: i suoi occhi, seppur stanchi e circondati da profonde occhiaie, non erano accecati dalla febbre, il suo volto denutrito e ossuto aveva ripreso, per quanto era possibile, un po' di colore e le sue labbra, che erano diventate di un viola livido, avevano recuperato gran parte del loro originario colore roseo.
«Le vostre preghiere hanno avuto effetto, monsignore» gli sorrise, sentire il suono così distinto della sua voce gli illuminò il viso, «e anche quelle delle sorelle.»
Stette ancora qualche attimo a guardarla, con gli occhi pieni di lacrime di gioia.
«Sia lodato il Signore!» esclamò, prima di correre a chiamare le altre monache.
***
Per quanto, nonostante, a dispetto di tutti i medici che erano ormai sicuri della sua morte, la marchesa di Pescara si fosse ripresa, il suo aspetto non era cambiato quasi per niente. Vittoria, adesso, era tornata in grado di camminare, di muoversi, sempre evitando movimenti repentini, e di ritornare a vivere una vita dignitosa.
Fu una decisione comune quella di farla tornare a Roma, nel convento di Sant'Anna de' Funari: il convento di Santa Caterina era troppo duro per una donna debole come la marchesa, Vittoria doveva tornare a condurre una vita modesta, agiata quanto bastava perché la sua salute non ci rimettesse e Roma era l'unico luogo adatto per lei.
Fu Roma, infatti, la destinazione per cui partì al più presto, arrivò al monastero di Santa Caterina e tornò ad occupare la sua solita cella, sistemata in modo più agiato di quanto fosse stata prima. Nonostante fosse più vicina a Carafa non aveva paura, non temeva l'Inquisizione e non temeva di finire nelle loro mani, la fede era sempre ciò che le dava coraggio in qualsiasi situazione. Aveva assunto una ragazza, chiamata Prudenzia, a cui si era subito molto affezionata e che la aiutava in tutto ciò di cui aveva bisogno, la accudiva come una madre e lei la trattava come una figlia.
Dopo qualche giorno che fu arrivata non poté non pensare a Michelangelo: adesso che erano entrambi nella stessa città non c'era alcun pericolo, avrebbero potuto vedersi, con discrezione ovviamente, ma non erano più costretti a rinunciare l'uno alla compagnia dell'altra. Inviò il suo ormai fidato e caro Çapata a casa di Michelangelo con un biglietto scritto di sua mano e delle istruzioni che avrebbe dovuto pronunciare a voce, per far sì che potessero incontrarsi, anche quel giorno stesso se fosse stato possibile. Çapata tornò dicendo che non aveva trovato nessuno in casa e che aveva lasciato il biglietto sotto la porta, nella speranza che, quando Michelangelo o il suo servitore lo avessero trovato, avrebbero potuto leggerlo immediatamente.
***
Dopo qualche ora, infatti, l'Urbino si presentò all'ingresso del convento, le sorelle non erano sicure se farlo entrare o meno ma Vittoria, avendolo riconosciuto, le rassicurò che non era nessuno venuto per strane ragioni. Non era poi così insolito che Michelangelo le avesse inviato il suo garzone per darle una risposta, ma c'era qualcosa che le faceva avere un brutto presentimento.
«Signora marchesa, ho letto, più o meno, il vostro invito e ho trovato corretto venire ad avvisarvi» con quelle parole l'Urbino demolì tutte le ipotesi di Vittoria; era venuto di sua spontanea volontà, quindi.
«Messer Michelangelo non è in casa?» domandò lei con una punta di preoccupazione nel tono di voce.
Il garzone scosse il capo, la sua espressione era triste e preoccupata e Vittoria non sapeva che cosa pensare.
«No, non sta bene» rispose lui con voce bassa.
«Non sta bene?» ripeté Vittoria sconvolta, «è successo qualcosa di grave?»
«Il maestro ha cominciato a non sentirsi bene, gli è salita la febbre, una febbre forte e non sapevamo più che cosa fare» cominciò a raccontare l'Urbino, «poi, per fortuna, il signor Luigi del Riccio, suo carissimo amico, lo ha ospitato in casa sua e lo sta curando con tutti i mezzi possibili.»
Vittoria si sentì cadere il mondo addosso, anche se il ragazzo non l'aveva detto esplicitamente aveva capito che Michelangelo era in pericolo di vita, che quella malattia avrebbe potuto benissimo portarlo via da questa Terra. Cominciò a tremare, non poteva stare lontana da Michelangelo adesso, ora più che mai aveva bisogno di qualcuno che lo amasse al suo fianco e lei non poteva lasciarlo andare senza averlo rivisto, almeno una volta, senza avergli detto quanto gli voleva bene e quanto era stato importante per lei. La loro storia non poteva concludersi con quella lettera di addio che gli aveva mandato da Viterbo, non doveva.
«Devo vederlo» esclamò, ma l'Urbino scosse ripetutamente il capo.
«Con tutto il permesso, signora, ma siete troppo debole» disse in modo abbastanza diretto ma efficace per far desistere Vittoria dal suo matto proposito, «quella malattia potrebbe portarvi entrambi alla tomba.»
La marchesa abbassò la testa, non voleva rassegnarsi ma non c'era niente che potesse fare. Urbino aveva ragione, se avesse preso anche lei quel male non l'avrebbe sicuramente superato: sarebbero morti insieme.
«Ora devo andare» il ragazzo fece un veloce inchino, «hanno bisogno di me. Vi aggiornerò il più presto che potrò.»
Vittoria rimase lì, in piedi, qualche attimo. Afferrò il crocifisso al collo: avrebbe fatto di tutto perché Michelangelo guarisse e l'unica cosa che poteva fare era chiedere aiuto al Signore.
***
La malattia di Michelangelo le costò molti pianti e molti rosari, pregava per lui ogni ora, con tutto il cuore, parlava a Dio chiedendogli, in cambio di atroci sacrifici, la sua guarigione ed ebbe un'effettiva risposta. Quando Urbino tornò, dopo quasi un mese di ininterrotte preghiere da parte della marchesa, sorrideva e questo bastò a tranquillizzare Vittoria. Appena lo vide, quasi raggiante, venirle incontro si sentì affondare nella felicità, abbandonare tutta l'ansia, la paura e la sofferenza che aveva provato e riempirsi di puro sollievo.
«Sta guarendo, signora marchesa!» esclamò il garzone quando ancora era a parecchi passi da lei, arrivò quasi correndo e le si fermò davanti con gli occhi lucidi di lacrime di gioia, «se tutto va bene entro domani messer Michelangelo potrà tornare a casa e riprendere il suo lavoro.»
Vittoria non seppe come riuscì a trattenere le lacrime nell'udire quella notizia, non c'era niente di più bello che potesse sentire se non quelle parole.
Appena Urbino se ne fu andato Vittoria si chiuse nella sua stanza, dopo aver pregato e ringraziato con tutto il suo cuore Dio per aver ascoltato le sue preghiere e per averle esaudite, prese dei fogli, i più belli che possedeva, cominciò a trascrivere le sue poesie, che ormai conosceva praticamente a memoria. Erano anni che non ne componeva più, ma quelle che aveva già composto erano parte di lei e le conosceva quasi meglio di quanto conoscesse se stessa.
Avrebbe fatto un regalo a Michelangelo, dato che le aveva detto che aveva apprezzato molto le sue rime, adesso avrebbe allestito per lui, e solo per lui, una raccolta di quelle che riteneva più importanti e più belle, con un ordine tutto suo che doveva contenere un significato che descrivesse il rapporto tra quell'artista così geniale e quella donna altrettanto intelligente.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro