45. Debile e inferma, alla salute vera ricorro (parte 2)
Le due settimane di puro ed estenuante riposo che il dottore le aveva prescritto passarono più velocemente di quanto Vittoria potesse immaginare. Per festeggiare la sua completa guarigione Ercole II d'Este imbandì un ricchissimo banchetto ma non invitò l'intera corte ferrarese: la marchesa di Pescara notò che, nonostante Renata fosse presente, non c'era nessuno degli uomini che le aveva nominato appartenenti al suo circolo.
«Signora marchesa, c'è qualcosa che posso fare per alleviare il vostro turbamento?» il duca le si era avvicinato con fare gentile e con un'espressione piuttosto preoccupata sul volto, forse credeva che Vittoria fosse sul punto di sentirsi male di nuovo.
«Non dovete fare niente, Eccellenza, perché non sono affatto turbata» rispose lei rivolgendogli un sorriso ma si vedeva dalla luce nei suoi occhi che aveva qualche pensiero per la testa. Non voleva angustiare Ercole II e nemmeno recargli un dispiacere ma non riusciva a nascondere la sua inquietudine. Tornò a posare lo sguardo su Renata che, dall'altra parte della sala, cercava di tenersi sempre il più lontana possibile dal marito. La musica soffocava ogni parola e Vittoria non poteva riuscire a sentire di che cosa stessero parlando gli invitati che la circondavano, ma la duchessa sembrava completamente persa in un'angustia e una tristezza come non l'aveva mai vista.
«Non vi credo, ma non intendo insistere oltre» rispose Ercole II con un sospiro, «vorrei che la vostra permanenza qui possa essere un periodo più che piacevole per voi, se posso fare qualsiasi cosa per far sì che sia così non esitate a dirmelo.»
«Qui è tutto perfetto, non c'è niente che mi manca» esclamò lei, pensò che, dato che il duca le aveva dato quell'occasione, poteva fare qualcosa per Renata, per evitare tutta quella sua tristezza, «ma non direi lo stesso della signora duchessa: vostra moglie ha un'aria così afflitta che non riesco a ignorare. Dovreste fare qualcosa per lei, non per me, Eccellenza.»
Il volto del duca si irrigidì improvvisamente, l'ampio e cordiale sorriso sulle sue labbra si trasformò in un accenno di una smorfia. Vittoria notò questo cambiamento con grande dispiacere, era così penosa la situazione tra loro tanto da cambiare totalmente umore quando si parlava dell'uno o dell'altra?
«Mia moglie ed io non abbiamo gli stessi ideali» rispose con tono secco, «e nemmeno le stesse idee. Lei si circonda di eretici, attirando l'attenzione della Santa Inquisizione su Ferrara che è sempre stata una città molto inclusiva per ogni tipo di minoranza religiosa, mentre io tento di difendere la vera fede.»
Vittoria deviò il suo sguardo e tornò a posarlo su Renata, la parola "eretici" l'aveva fatta sobbalzare: tutti sapevano che cosa succedeva a chi si metteva contro la Chiesa e a chi entrava nel mirino della Santa Inquisizione. Non poteva immaginare Renata condannata al rogo per eresia, non poteva immaginare Renata accanita contro la Chiesa. Eppure era così.
«So che voi siete una donna molto pia e religiosa, signora marchesa» le sussurrò il duca, «e so anche che non volete staccarvi dalla Santa Chiesa. La signora duchessa ha molta stima di voi, ascolterebbe ogni vostro consiglio: non voglio chiedervi troppo ma se poteste cercare di riportarla nell'ortodossia fareste del bene a lei e alla sua anima.»
Vittoria rimase un attimo sconcertata: doveva prendere una posizione senza che Renata lo sapesse? Il suo sarebbe stato un doppio gioco, ma un doppio gioco finalizzato al bene. Poteva farlo? Sicuramente la sua coscienza ne avrebbe risentito ma poteva provarci.
«Cercherò di fare il possibile, signor duca» rispose.
***
Qualcosa non andava e Vittoria se ne era accorta. Si era affezionata a Renata, lo ammetteva volentieri, ma non riusciva ad affezionarsi allo stesso modo alla sua corte e soprattutto alle sue idee. Era completamente immersa dentro Ferrara, tutto ciò che aveva vissuto prima di arrivare sembrava totalmente dimenticato, quasi non fosse mai esistito. Il duca non faceva altro che dare feste e la duchessa invitarla nei suoi salotti, la sua giornata era completamente piena e non le rimaneva che poco tempo per riposarsi nel primo pomeriggio e per pregare la domenica. Come se non bastasse, più stava a contatto con il circolo riformista di Renata, più sentiva che c'era qualcosa di sbagliato in loro, qualcosa di troppo eccessivo che la stava portando via dalla vita ascetica e religiosa che aveva condotto, ad esempio, nel monastero di San Silvestro in Capite. Tutti i suoi tentativi di riportare Renata sulla retta via erano falliti, il suo circolo era ormai troppo radicato e Vittoria comprese che era arrivato il momento di staccarsi, di nuovo, dalle corti aristocratiche e tornare a vivere nella povertà, semplicità e umiltà di un convento: la sua anima aveva bisogno di ritrovare la giusta strada che conduceva a Dio e, per questo, non c'era niente di più efficace della preghiera.
Vittoria parlò con il duca che non nascose il suo dispiacere quando lei gli disse che voleva andare via dal castello.
«Verrò ogni volta che mi inviterete» lo tranquillizzò, «non sarò molto distante da qui.».
La residenza che Vittoria scelse fu il monastero di Santa Caterina, per un motivo ben preciso. Aveva sentito molto parlare di Suor Lucia da Narni, monaca domenicana; la sua storia aveva avuto un esito triste ma la sua fede rimaneva sempre molto forte. Per molti anni era stata considerata una santa, al pari di Santa Caterina, e quando aveva ricevuto le stimmate, ovvero i segni corporali della passione di Gesù, i buchi alle mani provocati dai chiodi della croce e la ferita al costato, era stata presa, non senza molta insistenza, sotto la tutela del duca Alfonso d'Este che l'aveva pavoneggiata come orgoglio ferrarese. Adesso, a circa sessant'anni, con l'improvvisa scomparsa delle stimmate, se ne era andata anche tutta la sua fama, era stata relegata alla vita privata del convento e considerata al pari di tutte le altre sorelle. Aveva perso ogni privilegio e considerazione da parte dei potenti ed era caduta nell'oblio, ma il suo cuore ardeva ancora di cieca fede perché la fama non era ciò che le interessava.
«Benvenuta, signora marchesa» la madre superiora la accolse con un sorriso, era da molto che nessuno voleva più risiedere a Santa Caterina, precisamente da quando la fama di suor Lucia era svanita, «abbiamo preparato per voi una delle celle più grandi e comode.»
«Vi prego di trattarmi al pari delle sorelle» rispose Vittoria gentilmente, «sono venuta qui per vivere la vostra vita, non per essere trattata come un'ospite d'onore.»
La madre superiora la accompagnò alla sua stanza, il convento era piccolo e non ci fu bisogno di fare molta strada: aveva un semplice chiostro al cui centro c'era un pozzo in pietra e tutte intorno le porte delle celle delle monache. Quella più appartata era destinata a Vittoria, la madre superiora si fermò lì davanti ed estrasse dal mazzo la grande e rozza chiave. Vittoria aspettava guardandosi intorno, i suoi occhi vagavano sul chiostro non alla ricerca di qualcosa ma di qualcuno: da quando era arrivata non aveva visto che poche giovani sorelle uscire e rientrare, ma non c'era la persona a cui era interessata.
«Posso farvi una domanda?» chiese alla madre superiora, «o vi risulterebbe scortese?»
«Non preoccupatevi, signora marchesa» le rispose la suora, «sono molti in farci la stessa domanda vostra.»
Vittoria rimase un attimo esitante, la madre superiora aveva già capito che cosa le interessava, ma non per questo si sarebbe rimangiata la domanda.
«Suor Lucia di Narni è ancora qui?» disse, fingendo di non saperlo. Prima di scegliere proprio Santa Caterina come convento in cui risiedere si era informata a dovere ed era sicura che la santa vivesse lì.
«La sua cella è quella laggiù» la madre superiora la indicò con un cenno del capo prima di aprire la porta e fare cenno alla marchesa di entrare, era praticamente dalla parte opposta a dove si trovava quella di Vittoria, «quando volete potete visitarla, anche prima dell'ora di cena. Non la cerca più nessuno da anni.»
***
Vittoria bussò alla porta, attese una risposta per qualche attimo con il cuore in gola. Voleva vedere Suor Lucia, a tutti i costi, ma non sapeva in quali condizioni l'avrebbe trovata. Bussò di nuovo, stavolta con ancora più delicatezza.
«Entrate» la voce le arrivò alle orecchie come un sussurro, un'eco portato dal vento.
Vittoria si fece coraggio, aprì la porta e fece qualche passo all'interno della stanza. Quella di Suor Lucia da Narni era una cella stretta, piccola e poco luminosa, con una sola finestra che si affacciava sul retro del convento. Il centro della stanza era vuoto, in un angolo c'era un fragile inginocchiatoio in un legno che non sembrava per niente stabile e, attaccato alla parete opposta, un piccolo letto dal cui materasso rotto uscivano delle pagliuzze.
Seduta lì sopra, con le mani in grembo in posizione di preghiera, il capo abbassato e il velo monacale che le nascondeva i capelli, Suor Lucia pregava in silenzio, parlava a Dio e Lui la ascoltava pazientemente. Quando la donna alzò il capo e rivolse verso di lei il suo sguardo, Vittoria si sentì in colpa per aver disturbato un momento così intimo di preghiera e di intesa con il Signore.
«Mia signora» esclamò Suor Lucia abbassando la testa in un inchino. Vittoria ne rimase colpita, non era allora così vecchia e rimbambita da non riconoscerla: l'aveva creduta, dalle descrizioni che le avevano fatto, molto meno lucida.
«Non inchinatevi» la fermò la marchesa, «sono io a dovermi inchinare a voi, piuttosto.»
Vittoria vide un sorriso affiorare alle labbra della donna.
«Avvicinatevi, signora marchesa» le disse e lei obbedì senza dire una parola, «voi siete Vittoria Colonna, giusto? Vi stavo aspettando.»
Lei annuì lentamente, completamente assorta nel guardare quella donna così particolare. Avvicinandosi a lei, adesso, poteva vederla meglio: Suor Lucia era anziana, il suo volto era cosparso da rughe, la sua pelle sciupata era macchiata, ma i suoi occhi scintillavano ancora del lume della fede che mai l'aveva abbandonata. Erano stati gli altri a lasciarla ma mai Dio.
«Sì» rispose Vittoria continuando a guardarla incantata, in quei lineamenti spenti ma così tranquilli e sereni vedeva tutta la potenza di Dio. Una donna fragile come Lucia da Narni riusciva a mostrare una grandezza che inevitabilmente destabilizzava chi la osservava. «Non volevo disturbarvi, ho interrotto un momento di preghiera e, se lo desiderate, posso tornare più tardi.»
«Non temete» Suor Lucia le sorrise ancora, «venite qui.»
Le fece cenno di sedersi al suo fianco, Vittoria, inizialmente stupita da tutta quella confidenza, esitò.
«Non abbiate timore.»
Vittoria annuì per rassicurarla e si sedette accanto a lei. Perché mai avrebbe dovuto avere paura di lei? Se proprio doveva dire qualcosa, il suo sguardo era un po' inquietante: Lucia la scrutava studiandola e Vittoria ne era infastidita, sentiva che stava guardando con grande attenzione qualcosa che andava oltre l'apparenza fisica. Era come se le stesse studiando l'anima.
Poi gli occhi si Suor Lucia si posarono sul crocifisso che Vittoria portava sempre al collo, quello che Ferdinando le aveva regalato come dono di nozze. Con tutte quelle pietre preziose stonava un po' con i suoi vestiti e per questo spesso lo nascondeva al loro interno, tenendolo a contatto con la pelle. Inaspettatamente Suor Lucia lo sfiorò con le sue dita magre e macilente.
«Siete ricca, signora» le disse tornando a guardarla negli occhi, «non solo di beni ma anche di spirito.»
«Non saprei dirvelo» rispose Vittoria un po' imbarazzata, «ma è il mio obbiettivo diventarlo: sono venuta qui per questo.»
Suor Lucia ritrasse la mano e fu proprio in quel momento che la marchesa si accorse delle fasciature che le bendavano il palmo. Le guardò per qualche attimo e lei se ne accorse, l'anziana donna le rivolse un sorriso comprensivo.
«Siete venuta per queste?» alzò entrambi le mani mostrando le bende.
«Sono venuta perché vi credo una santa» rispose Vittoria con tono sicuro, «sono certa che Dio abbia comunicato e comunichi ancora con voi, anche se molti se ne sono dimenticati.»
«Non condannateli» la ammonì dolcemente Suor Lucia, «io avevo finito la mia missione, Dio mi ha tolto i segni che mi aveva concesso perché non servivano più. Volete vedere?»
Vittoria annuì leggermente, si sentiva emozionata come mai lo era stata. Le stimmate erano scomparse, lo sapeva, ma lo Spirito Santo no, quello c'era ancora.
Suor Lucia cominciò, lentamente, a srotolare le fasciature, la marchesa la osservò attentamente, con il cuore che ogni secondo raddoppiava i suoi battiti. Quando ebbe finito, l'anziana monaca rivolse il palmo verso di lei e le diede tutto il tempo che le serviva per guardarlo. Inizialmente Vittoria puntò il suo sguardo sul palmo ma non vide niente, poi i suoi occhi scesero un po' più giù, all'attaccatura tra il polso e la mano e lo vide: era una specie di alone chiaro che pareva brillare di luce propria. La marchesa non se ne accorse subito ma, dopo qualche attimo che lo osservava, vide che la pelle in quel punto sembrava nuova, liscia e bianca come quella di un neonato, completamente differente da quella segnata dal tempo del resto del corpo della donna. Comprese di star assistendo ad un miracolo, un altro.
«Non sono andate via!» esclamò, non seppe perché ma mentre pronunciava quella frase i suoi occhi cominciarono a riempirsi di lacrime.
«Si sono risarcite» rispose Suor Lucia con un sorriso mentre recuperava le bende e le rimetteva al loro posto, «ed è rimasta la cicatrice.»
«Perché non la mostrate, Suor Lucia?» le domandò Vittoria con un tono forse troppo concitato, «non sareste rilegata in questa oscura cella del convento se qualcuno lo sapesse, sareste come eravate da giovane: onorata e stimata da tutti!»
«È questo che dovrei desiderare?» le chiese di rimando, «la fama? No, mia cara, Dio ha deciso di togliere i Suoi segni e ciò che è rimasto non deve diventare per me motivo di vanto. Non cerco la gloria terrena, cerco la gloria nei cieli.»
Vittoria arrossì violentemente rendendosi conto di quanto i suoi pensieri fossero legati alla vita fisica, materiale: aveva ancora molta strada da fare, pensò, prima che la sua mente fosse completamente rivolta verso Cristo.
«Comprendo» rispose, «non lo dirò a nessuno.»
Suor Lucia le sorrise. Si guardarono l'un l'altra, in silenzio, senza pronunciare parola. Vittoria assorbì quella cieca fede che leggeva nei suoi occhi e cominciò a piangere. Non si era sentita mai così felice.
***
Vittoria comprese che per lei nessun soggiorno sarebbe stato più lieto di quello lì a Ferrara. La compagnia di Renata le faceva un grande piacere, andava spesso a trovarla senza neanche cambiarsi di abiti e indossare vestiti più consoni ad una visita al castello, le raccontava di Suor Lucia, dei loro sempre più frequenti incontri, nel tentativo di mostrarle quale fosse la vera fede che doveva perseguire. Dall'altra parte le idee della principessa francese facevano breccia anche nella sua anima, certe volte si sentiva d'accordo con quello che lei le diceva ma, quando poi andava a raccontare dei suoi colloqui a Suor Lucia, questa la rimproverava e cercava di ricondurla sulla retta via.
Quasi inaspettatamente, con pochissimi giorni di anticipo, arrivò a Ferrara anche fra Bernardino Ochino. Quando Vittoria ne parlò, con un'espressione entusiasta sul volto, a Suor Lucia lei si incupì.
«Ho detto qualcosa di sbagliato?» le chiese Vittoria non comprendendo quella sua così strana reazione.
«Pregate Dio perché vi metta in condizione di riconoscere chi è vero e chi è falso, signora marchesa» le rispose e quelle parole le misero non poca apprensione.
Fra Bernardino era venuto per fondare un monastero di cappuccini, era un desiderio che ormai custodiva in cuore da tempo e che finalmente aveva trovato il modo di realizzare. Chiese l'aiuto di Vittoria ma lei fu costretta a negarglielo: era già troppo che si trovava a Ferrara, doveva tornare a casa. Il medico che, su richiesta del duca Ercole II d'Este, continuava a visitarla periodicamente le aveva detto che era meglio tornare in un luogo più salubre: l'aria di Ferrara, purtroppo, era nociva per la sua salute, quel clima paludoso e stagnante non faceva altro che far male al suo organismo. Vittoria comprese che doveva seguire quell'implicito consiglio di ripartire per quanto anche l'aria di Roma non fosse proprio il massimo per la sua condizione. Parlò con Ercole II d'Este che, rattristato, non poté che augurarle buon viaggio.
«Prima che ve ne andiate, però, signora marchesa» le disse con il tono di chi non voleva essere contraddetto, «daremo una festa in vostro onore.»
Vittoria fu costretta ad accettare e, quando dopo cena il duca stesso cominciò a recitare i sonetti di lei, arrivò a commuoversi. Lasciò la città con le lacrime agli occhi e un senso di malinconia: non sapeva che cosa Roma le avrebbe riservato.
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