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49. Il cor lasso con voi, che non è mio

La situazione di Ascanio Colonna non andava per niente migliorando. Perugia si era arresa al Papa, il 5 giugno aveva aperto le sue porte alle schiere papali, rinunciando a tutte le antiche libertà che aveva provato a conservare. Ascanio Colonna, invece, per tentare di non ribellarsi direttamente al pontefice, non volle più prelevare il sale destinato ai suoi feudi nello Stato Pontificio, ma gli fu impedito in ogni modo, i suoi vassalli furono imprigionati e lui fu costretto a rompere, di nuovo, con il Papa.

Ascanio aveva cominciato a riunire soldati, chiamandoli da Napoli e dai feudi della Campania, e Vittoria, allarmata, gli aveva scritto più volte, incitandolo a lasciar stare, di non fare una guerra per una cosa così meschina, ma lui non aveva alcuna intenzione di sottostare agli ordini del Papa. I due eserciti si prepararono, Ascanio aveva scelto come proprio quartier generale Paliano ed era proprio lì che le schiere di Paolo III puntavano. Non c'era più niente da fare, Giovanna d'Aragona era scappata con i figli ad Ischia, aveva cercato di scrivere al Papa da laggiù per pregarlo di interrompere questo conflitto ma non era stata ascoltata.

Anche Vittoria doveva andare via, lo sapeva e lo aveva sempre saputo, sin dall'inizio di questa storia. Non sarebbe andata ad Ischia, per quanto fosse affezionata ormai la vita al castello era troppo diversa da quella che aveva intrapreso da tanto tempo, aveva deciso che non aveva più alcuna intenzione di uscire da un convento. La decisione arrivò velocemente: si sarebbe rifugiata nella non lontana Orvieto, nel convento di San Paolo, ma non poteva andarsene da Roma senza prendere congedo da Michelangelo.

***

Non ci fu bisogno che lo chiamasse per dirgli addio, fu lui, di sua spontanea volontà, a venire, allarmato per le notizie che venivano dal Papa. Lavorando nella Cappella Sistina aveva ricevuto nuove molto più precise di quelle che giravano di bocca in bocca tra la gente di Roma, non era riuscito più a stare tranquillo e si era sentito in obbligo di andare da lei.

Appena lo vide Vittoria dovette richiamarsi a tutta la sua forza di volontà per non scoppiare a piangere, non voleva in nessun modo abbandonare quei mesi di vita perfetta nel convento di San Silvestro in Capite, non voleva dire addio alla piacevolissima compagnia dell'artista, non voleva essere costretta a non vedere più Michelangelo al quale si era affezionata più di quanto avrebbe voluto e dovuto.

Rimasero a guardarsi in silenzio, non c'era bisogno di parole per esprimere tutto il loro dolore: entrambi avevano gli occhi lucidi, entrambi erano sull'orlo delle lacrime.

«Partirò domani per Orvieto» la voce di Vittoria era tremante, non voleva farlo non voleva andare via, «è stata una decisione improvvisa, vi avrei chiamato entro poco o sarei venuta da voi, ma voi siete stato più veloce. Non volevo partire senza salutarvi.»

«Tornerete prima o poi?» le domandò lui, la sua voce era appena un sussurro, «non credo di riuscire a stare a Roma senza di voi.»

Quelle parole, per poco, la fecero commuovere. Se solo avesse potuto lo avrebbe stretto tra le braccia, ma si limitò a prendergli le mani e stringerle nelle sue.

«Lo spero» si sforzò di sorridere ma i suoi occhi continuavano ad essere carichi di tristezza, «con chi parlerò quando sarò sola? Con chi passerò la domenica pomeriggio? Mi mancherete, Michelangelo.»

«Vi scriverò» rispose lui facendosi forza, «vi scriverò ogni giorno, se sarà necessario, per alleviare la vostra lontananza e quando riceverò le vostre lettere da Orvieto sarò l'uomo più felice del mondo.»

Vittoria sorrise malinconicamente, con gli occhi pieni di lacrime.

«Mi mancherete, signora marchesa» mormorò, lasciandole un lungo bacio sul palmo della mano, la lasciò andare non sapendo quando mai avrebbe potuto ancora tenerla fra le dita.

Vittoria lo guardò allontanarsi. Quando lo vide voltarsi indietro gli sorrise e lasciò che qualche lacrima le bagnasse le guance: Michelangelo le sarebbe mancato più di qualsiasi altra cosa.

Due serve l'avrebbero accompagnata ad Orvieto, insieme a Foao e Çapata dai quali, ormai, non riusciva più a separarsi. I due garzoni erano impegnati a caricare sul carro quel poco che Vittoria si portava via: principalmente libri, qualche abito scuro, una manciata di cuffie di seta per i capelli e un solo paio di pianelle. 

La marchesa aspettava in piedi, appoggiata con la schiena al muro del convento e al fianco della madre superiora che era uscita per congedarla, era l'alba e il sole cominciava solo in quel momento a sbucare fuori in un cielo completamente ricoperto di nuvole grigie. Vittoria sarebbe partita lo stesso, anche se di lì a poco avesse piovuto, non poteva aspettare neanche qualche giorno in più, ogni ora Roma diventata sempre più pericolosa per un Colonna.

«Signora marchesa» la più giovane delle sue serve, una ragazzina di forse quindici anni, le porse un foglio, «stamattina presto vi è stato lasciato questo, non so di chi sia.»

Vittoria lo prese, osservandolo con la fronte aggrottata, appena riconobbe la scrittura fu costretta a distogliere lo sguardo e voltarsi per non essere osservata dalle sorelle. Si tamponò gli occhi con il dorso della mano e lesse piano, era una poesia e la marchesa non aveva alcun dubbio di chi fosse stato a mandargliela.

Com'arò dunche ardire
senza vo' ma', mio ben, tenermi 'n vita,
s'io non posso al partir chiedervi aita?
Que' singulti e que' pianti e que' sospiri
che 'l miser core voi accompagnorno,
madonna, duramente dimostrorno
la mia propinqua morte e ' miei martiri.
Ma se ver è che per assenzia mai
mia fedel servitù vadia in oblio,
il cor lasso con voi, che non è mio.

«È ora di andare, signora.»

Vittoria ripiegò il foglio, lo tenne stretto nel pugno. Michelangelo aveva lasciato il suo cuore a lei e lei avrebbe lasciato il proprio a lui.

***

Orvieto era un luogo molto accogliente, il convento di San Paolo era molto simile a quello romano di San Silvestro in Capite ma, nonostante tutto, trovò un po' difficile ambientarsi. Non sapeva perché ma Vittoria sentiva che il suo cuore era sempre a Roma, non sarebbe riuscita a stare in qualche altro luogo oltre alla Città Santa: nonostante non le mancasse veramente niente, anzi, conducesse forse una vita migliore di quella a Roma, sentiva che c'era qualcosa che le faceva provare grande nostalgia della sua cara città.

Appena arrivata era venuto subito da lei, ad accogliere una così importante ospite, il governatore della città, Brunamonte de' Rossi, che le aveva portato i saluti anche del cardinal Farnese al quale, in una lettera, aveva descritto lo stile di vita che la marchesa conduceva al convento. A Vittoria inizialmente fece molto piacere, poi, man mano che le visite aumentavano, si sentì sempre più controllata. Quando vide, poi, che Brunamonte sapeva anche delle lettere che le arrivavano e che riferiva tutto al cardinale Farnese, cominciò a preoccuparsene.

«Come state, signora marchesa?» il governatore era di nuovo lì da lei, Vittoria non capiva per quale motivo la controllasse così a vista d'occhio ma non ebbe mai il coraggio di dirgli niente.

Purtroppo la risposta a quella domanda era molto facile: Vittoria non stava per niente bene. Le era arrivata una lettera di Alfonso d'Avalos e una persino da parte di Carlo V, l'imperatore, ed entrambi le davano notizie sgradite.

«Avete saputo qualcosa di nuovo?» continuò Brunamonte.

«Sì, signore» Vittoria annuì, era facile intuire dall'espressione del suo volto che non era niente di positivo, «abbiamo perso tutto.»

Il governatore rimase un attimo stupito.

«I Colonna?» domandò poi, «vostro fratello?»

«Paliano, il feudo assaltato dal Papa e in cui Ascanio si era rifugiato, non ha resistito» rispose Vittoria cercando di nascondere le lacrime agli occhi, era difficile anche solo pensarlo: i Colonna, una delle più ricche e potenti famiglie di Roma aveva perso tutto, «dopo due mesi è stata presa la città bassa, ma quella alta sembrava resistere ancora. È stata dura, qualcuno poi è riuscito a fare breccia nel muro e a conquistare, pian piano, tutte le torri difensive. Paliano è caduta e mio fratello è dovuto scappare a Napoli, il Papa l'ha scomunicato e esiliato da Roma e ha confiscato ai Colonna non solo Paliano ma anche tutti gli altri feudi.»

Il governatore ascoltava con un'espressione angosciata.

«Non abbiamo più niente» Vittoria pronunciò quelle parole con un singhiozzo, non avevano veramente più niente. I Colonna avevano perso la loro potenza, sarebbe stato impossibile recuperarla, la fama per la famiglia era giunta al termine.

«Mi dispiace, signora» disse Brunamonte abbassando il capo, poi, dopo qualche attimo, notò il foglio che Vittoria teneva davanti a sé, «posso domandarvi che cos'è?»

Vittoria annuì.

«Sto scrivendo al Papa.»

«Una lettera?»

La marchesa scosse il capo.

«Un sonetto» rispose, poi alzò la testa, «lo volete leggere? Potete riferire anche questo al vostro cardinal Farnese se ci tenete.»

Brunamonte rimase un attimo spiazzato per quelle parole venate di ironico rimprovero ma non si scompose.

«Volentieri.»

Vittoria glielo porse senza problemi. Lui cominciò a leggere:

Veggio rilucer sol di armate squadre
I miei sì larghi campi, ed odo il canto
Rivolto in grido e 'l dolce riso in pianto
Là 've io prima toccai l'antica madre.
Deh mostrate con l'opre alte e leggiadre
Le voglie umíli, o pastor saggio e santo!
Vestite il sacro glorïoso manto,
Come buon successor del primo padre!
Semo, se 'l vero in voi non copre o adombra
Lo sdegno, pur di quei più antichi vostri
Figli, e da' buoni per lungo uso amati!
Sotto un sol cielo, entro un sol grembo nati
Sono e nudriti insieme alla dolce ombra
D'una sola città gli avoli nostri!

«Glielo manderete?» domandò Brunamonte porgendole indietro il sonetto, «è molto bello.»

«Glielo porterò io» rispose lei, «torno a Roma.»

Il governatore sgranò gli occhi e non rispose subito.

«Ma la vostra famiglia è stata esiliata...» mormorò.

«La mia famiglia, non io» rispose secca, «è stato un piacere essere ospite nella vostra città, signore.»

***

Quando si trovò davanti all'ingresso della Cappella Sistina si sorprese lei stessa di essere lì. Era appena arrivata a Roma, da neanche qualche ora, aveva lasciato quel poco che si era portata ad Orvieto al convento in cui avrebbe risieduto, non più San Silvestro in Capite ma Sant'Anna de' Funari, e poi era andata immediatamente lì. Roma non era ancora sicura per i Colonna, la sua famiglia aveva perso tutto, era vero, ma il Papa non l'avrebbe perdonata così facilmente: Vittoria aveva preferito cambiare aria, stanziarsi in un nuovo convento per cercare, almeno in parte, di tutelarsi. La sua presenza, come suora senza i voti, non avrebbe avuto modo di danneggiare nessuno, ma il Papa conosceva la sua influenza e, come era successo ad Orvieto, non smetteva di tenerla d'occhio. In ogni modo a Vittoria non importava, avrebbe potuto stare più al sicuro in qualsiasi altra città d'Italia, avrebbe potuto restare ad Orvieto, oppure andare a Napoli insieme a suo fratello, ma sapeva che non sarebbe riuscita a vivere in completa serenità senza poter stare con Michelangelo. 

Vittoria, però, aveva il morale sotto i piedi, la sconfitta di Ascanio aveva pesato molto anche su di lei, si sentiva da una parte colpevole perché non era riuscita ad evitare quello scontro e dall'altra distrutta perché aveva portato dei frutti cattivissimi: i Colonna non erano più niente e, probabilmente, da quella disfatta non si sarebbero mai ripresi. Il suo umore triste e dimesso era accentuato ancora di più dal malessere fisico: da quando aveva cambiato aria Vittoria si sentiva sempre più debole, i dolori, quelle strane fitte al fianco, si erano fatti più intensi e più frequenti e questo la rendeva ancora di più attaccata alle sue uniche fonti di gioia: la preghiera e la compagnia di Michelangelo.

Trovò la Cappella aperta, entrò a passi lenti e socchiuse la porta dietro di sé, invitò Çapata a rimanere fuori, non c'era alcun pericolo lì dentro. Stette qualche attimo in piedi a guardarsi intorno, il silenzio la circondava, appena un filo di luce entrava dalle alte finestre e illuminava le meravigliose figure che Michelangelo aveva dipinto sulla sua volta. Si ricordava benissimo la prima volta che l'aveva vista, il giorno dell'inaugurazione, il giorno in cui, per la prima volta, aveva visto Michelangelo stesso: chi avrebbe mai potuto immaginare che, adesso, a distanza di trent'anni, si sarebbero incontrati ancora lì, non come sconosciuti ma come i più intimi amici che entrambi avessero. Gli occhi di Vittoria, però, si soffermarono sul fondo della cappella, sul grande ponteggio dietro al quale stava prendendo vita l'ennesimo capolavoro dell'artista fiorentino.

«Questa parte di intonaco è asciutto, maestro, possiamo cominciare a riportare le figure.»

Avvicinandosi Vittoria cominciò ad udire i primi sussurri che, in uno spazio ampio e grande come quello, si confondevano con la vastità del silenzio. La marchesa lasciò vagare lo sguardo sulla parete, ormai dipinta più che per metà, e si sentì piccola davanti a tutta quell'immensità.

«Michelangelo!» lo chiamò dal basso ma la prima volta la voce le uscì dalle labbra come un sussurro.

L'artista udì il suo nome e riconobbe la voce, posò immediatamente i pennelli e si affacciò dal ponteggio. Era troppo in alto e Vittoria non poté vedere il largo sorriso che gli illuminò il volto.

«Signora marchesa!» esclamò, il suo tono era sorpreso e emozionato, non si aspettava minimamente una sua visita, «attendete qualche secondo e scendo subito da voi.»

Gli ci volle, appunto, appena una manciata di secondi perché apparisse da sopra la scaletta a pioli che collegava il ponteggio al pavimento della cappella, le si avvicinò velocemente e si fermò quando fu appena a qualche passo da lei. La guardò come se avesse visto un miraggio, senza dire niente, incredulo come se ancora non fosse sicuro che quella fosse Vittoria in carne ed ossa. Lei avrebbe voluto avvicinarsi, avrebbe voluto stringergli le mani, avrebbe voluto anche solo un minimo contatto per quanto le era mancato, ma non si mosse.

«Vi accoglierei come si conviene, signora, ma credo di non esserne in grado» disse Michelangelo alzando le mani completamente coperte di un pigmento blu oltremare e gli abiti anch'essi macchiati di chiazze di colore.

«Non sono venuta qui per disturbarvi dal vostro lavoro» Vittoria cominciò a scusarsi, sapeva bene quanto le visite mentre lavorava non fossero gradite a Michelangelo e sperava che per questo lui non si arrabbiasse, «solamente per salutarvi, per farvi sapere che sono tornata, adesso me ne vado subito.»

Non voleva assolutamente andarsene, era venuta lì sperando di poter passare del tempo, molto tempo, tutto quel tempo che non erano riusciti a stare insieme, con Michelangelo, ma, dall'altra parte, non voleva disturbarlo quando aveva molto da fare.

«No, vi prego, restate per un po'» protestò Michelangelo, quelle parole sollevarono Vittoria che si costrinse a trattenere un sorriso, «non speravo neanche più di vedervi così presto, a dire la verità non credevo di potervi proprio rivedere.»

«Invece sono qui» Vittoria non riuscì a non mostrare tutta la sua gioia, «mi sono stabilita al convento di Sant'Anna dei Funari e resterò qui non so per quanto.»

«Quando siete arrivata?» le domandò, i suoi occhi non si spostavano dal volto di lei, «non ne ho saputo niente...»

«Non si festeggia più per l'arrivo di un Colonna» la voce di Vittoria non nascondeva tutto il suo turbamento e la sua sofferenza, «anche perché i Colonna non sono più niente.»

Alzò di nuovo gli occhi verso Michelangelo e si rese conto in quel momento che lui era davvero l'unica cosa che la legava a Roma: la sua famiglia era stata bandita, il palazzo era stato espropriato, come già era successo quando era bambina, e tutto ciò che le rimaneva era quell'antipatico e solitario scultore. Non poteva avere più dubbi, lui era la persona più importante che avesse.

«Avete perso gran parte dei vostri possedimenti, avete perso l'importanza del vostro nome, ma non avete perso la cosa più bella che avete» Michelangelo abbassò lo sguardo per nascondere gli occhi che stavano diventando lucidi, «ho temuto, in questi mesi, che potevate perdere la libertà, o addirittura la vita. Non oso pensare che cosa sarebbe successo se vi foste trovata a Paliano o in mezzo a uno dei tanti assedi dei vostri feudi. Il fatto che voi siate viva, che voi stiate bene, è molto più importante dell'aver perso tutto.»

«Siete stato così in pensiero per me?» per poco entrambi sarebbero scoppiati a piangere dalla commozione, Vittoria non riusciva a comprendere la natura di quell'amore così assoluto da parte dello scultore e Michelangelo stava per cedere all'emozione di vederla sana e salva.

«Ve ne stupite anche?» domandò, «non avete ancora capito quanto siete importante per me?»

Vittoria cercò di trattenere il pianto, perché quell'uomo la portava sempre sull'orlo delle lacrime? Quelle parole la fecero sentire amata in un modo che non aveva mai provato prima, si sarebbe buttata tra le sue braccia se solo non fosse stato sconveniente e se lui non fosse stato ricoperto di colore. Si guardarono in silenzio, scambiandosi un profondo abbraccio con lo sguardo. Avrebbe mai potuto volere bene a qualcuno più di lui?

Poi Michelangelo si riscosse improvvisamente consapevole che non erano soli, che Urbino e gli altri garzoni probabilmente li stavano osservando, curiosi, dall'alto del ponteggio.

«Dato che siete qui, volete salire a vedere la volta?» le chiese cambiando totalmente atteggiamento, sorrideva ma quella profonda intesa che aveva legato prima i loro sguardi e i loro cuori era svanita. 

«Potrei davvero?» esclamò lei, i suoi occhi si illuminarono guardando in alto il ponteggio, «siete sicuro che non vi darò fastidio?»

«Assolutamente no» Michelangelo si fece lanciare da sopra un cencio e si pulì le mani meglio che poté, «vi prego, però, di fare attenzione perché il ponteggio è un po' traballante.»

Vittoria si avvicinò alla scala, non si sentiva in piena forma ma il desiderio di salire lassù era così tanto che le avrebbe dato tutta la forza necessaria. Si tirò un po' su la gonna legandola ai fianchi alla cintura e si avvicinò alla scala a pioli. Michelangelo le porse la mano per sorreggerla mentre saliva, Vittoria la prese, avrebbe voluto stringerla, ma a malincuore la lasciò andare quasi subito. Quando fu arrivata in cima Urbino, il garzone e l'impasta colori, la aiutò a rimettersi in piedi. Appena alzò gli occhi rimase paralizzata davanti a tanta maestosità, a tanto tormento. Vederlo così, a pochi centimetri dagli occhi, le faceva sembrare di essere lì dentro, come risucchiata da quella spirale di nuvole e di anime che si contorcevano chi tormentato dal dolore e chi dalla pietà per i dannati. Poco più in alto di lei c'era Cristo, un Cristo quasi greco, senza barba, come solitamente veniva rappresentato, e, al suo fianco, c'era la Madonna. Si asciugò immediatamente le lacrime per nasconderle, ma non le riuscì: era lei, quello lì, su quel muro, era il suo volto. Michelangelo l'aveva resa eterna quando non aveva fatto niente per meritarselo.

Neanche si accorse che l'artista era accanto a lei da quanto era presa nella contemplazione di quella maestosa meraviglia. Michelangelo osservava la sua reazione, non disse niente, attese che lei fosse pronta e si fosse completamente ripresa da tutta quell'emozione.

«Dio vi ha fatto un grande dono Michelangelo» fu tutto quello che riuscì a dire, «e voi, con le vostre pitture, farete conoscere la Parola in tutta la Sua grandezza.»

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