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46. Già morto sarei alle promesse dei tuoi primi sguardi (parte 1)

La chiesa di San Silvestro in Quirinale era quasi vuota, non era spaziosa e le sue pareti accoglievano i fedeli come vecchi amici. Da quando Vittoria era tornata a Roma era diventata un'assidua frequentatrice di quella parrocchia, le piaceva la struttura, le piaceva il luogo, in alto sul monte del Quirinale, e i suoi giardini. Ma soprattutto le piacevano le persone che aveva trovato.

Sedeva su una delle prime panche con il rosario stretto tra le mani e la Sacra Bibbia aperta davanti a lei, alla sua destra messer Lattanzio de' Tolomei ascoltava con aria attenta le letture e alla sua sinistra Foao, uno dei garzoni del convento di San Silvestro in Capite che l'aveva accompagnata insieme a Çapata, teneva lo sguardo basso e le mani congiunte. Frate Ambrogio parlava a voce alta, con tono sicuro: le sue parole arrivavano dritte al cuore, ma Vittoria si rese conto che era un modo molto diverso da quello con cui lo faceva fra Bernardino Ochino. Quando pensava a lui veniva subito sopraffatta da un velo di tristezza, non poteva pensare che quello che le era sembrato un santo, un uomo ispirato da Dio, si fosse rivelato un nemico della Chiesa, un eretico. Fra Bernardino era scappato, appena aveva ricevuto accuse più pesanti, e non si era presentato davanti all'Inquisizione di Roma: questo aveva decretato la sua condanna. Frate Ambrogio, invece, era un suo grande oppositore e, nel modo di parlare, era facile riconoscerci l'attaccamento alla Chiesa e la condanna per tutti i credenti che rivendicavano una loro autonomia da essa. Vittoria, da una parte, si sentiva presa in causa, ma frate Ambrogio, nonostante sicuramente avesse saputo dei suoi rapporti con fra Bernardino e Juan de Valdés, anch'egli rivelatosi in odore di eresia, non l'aveva mai giudicata, non aveva mai detto una parola contro di lei, anzi, cercava, passo per passo, di mostrare tutto ciò che aveva imparato di sbagliato e che rischiava di allontanarla dalla vera fede cattolica.

Lattanzio de' Tolomei, invece, era uno degli uomini più importanti della corte papale, anche nella sua gioventù era stato dottissimo, sapeva molte lingue tra cui il greco antico, l'ebraico e l'aramaico, oltre ovviamente al latino. Vittoria aveva imparato a conoscerlo perché frequentava la sua stessa chiesa e ogni domenica pomeriggio, proprio come quella, rimanevano insieme ad ascoltare le letture e i sermoni di frate Ambrogio. Ci aveva preso molta confidenza e poteva dire che, in quel periodo, messer Lattanzio de' Tolomei fosse il migliore amico che avesse a Roma.

Frate Ambrogio fece una pausa per riprendere fiato, la sua attenzione, come quella di tutti i presenti, fu per un attimo rapita dall'arrivo di un giovane. Vittoria gli lanciò un'occhiata mentre lo vedeva salutare messer Lattanzio e sistemarsi a sedere poco dietro di loro. Doveva avere massimo vent'anni, il suo viso le era completamente nuovo e aveva un qualcosa di straniero. Appena lo sentì salutare il suo amico, comprese dalla voce che non era italiano e che, anzi, il suo accento di italiano non aveva proprio nulla. Si voltò e continuò ad ascoltare le parole di frate Ambrogio, non senza lanciargli ogni tanto uno sguardo curioso: quel giovane le stava simpatico, si guardava intorno con i suoi occhi attenti e non sembrava per niente interessato alle prediche del frate ma indagava con lo sguardo l'architettura e le decorazioni della chiesa.

Frate Ambrogio chiuse il grosso e antico libro dei Vangeli, lo prese in mano e, dopo essersi inchinato davanti all'altare, scese i gradini del presbiterio: la sua lezione, per quella domenica, si era conclusa.

«Parole molto belle anche quelle di oggi, non credete, signora marchesa?» messer Lattanzio de' Tolomei rivolse la sua attenzione su di lei, ma Vittoria si era voltata ad osservare il giovane.

«Come sempre, messer Lattanzio» rispose, poi, curiosa, gli domandò: «Conoscete quel ragazzo? Ho visto che vi ha salutato appena è arrivato.»

Anche messer Lattanzio si voltò, incontrò lo sguardo del giovane e gli fece cenno di avvicinarsi. Il ragazzo si alzò con aria non molto compiaciuta e si avvicinò con appena qualche passo verso di loro.

«Signora marchesa» annunciò il de' Tolomei, «vi presento il mio giovane e caro amico, Francisco de Hollanda, pittore portoghese che è venuto qui a Roma per studiare l'arte italiana.»

Vittoria sorrise e lo guardò dall'alto in basso con un'espressione compiaciuta.

«Francisco, lasciate che vi presenti l'illustrissima signora Vittoria Colonna, marchesa di Pescara e sorella di Ascanio Colonna» continuò Lattanzio.

Francisco rimase un attimo sorpreso, sicuramente le nobildonne che era abituato a conoscere non vestivano un semplice abito scuro paragonabile a quello di una monaca. Fece un lungo inchino al suo cospetto come per farsi perdonare del suo comportamento sgarbato.

«Onoratissimo di fare la vostra conoscenza, señhora marquesa» disse il giovane portoghese, «il vostro nome è sempre accompagnato da innumerevoli lodi, madonna.»

«Quindi siete venuto a Roma per studiare l'arte antica?» gli domandò lei ignorando i suoi complimenti.

Francisco scosse leggermente il capo.

«Non solo quella antica, señhora» rispose, «tutta l'arte che l'Italia conserva. Sono stato mandato da sua maestà, il re di Portogallo, perché possa vedere e imparare la vostra arte e conoscere i vostri artisti.»

«Allora non siete venuto qui per ascoltare le letture» scherzò lei con un sorrisetto, lanciò un'occhiata a messer Lattanzio e continuò «sono certa che messer Francisco sarebbe molto più compiaciuto di ascoltare Michelangelo Buonarroti parlare di pittura piuttosto che il sermone di frate Ambrogio.»

Francisco aggrottò le sopracciglia e la guardò con un'espressione indignata.

«Perché, madonna?» rispose con un tono quasi alterato, «credete che perché sono un pittore non possa fare altro oltre a dipingere? Certamente ascolterei volentieri Michelangelo Buonarroti ma dal momento che vengono lette le Epistole di San Paolo preferisco ascoltare frate Ambrogio.»

«Non siate arrabbiato, messer Francisco» intervenne velocemente Lattanzio de' Tolomei, timoroso che Vittoria si fosse offesa con quelle parole, «la signora marchesa non aveva intenzione di dire questo, noi stimiamo molto la pittura qui in Italia. Credo che lei volesse dire che sarebbe felice di potervi dare, oltre a quello che già avete ricevuto venendo qui a Roma, anche il piacere di poter ascoltare messer Michelangelo parlare di pittura».

Francisco sgranò gli occhi, il suo viso si colorò improvvisamente, la rabbia era svanita tutta d'un tratto.

«Vostra Eccellenza lo farebbe davvero?» mormorò incredulo.

Vittoria gli rivolse un largo sorriso e poi chiamò il giovane garzone che sedeva accanto a lei e che l'aveva accompagnata fin lì.

«Foao, vai a casa di Michelangelo Buonarroti e digli che io e messer Lattanzio de' Tolomei siamo qui, in questa silenziosa cappella, e che la chiesa è chiusa e molto gradevole, se non si preoccupasse di venire qui e perdere un po' del giorno con noi in modo che noi potremmo guadagnarlo con lui.»

Foao si alzò immediatamente, prese congedo dalla sua padrona e dai presenti e mosse verso la casa di Michelangelo a Macel de' Corvi. Vittoria, invece, rimase qualche attimo in silenzio, soddisfatta. Non solo Francisco d'Hollanda ma anche lei stessa desiderava poter rivedere Michelangelo dopo tanto, non si era dimenticata di lui, o meglio, le era ritornato in mente dopo aver lasciato la corte di Ferrara e adesso aveva trovato una scusa per invitarlo. Rivolse la sua attenzione su Francisco e vide che si era avvicinato a messer Lattanzio e che gli stava sussurrando qualcosa all'orecchio.

«Di che cosa state parlando così segretamente, messer Francisco?» chiese rivolgendo loro uno sguardo interrogativo e curioso.

«Mi stava dicendo» rispose Lattanzio de' Tolomei ridacchiando «quanto siete eccellente nel mostrare decoro in qualsiasi cosa facciate, anche in un messaggio. Messer Michelangelo è, in realtà,  più amico suo che mio: mi ha detto che, quando si incontrano, il Buonarroti fa di tutto per evitare la sua compagnia, sapendo che quando si trovano insieme non riescono più a separarsi.»

Francisco si morse il labbro per trattenersi dal ridere.

«Oh lo so» esclamò Vittoria sorridendo, «conosco messer Michelangelo e conosco altrettanto bene il suo astio per gli altri artisti. Quello che però non so è come potremmo fare per indurlo a parlare di pittura...»

«Michelangelo sa che messer Francisco è un pittore e non credo proprio che si metterà a parlare di pittura» frate Ambrogio, che aveva finito di risistemare l'altare e di togliersi l'abito sacerdotale, si era avvicinato incuriosito dalla piega che aveva preso la loro conversazione, «magari potreste nasconderlo da qualche parte in modo che messer Francisco possa stare ad ascoltare mentre il Buonarroti parla con la signora marchesa.»

Vittoria nascose una risata con la mano, mentre Francisco de Hollanda cercò di mantenere un tono serio.

«Non è così facile nascondere questo portoghese dagli occhi di messer Michelangelo» esclamò con una ridicola enfasi, «lui mi vedrebbe meglio nascosto rispetto a quanto fate voi qui dove sono adesso, anche se indossate i vostri occhiali.»

Frate Ambrogio rimase in silenzio, sistemandosi i grossi occhiali sul naso con un'espressione quasi offesa, Vittoria e messer Lattanzio scoppiarono a ridere e lo stesso fece, poco dopo, anche Francisco.

«Dobbiamo capire come fare per condurlo a parlare di arte» ripeté Vittoria come riflettendo tra sé, «forse potremmo...»

Non fece in tempo neanche a cominciare la frase che improvvisamente sentì bussare alla porta della chiesa, tutti si zittirono e guardarono allarmati in direzione dell'entrata.

«Di già?» mormorò messer Lattanzio confuso, «non può essere già arrivato!»

Vittoria si voltò verso Francisco e gli fece cenno con la mano di allontanarsi.

«Messer Francisco, veloce, andate a sedervi nelle ultime panche» gli sussurrò agitata, «e cercate di comportarvi normalmente, per il resto lasciate fare a noi.»

Il pittore non se lo fece ripetere un'altra volta, si alzò immediatamente e corse verso gli ultimi posti, si sedette e prese in mano una Bibbia fingendo di leggerla indisturbato. Vittoria rivolse di nuovo il suo sguardo alla porta: Michelangelo stava entrando insieme al suo garzone, Urbino, e a Foao che era tornato indietro con loro. Appena lo vide, Vittoria sentì il suo cuore accelerare i suoi battiti, perché era così tanto emozionata? Era da tanto che non si vedevano, era vero, ma non aveva mai creduto che le fosse mancato così tanto.

Si alzò sfoggiando il suo miglior sorriso, aveva una missione, non facile, da compiere, e gli andò incontro. Michelangelo si fermò appena furono a qualche passo l'uno dall'altra, si inchinò e poi tornò a guardarla, senza dirle nulla. Rimasero entrambi in silenzio, a guardarsi, come se solo un semplice e muto scambio di sguardi fosse sufficiente e più eloquente di ogni parola. Vittoria non capiva come mai quell'uomo le facesse provare delle emozioni così strane, che non provava da anni e anni, quando era stata infatti l'ultima volta che aveva trovato un'intesa così con qualcuno? Forse non c'era mai stata neanche una prima.

Cominciò lei a parlare, lo salutò con garbo, come s'addiceva a una nobildonna come lei, ma la risposta di lui fu dura, secca. Vittoria ne rimase molto dispiaciuta ma non lo lasciò a vedere, continuò con le sue parole, tutte così accuratamente scelte, senza neanche accennare a un qualche soggetto di pittura o di arte, ma lui rispondeva sempre in modo distaccato: la marchesa sembrava uno stratega che cercava di abbattere una cittadella armata con discrezione e furbizia mentre Michelangelo pareva una sentinella, in guardia e vigilante, un assediato che faceva le sue difese alzando qua muri e là torri. Alla fine l'artista si arrese, rivolse gli occhi verso Vittoria abbandonandosi a guardarla, come se in quella guerra avesse perso ogni forza.

«Venite a sedervi, maestro Michelangelo» Vittoria, con un sorriso, si avvicinò alla panca e gli fece cenno di prendere posto accanto a lei. L'artista si sedette e, subito, tornò a guardarla, come se in quella chiesa esistesse solo lei, non degnando neanche di uno sguardo non solo tutto l'ambiente intorno, ma perfino messer Lattanzio vicino a lui.

«È risaputo» cominciò Vittoria con voce scherzosa, rivolgendosi verso Michelangelo, «che chiunque entra in conflitto con messer Michelangelo nella sua specialità, la discrezione, non può non essere sconfitto. È necessario, messer Lattanzio» disse avvicinandosi a lui come se gli stesse sussurrando qualcosa nell'orecchio, «che noi parliamo di pittura per ottenere un vantaggio su di lui.»

«Non credo esista un modo migliore per infastidire messer Michelangelo di quello di informarlo che io sono qui» Francisco de' Hollanda era apparso dietro di loro, senza fare alcun rumore. Vittoria nascose una risata con la mano e Michelangelo si voltò verso di lui con un'espressione attonita, «ma so già che il modo per non vedere una persona è averla sotto gli occhi.»

«Perdonatemi, messer Francisco, per non avervi visto» rispose Michelangelo chiaramente imbarazzato, poi tornò a posare il suo sguardo su Vittoria, la sua intensità la fece arrossire, «ma non avevo occhi altro che per la signora marchesa.»

Vittoria distolse lo sguardo verso il pittore portoghese, lo pregò con un'occhiata preoccupata di rispondere. Michelangelo, invece, abbassò lo sguardo come se si fosse pentito di una tale ardita frase.

«Vi posso perdonare solo per questa ragione» rispose messer Francisco con un sorrisetto soddisfatto, «perché la signora marchesa causa, con una sola luce, due effetti contrari, proprio come fa il sole che con gli stessi raggi illumina e scioglie: voi siete stato accecato dalla sua vista mentre io vedo voi e vi sento solo perché vedo lei. Non solo per la sua bellezza ma anche per la sua saggezza: è anche per questo che non ho seguito il consiglio di un qualche frate.»

Vittoria rise e tutti gli occhi si posarono sul povero frate Ambrogio che, offeso, prese quel poco che rimaneva sull'altare e se ne andò senza dire una parola.

La marchesa, adesso che l'imbarazzo era passato, rivolse la sua attenzione nuovamente a Michelangelo: doveva portare a conclusione il suo piano, doveva riuscire a farlo parlare di arte e, a questo scopo, le erano venute in mente le parole che, solamente poco tempo prima, il Papa le aveva rivolto. Vittoria cercava di impegnarsi il più possibile per il bene della comunità e, soprattutto, per quello dei più disgraziati: aveva chiesto a Sua Santità se poteva essere possibile risistemare una qualche struttura antica per edificare un monastero che accogliesse le ragazze che morivano di fame oppure le prostitute convertite.

«Sua Santità mi ha fatto il favore» cominciò lei con un sorriso, Michelangelo la ascoltava attentamente, con la solita espressione rapita, «di costruire un convento per giovani ragazze proprio qui, ai piedi di Monte Cavallo, sul portico in rovina da cui si dice che Nerone abbia visto bruciare Roma così che le empie orme di un tale uomo siano sostituite da quelle più oneste delle sante donne. Però io non so, Michelangelo, che forma dare all'edificio e, soprattutto, se qualcosa delle rovine possa essere riutilizzato per la nuova costruzione...»

Gli occhi di Michelangelo luccicarono emozionati, alzò la testa senza esitare neanche un attimo.

«Sì, signora» rispose immediatamente, «penso che sia possibile.»

Aveva pronunciato quelle parole con così tanta sicurezza e serietà che messer Lattanzio si era voltato verso di lui, guardandolo con un'espressione stupita.

«Credo che Sua Eccellenza possa costruire il convento senza problemi» riprese, si fermò un attimo mostrando un po' di incertezza ma poi continuò, «e, se lo desiderate, potremmo andare insieme a vedere le rovine, così che possa farvi qualche disegno.»

Vittoria rimase un attimo in silenzio, era chiaro che la parola "insieme" escludesse sia messer Lattanzio de' Tolomei sia Francisco d'Hollanda e intendesse solamente lui e lei. Non era la prima volta che sarebbero stati soli, era già stata a casa sua ma non le era mai stata fatta una richiesta così esplicita. Per quanto ci provasse, non c'era modo di intenderla in modo diverso. 

«Non osavo chiedervi così tanto» rispose lei sorridendogli, era vero, in realtà: apprezzava veramente tanto la sua gentilezza, soprattutto perché il suo comportamento disponibile di quel momento andava contro a tutto ciò che si diceva di lui, «ma sapevo già che in tutto ciò che fate voi seguite la dottrina del Signore – deposuit potentes, exaltavit humiles – e che in questa siete eccellente perché vi comportate in modo modesto e generoso. E, credetemi, io non vi stimo in modo minore per il bisogno che avete di ritirarvi in voi stesso e fuggire da futili e inutili conversazioni, oltre che per la vostra saggezza nel non dipingere per tutti i principi che ve lo chiedono ma eseguendo un solo, meraviglioso, dipinto durante la vostra vita come avete fatto con la Cappella Sistina.»

«Signora, mi attribuite molto di più di ciò che io merito» rispose Michelangelo nascondendo il suo orgoglio con della finta modestia, «ma facendo questo vorrei difendere da una parte me stesso, dall'altra tutti gli artisti con il mio temperamento e da un'altra ancora persino messer Francisco qui presente» il portoghese rizzò il capo sentendosi chiamato in causa, «ci sono moltissime bugie e una di queste è che i pittori famosi sono eccentrici e che le loro conversazioni sono intollerabili e rudi. I pittori sono uomini, come tutti, e queste persone stupide e irragionevoli li considerano creature fantasiose e non permettono loro di avere le condizioni necessarie a un pittore per lavorare. Si aspettano complimenti e onori da degli uomini così impegnati! Gli artisti non sono in nessuno modo non molto sociali per orgoglio, ma perché trovano poche cose simili alla pittura e non vogliono perdere il loro tempo in inutili conversazioni.»

Tutti lo ascoltavano guardandolo con attenzione, Vittoria temette di averlo offeso con le sue parole, vedendo soprattutto con quale intensità stava rispondendo. Michelangelo si era sentito toccare un tasto dolente della sua vita, del suo carattere e del suo passato e la marchesa si sentì un po' in colpa per avergli riportato quelle memorie.

«E affermo a Sua Eccellenza» continuò l'artista, «che anche Sua Santità mi infastidisce quando parla con me e mi chiede come mai non vado mai a visitarlo. Io gli rispondo sempre che credo di servirlo molto meglio rimanendo a casa mia invece di andare da lui quando non ha che pochissimo bisogno di me.»

«Oh, maestro Michelangelo» intervenne in quel momento Francisco d'Hollanda, «il mio principe non è un Papa, ma un re, credete che mi perdonerebbe un tale peccato?»

«Questi peccati, messer Francisco, sono proprio quelli che i re perdonano» esclamò l'artista con aria lasciva, «devo dirti che qualche volta i miei importanti doveri mi hanno dato licenza di comportarmi come più preferivo. Per esempio, quando andavo a parlare con il Papa, quando tutti si inchinavano alla sua presenza e si toglievano il berretto, io mi mettevo, con noncuranza, questo vecchio cappello in testa e gli parlavo molto francamente. Ma per questo non mi ha ucciso, anzi, mi ha dato un sostentamento: ritengo molto stupido non permettere ad una persona di vivere solo perché è nata con un disgusto delle cerimonie e dei falsi onori.»

Quando ebbe finito di parlare, Michelangelo guardò Vittoria come se cercasse da lei una qualche approvazione, la marchesa gli sorrise appena e poi si rivolse a messer Lattanzio accanto a lei.

«Che cosa mi consigliate di fare, messer Lattanzio?» gli domandò rivolgendo poi, lanciando un'occhiata di sbieco all'artista, «dovrei fare una domanda a messer Michelangelo sulla pittura, in modo da provarmi che i grandi uomini non sono eccentrici come si dice in giro?»

Il volto di Michelangelo si irrigidì, ma sapeva che non poteva rifiutarsi.

«Prego Sua Eccellenza di dirmi che cosa posso fare per lei e sarà fatto.»

Vittoria, allora, si abbandonò ad un largo sorriso, lanciò una rapida occhiata d'intesa a Francisco d'Hollanda: ce l'aveva fatta, aveva raggiunto il suo obbiettivo, Michelangelo avrebbe parlato di pittura e il giovane portoghese avrebbe potuto avere la sua lezione privata da parte di uno dei più grandi artisti di tutto il mondo.

«Mi piacerebbe tantissimo sapere» rispose lei mostrandosi curiosa, «che cosa pensate della pittura delle Fiandre perché a me sembra molto più devota rispetto a quella italiana.»

«La pittura delle Fiandre, signora», rispose lentamente l'artista, «generalmente soddisferà qualsiasi persona devota più della pittura dell'Italia, che non gli farà mai cadere una sola lacrima, mentre quella delle Fiandre gliene farà versare molte. Questa cosa non è dovuta alla natura del dipinto ma a quella della persona buona e devota che lo contempla: piace, infatti, alle donne, specialmente quelle molto anziane o giovanissime, ai frati e alle suore o alle persone nobili che non hanno occhio per la vera armonia. La loro pittura è fatta di stoffe, mattoni e malta, dell'erba dei campi, delle ombre degli alberi, dei ponti e dei fiumi, che chiamano paesaggi, e piccole figure qua e là e tutto questo,  sebbene possa sembrare buono agli occhi di alcuni, è fatto senza simmetria né proporzione. Ma nonostante questo, la pittura in alcune altre parti del mondo è ancora peggiore di quanto non sia nelle Fiandre. Non parlo così male della pittura fiamminga perché è tutta cattiva ma perché tenta di fare così tante cose contemporaneamente – ognuna delle quali basterebbe per fare un grande lavoro – e arriva a non farne bene nessuna.»

Vittoria lo guardava stupita, quando aveva parlato dei nobili e delle donne si era sentita un po' presa in causa ma, più che l'artista andava avanti nel suo discorso, più che concordava con le sue parole.
«Solo le opere che vengono fatte in Italia possono essere chiamate vera pittura» continuò Michelangelo, «non c'è niente di più nobile e devoto della pittura del nostro paese perché, con le persone capaci, la devozione si unisce a Dio: la buona pittura, infatti, non è nient'altro che una copia delle perfezioni di Dio e un memoriale della Sua di pittura. Infine, una buona pittura è una musica e una melodia che solo l'intelletto può apprezzare ed è così rara che pochi sono in grado di raggiungerla.
E vorrei aggiungere ancora che di tutti i climi o paesi illuminati dal sole e dalla luna, in nessun altro si può dipingere bene se non nel regno d'Italia. Ordinate a un grande maestro, che non è italiano, di contraffare un'opera italiana e vi assicuro che si riconoscerà subito che il lavoro non è stato fatto in Italia, né per mano di un italiano. Allo stesso modo affermo che nessuna nazione o popolo (tranne uno o due spagnoli) può perfettamente soddisfare o imitare il modo di dipingere italiano, che è l'antico modo greco, senza che sia immediatamente riconosciuto come straniero, qualunque sforzo possa fare, e per quanto possa lavorare per farlo. E, se per qualche grande miracolo uno straniero del genere fosse riuscito a dipingere bene, allora, sebbene non l'abbia fatto per imitare l'opera italiana, si dirà che ha dipinto come un italiano.»

Michelangelo si zittì e per un attimo tutti rimasero in silenzio, come per metabolizzare l'enorme quantità di informazioni che aveva dato loro. Guardò Vittoria come per chiederle se la sua risposta fosse stata soddisfacente, ma Francisco d'Hollanda le impedì di parlare.

«Allora, maestro Michelangelo» cominciò lui con tono concitato, «affermate che, di tutte le nazioni, solamente gli italiani possono dipingere? E cosa c'è di strano in questo? Dovete sapere che in Italia la pittura è fatta bene e quella fuori dall'Italia è fatta male per molte ragioni. In primo luogo, la natura degli italiani è studiosa all'estremo e portano già con sé il talento quando nascono, la forza del lavoro, il gusto e l'amore per ciò a cui sono inclini e per ciò che richiede il loro genio. E se qualcuno decide di fare una professione, e di perseguire qualche arte o scienza liberale, non si accontenta di ciò che gli è sufficiente per arricchirsi in tale disciplina, ma per essere unico. Osserva e lavora continuamente e tiene davanti ai suoi occhi la grande speranza di essere un esempio di perfezione e non una semplice mediocrità in quell'arte o scienza. Questo perché l'Italia non stima la mediocrità, ritenendola una cosa estremamente povera, e parla solo di quelli che, come le aquile, superano tutte le altre, e penetrando le nuvole si avvicinano alla luce del sole. Siete nato in una provincia che è la madre e la protettrice di tutte le scienze e discipline, tra tante reliquie dei vostri antenati, che non esistono da nessun'altra parte, dalla giovinezza siete abituato a vedere cose che i vecchi non hanno mai visto in altri regni. Avete dei maestri notevoli da imitare e, per quanto riguarda le nuove opere, le città sono piene di cose curiose e di novità che si scoprono e si ritrovano ogni giorno. E tutte queste cose dovrei considerarle sufficienti per la perfezione di qualsiasi scienza. Noi portoghesi, sebbene alcuni di noi possano nascere con talento – come molti sono nati – abbiamo un disprezzo e una scarsa considerazione delle arti e quasi ci sentiamo in disgrazia a conoscerle troppo, perciò le lasciamo sempre imperfette e incompiute. Voi italiani soli date il più grande onore, la più grande nobiltà e il potere di essere di più a un uomo che è uno splendido pittore o che eccelle in qualche facoltà.»                                                                                        
«Mi sembra» rispose la marchesa, «che davanti a questi ostacoli si debbano porre talento e conoscenza, che non sono transalpini ma appartengono al buon italiano. Tuttavia, ovunque la virtù è la stessa, il bene è lo stesso e il male è lo stesso, sebbene ci possa essere una cultura diversa dalla nostra.»

«Se ciò», rispose Francisco, «fosse udito nel mio paese, beh, signora, sarebbero stupiti dal fatto che lei fa quella differenza tra italiani e altri uomini che lei chiama "transalpini"  "o da oltre le montagne. Abbiamo, signora, in Portogallo, città antiche e buone – soprattutto la mia città natale, Lisbona – abbiamo buone maniere, buoni cortigiani, valorosi cavalieri e principi coraggiosi, sia in guerra che in pace, e soprattutto abbiamo un re potente e splendido che con grande calma ci tempera e ci governa, e comanda province molto lontane di barbari che ha convertito alla Fede. Ed è temuto da tutto l'Oriente e da tutta la Mauritania, è un patrono delle Belle Arti, tanto che, sbagliando sul mio talento, che in gioventù prometteva dei frutti, mi ha mandato a vedere l'Italia e la sua cultura, e il maestro Michelangelo, che vedo qui. Non abbiamo edifici e quadri come voi, ma sono già in fase di realizzazione, e a poco a poco stanno perdendo quella superfluità barbara che i Goti e i Mori hanno seminato in tutta la Spagna. Spero anche che, arrivando in Portogallo dopo essere partito da qui, possa aiutare sia nell'eleganza della costruzione sia nella nobiltà della pittura, in modo che possiamo essere in grado di competere con voi italiani. La nostra scienza è quasi completamente persa – non per colpa di altri, ma per colpa del lungo disuso – a tal punto che pochissimi la stimano o la capiscono.»

«Fanno bene» disse Michelangelo scrollando le spalle.

Lattanzio de' Tolomei, che da tempo non parlava, prese la parola. Cominciò, mettendo in mostra, con orgoglio, tutte le sue conoscenze, a parlare dei grandi della storia, di Giulio Cesare, di Alessandro Magno, dell'imperatore Claudio, di Caligola, di Ottaviano Augusto arrivando a disturbare persino Plutarco, che, a detta sua, stimavano in modo grandissimo l'arte e soprattutto la pittura. 

«Chi è che vorrà paragonarsi a Traiano?» domandò con fervore, «chi è che vuole sentirsi più glorioso di Pompeo? Ecco, deve sapere che loro non solo amavano la pittura, quella divina soprattutto, ma se ne sono occupati anche con le proprie mani!»

Vittoria, vedendo che messer Lattanzio non aveva intenzione di concludere con tutte quelle domande retoriche, prese cautamente la parola. 

«Chi può essere, infatti» si agganciò al suo discorso, «uomo virtuoso se non adorerà la contemplazione e la devozione della pittura sacra? Produce gioia nella malinconia, porta sia il felice che il triste alla conoscenza della miseria umana, muove l'ostinato alla compunzione, il mondano alla penitenza, il contemplativo alla contemplazione e il timoroso alla vergogna. Rappresenta per noi la modestia dei suoi santi, la costanza dei martiri, la purezza delle vergini, la bellezza degli angeli e l'amore con cui ardono i serafini, meglio che in qualsiasi altro modo. Porta dinanzi a noi i meritevoli che sono morti tanto tempo fa e le cui ossa non si trovano nemmeno ora su questa terra, per permetterci di imitarli nelle loro gesta luminose, ci mostra le loro grandi imprese, la loro pietà e le loro maniere. Ai capitani mostra le manovre dei vecchi eserciti, le coorti e la loro disposizione, la loro disciplina e il loro ordine militare. A chi muore dà tanti anni di vita, il suo stesso volto resta dipinto, e la moglie si consola, vedendo quotidianamente davanti a sé l'immagine del suo defunto marito...»

Vittoria, non sapeva neanche lei come fosse stato possibile, si era ritrovata quasi in lacrime: era stata assalita da un improvviso ricordo di Ferdinando, della sua vita quando suo marito era ancora in vita e dell'amore che non aveva mai smesso di provare per lui. Le mancava, nonostante tutto, e, anche se credeva di no, a volte la sua memoria le tornava in mente causandole un dolore a cui non credeva di essere più abituata.

Messer Lattanzio, vedendo i suoi occhi riempirsi di lacrime, tentò di cambiare discorso, Michelangelo, invece, la guardava come se il suo dolore avesse colpito improvvisamente anche lui.

«Si è fatto tardi» disse alzandosi e rimanendo per quale attimo in piedi davanti alla marchesa, «è arrivata, per me, l'ora di andare.

Vittoria annuì e lo seguì dopo essersi asciugata gli ultimi residui di lacrime, lo stesso fecero anche messer Lattanzio e Francisco d'Hollanda.

«Signora marchesa» disse il giovane pittore portoghese, Vittoria si voltò verso di lui e, vedendo la sua timidezza, lo invitò con lo sguardo a continuare, «vorrei chiedervi di poter invitare questa compagnia anche domani, alla stessa ora e allo stesso luogo, se è possibile.»

Vittoria sorrise, guardò prima Michelangelo e poi messer Lattanzio.

«Sempre se il signor Michelangelo ha intenzione di venire» disse, rivolta a lui.

«Se ci sarete voi, signora marchesa, state certa che non mancherò» rispose facendola arrossire leggermente, «permettete di accompagnarvi alla vostra dimora.»

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