53. Dal primo pianto all'ultimo sospiro
«Ho una brutta notizia da darvi» Reginald Pole si alzò in piedi, tutti lo guardarono con la preoccupazione negli occhi. Vittoria abbassò lo sguardo, stringendo le sua mani l'una nell'altra, ansiosa di sapere che cosa il cardinale avesse da dire loro di così tremendo, «siamo sempre più in pericolo. I sospetti di Gian Pietro Carafa e dell'Inquisizione del Santo Uffizio aumentano sempre di più, di giorno in giorno, ci hanno dato un nome che implicherebbe già la poca ortodossia delle nostre riunioni: adesso siamo conosciuti come l'Ecclesia Viterbensis.»
Nell'udire quelle parole si alzò un sussulto, tutti si guardarono tra loro, Vittoria incrociò lo sguardo angustiato del Pole. Quel nome diceva tutto di che cosa Carafa pensasse di loro e, soprattutto, in quale enorme pericolo si trovassero. Non avevano capito niente, la Chiesa non aveva capito che il gruppo degli Spirituali di Viterbo non voleva staccarsi da Roma, non voleva imitare i luterani, ma, anzi, voleva attuare una ritorno alle origini nella stessa Chiesa Romana. Carafa forse lo sapeva e lo aveva interpretato come una minaccia, come il desiderio di distruggere la Santa Chiesa da dentro, dal suo interno, in modo da farla scomparire: così, allora, aveva deciso di farli passare per eretici, per un altro tipo di luterani, in modo che potesse distruggerli molto più facilmente.
«Carafa non ha prove per accusarci di star formando una nuova comunità anti ortodossa» esclamò il Flaminio dando voce a quelli che erano i pensieri di tutti i presenti, «non abbiamo attaccato nessuno, né la Chiesa né i luterani, tutto quello che abbiamo fatto è stato ritrovarci in questo monastero a parlare della vera fede!»
«Abbiamo anche adottato come testo principale un libro considerato eretico» aggiunse il Pole, il suo volto era duro come la pietra, sapeva che non c'erano vie d'uscita, «il Beneficio di Cristo è condannato dalla Chiesa, da Carafa che, appena ne avrà modo, lo inserirà nell'elenco dei libri proibiti.»
Il Flaminio si lasciò andare ad un lungo sospiro, chiuse gli occhi e rimase in silenzio, in qualche attimo di meditazione.
«Io non lo rinnegherò» disse poi con tono deciso, alzando i suoi occhi e passando in rassegna con lo sguardo una ad una le persone sedute intorno al tavolo.
«Nemmeno io» esclamò Vittoria decisa, «se solo Carafa lo leggesse forse capirebbe quanto quel testo possa essere illuminante: chiunque abbia un po' di fede comprende che non è pagando ingenti somme al Papa che si ottiene la Salvezza, non c'è niente di eretico in questo.»
«La nostra battaglia sarà dura» riprese il Pole dopo un lungo sospiro, «mi sono accorto che qualcuno legge le lettere, non solo le mie ma anche le vostre: tutte quelle che vengono inviate da Viterbo vengono setacciate dall'Inquisizione. Per quanto ne so non sono ancora arrivati ad aprirle e leggerne il contenuto ma dubito che ci metteranno molto, per adesso l'Inquisizione si limita a vedere a chi mandate le vostre lettere e chi le manda a noi, stanno tracciando tutta la nostra corrispondenza.»
Vittoria sbiancò, era una cosa terribile.
«Non può essere» scosse il capo, incredula, «non possono essersi spinti a tanto.»
«Lo hanno fatto invece e andranno anche oltre» rispose il Pole alzandosi in piedi, «per oggi la riunione è finita, vi invito a non inviare più alcuna lettera che non sia strettamente necessaria e, soprattutto, interrompete la corrispondenza con le persone a cui volete bene, per evitare di metterle in pericolo.»
***
Vittoria uscì dalla biblioteca a testa bassa, non poteva ancora credere a quelle parole: come osava Carafa restringere così le loro libertà? Non erano più liberi di fare niente, neanche di scrivere ad altri, era una cosa assurda! Il pensiero di Vittoria andò immediatamente a Michelangelo, quella domenica non era presente, le aveva scritto che doveva lavorare e che non poteva in alcun modo lasciare Roma e lei gli aveva promesso che, una volta finita la riunione, gli avrebbe raccontato tutto quello che era stato detto.
Adesso non era più sicura di volerlo fare, anzi, ormai si era convinta che non lo avrebbe fatto. Non avrebbe più preso in mano una penna, come aveva consigliato il Pole, non avrebbe più scritto a nessuno che non fosse la sua famiglia, non avrebbe corso il rischio di mettere in pericolo gli altri per colpa della sua poca attenzione. E Michelangelo sarebbe stato il primo. Sentì una stretta al cuore, la vicinanza dello scultore era una delle cose più importanti nella sua vita e l'aveva già messo troppo in pericolo invitandolo ad unirsi alle assemblee degli Spirituali. Non avrebbe fatto lo stesso errore, sicuramente, se Carafa avesse saputo, come probabilmente già sapeva, dell'intimo rapporto che intercorreva tra loro, certamente non avrebbe esitato, davanti ad un Tribunale, a condannarli entrambi. Niente di ciò che faceva lei doveva ricadere su Michelangelo e, per evitare danni peggiori di quelli che ormai aveva già commesso, sarebbe stata disposta a chiudere per sempre la loro amicizia, ad abbandonare per sempre quel castissimo amore che li legava l'uno all'altra.
Entrò nella sua cella e, appoggiata sulla sua scrivania, trovò proprio una sua lettera. Quando la vide sentì un tuffo al cuore, ogni volta arrivava al colmo della gioia quando riceveva una sua lettera, quando poteva leggere le sue parole ed udirle proprio come se fossero pronunciate dalla sua stessa voce. Le faceva male ma era un male necessario. Non riuscì a resistere dall'aprirla, la lesse con un senso di malinconia sempre più crescente: appena ebbe finito la ripiegò e la infilò nel cassetto, insieme a tutte le altre che le aveva mandato. Lo chiuse con un tonfo, quelle sarebbero state le ultime parole di Michelangelo che avrebbe mai letto.
***
Appena sentì il rumore della porta chiudersi e dei passi di Urbino avvicinarsi alla sala, Michelangelo scattò in piedi. Il garzone fece appena a tempo ad affacciarsi alla soglia della cucina che l'artista lo raggiunse.
«Allora?» lo incalzò, ma Urbino scosse il capo.
«Niente, maestro» fu la triste risposta.
Michelangelo si lasciò cadere su una sedia, rimase qualche attimo in silenzio non sapendo neanche lui che cosa pensare. Era più di una settimana che Vittoria non gli scriveva più e non riusciva a capirne il motivo, ogni giorno che passava era sempre più in ansia. Ogni mattina mandava Urbino alle poste per controllare se ci fosse qualche lettera per lui ma quando il ragazzo tornava a mani vuote Michelangelo sprofondava nella disperazione. Non capiva, non riusciva a comprendere: fino a qualche tempo fa si scrivevano praticamente tutti i giorni, la vicinanza di Viterbo a Roma permetteva loro di scambiarsi le risposte in un tempo molto breve, non era possibile che le lettere di lei avessero smesso, tutto d'un tratto, di arrivare. Le opzioni erano due: o era successo qualcosa di grave a Vittoria che le impediva di scrivere oppure aveva deciso di troncare, così all'improvviso, il loro rapporto. Entrambe le possibilità lo devastavano.
«Non disperatevi, maestro» Urbino, vedendolo così sconsolato, tentò di confortarlo, «probabilmente c'è un problema con le poste a Viterbo...»
Michelangelo scosse lentamente il capo, solitamente non mostrava quando stava male, non voleva che nessuno vedesse le sue debolezze ma l'Urbino ormai era per lui come un figlio ed era anche l'unica persona che potesse aiutarlo. Non voleva chiudersi nella solitudine, ma il pensiero fisso di Vittoria, del non sapere per quale motivo ignorasse così le sue lettere, i suoi sonetti e persino i suoi disegni, lo tormentava e gli rendeva impossibile dedicarsi ad altro.
«E se le fosse successo qualcosa?» mormorò, torturandosi il volto con le mani.
«Ne avreste avuto notizia» rispose l'Urbino mettendosi, rumorosamente, a sedere accanto a lui, «non pensate che se la marchesa di Pescara avesse sofferto improvvisamente di qualche male, la notizia si sarebbe diffusa in tutta Roma; voglio dire, lo stesso Santo Padre si sarebbe subito preoccupato per la sua salute!»
Michelangelo non era pienamente convinto, la paura c'era ma anche a lui sembrava incredibile che non gli avesse mandato neanche un messaggio, scritto di mano di qualcun altro, per avvertirlo delle sue precarie condizioni di salute. Forse non voleva allarmarlo inutilmente, ma allora perché aveva completamente smesso di scrivergli: sarebbe stato un controsenso.
«Non capisco» gemette, «è stato un cambiamento troppo drastico, ho bisogno di una risposta: anche se dovrò fare a meno della signora marchesa, anche se dovrò eliminare dalla mia memoria tutto quello che è successo tra noi, ho bisogno di sapere almeno se sta bene.»
Urbino rimase in silenzio, dalla sua espressione era chiaro che comprendeva lo stato d'animo del maestro, ma anche che non sapeva come poter alleviare questa sua sofferenza.
Michelangelo si alzò a fatica, senza dire niente, salì le scale con passi pesanti e si chiuse nella sua stanza. Si sedette alla consunta scrivania che poggiava al muro sporco e pieno di scritte e disegni, impugnò la penna, la tuffò nell'inchiostro e cominciò a scrivere, per l'ennesima volta. Sapeva che lei non le avrebbe lette, sapeva che lei non avrebbe mai risposto ma non smetteva di provarci: Vittoria non poteva abbandonarlo senza dire niente, senza dargli una spiegazione, non sarebbe stato neanche da lei. Come avrebbe fatto senza di lei, senza la sua compagnia? Non voleva arrendersi, voleva almeno capire il perché di questo allontanamento, forse lo avrebbe sopportato meglio.
Non riservò le parole, scrisse tutto ciò che la sua mente gli dettava, la sua mano si muoveva sul foglio così veloce che dopo qualche minuto aveva già concluso. Aveva tanto da dire e forse l'aveva detto male, ma nelle sue parole c'era tutta la sua sofferenza, la sua preoccupazione e anche la sua rabbia per un simile comportamento. Sotto un'esplicita richiesta di una risposta pose la sua firma, "il vostro Michelagnolo Buonarroti" e la richiuse. Finché non gli avesse risposto non si sarebbe dato pace.
***
«Appoggiatela pure lì» sorrise Vittoria, la sorella che era venuta a consegnarle la posta si ritirò con un inchino e la lasciò nuovamente sola.
La marchesa sprofondò nel silenzio della sua cella, osservò per qualche attimo ciò che la giovane monaca le aveva portato e, scacciando i sensi di colpa, posò la penna. La afferrò e, esitando qualche secondo, si fece coraggio e la ripose nel cassetto chiudendolo con un colpo secco. Non l'avrebbe neanche aperta, proprio come le altre.
Questa cosa, per quanto non volesse ammetterlo, le pesava molto: non osava pensare a che cosa Michelangelo stesse passando per colpa sua, sicuramente era deluso da lei, ferito ma quanto profondamente? Si riscosse pensando che quel male che faceva lo faceva solo per il suo bene, che se avesse pensato a se stessa e se avesse seguito i suoi desiderio lo avrebbe messo in un enorme pericolo. Lo faceva per lui, solamente per lui.
Non voleva ammettere quanto gli mancasse, ma la sua vita in convento, senza la trepidante attesa delle sue lettere e i sorrisi che le sue parole le strappavano, senza la gioia di quanto veniva a farle visita, di quando potevano parlare soli e scambiarsi doni, era sempre più monotona e più triste. Era strano quanta felicità Michelangelo portasse nella sua vita, proprio lui, l'uomo più burbero, antipatico e serio di tutta Roma.
Non resistette, afferrò di nuovo la maniglia del cassetto e lo aprì, quando vide più di una decina di lettere accumulate l'una sull'altra, mai toccate e mai aperte, sentì che stava per farsi del male. Le prese tutte e le aprì una per una, con mano tremante. Man mano che le leggeva vedeva crescere sempre di più in Michelangelo la paura, il panico, la preoccupazione, la sofferenza, il dolore che lei gli stava causando. I sensi di colpa la aggredirono, di nuovo, più di quanto avessero fatto in precedenza.
Quando ebbe finito, quando ebbe letto fino all'ultima riga della più recente lettera si alzò, lanciò appena uno sguardo a tutte quelle carte disposte in modo disordinato sul suo umile scrittoio e si avvicinò alla finestra. Rimase a contemplare i tetti delle case di Viterbo per qualche minuto, nella sua mente si accavallavano pensieri che cercava invano di scacciare, si ammassavano tentazioni che non riusciva a ripudiare. Tornò a sedere, prese un pezzo di carta e cominciò a scrivere:
Non ho resposto prima alla lettera vostra, per esser stata si pò dire resposta della mia pensando che se voi et io continuamo il scrivere secondo il mio obligo et la vostra cortesia, bisognarà che io lassi qui la cappella de Santa Catarina senza trovarmi alle hore ordinate in compagnia di queste sorelle, et che voi lassate la cappella de San Paulo senza trovarvi dalla matina in anzi giorno a star tutto il dì nel dolce colloquio delle vostre dipinture, quali con li loro naturali accenti non manco vi parlano che facciano a me le proprie persone vive, che ho d'intorno; si chè io alle spose et voi al vicario di Christo mancaremo. Però sapendo la nostra stabile amicitia et ligata in cristiano nodo sicurissima affectione, non mi par procurar con le mie il testimonio delle vostre lettere [...]
E sempre a voi mi raccomando et così al vostro Urbino.
Dal monasterio di Viterbo, a dì XX di luglio
La rilesse un attimo, ripose la penna nel calamaio e la piegò: quella sarebbe stata l'ultima lettera che gli avrebbe mai scritto.
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