39. Fa' del mie corpo tutto un occhio solo
Il racconto del sacco non l'aveva fatta rimanere con le mani in mano, i sensi di colpa – per quanto effettivamente Vittoria non ne avesse – minacciavano di non darle pace ed era stata costretta dalla compassione per tutti i cittadini romani che erano rimasti senza casa, senza famiglia e senza un posto dove stare ad agire. Aveva mandato una lettera al Papa, che si era rifugiato ad Orvieto, in cui si scusava per il comportamento dei suoi parenti e della sua famiglia. Clemente VII le aveva risposto in modo piuttosto gentile: le ricordava che lei era completamente estranea a ciò che Ascanio, Pompeo e Vespasiano Colonna avevano fatto, e che poteva stare con l'anima in pace perché tutti quei morti e quel dolore non ricadevano sulla sua coscienza. In ogni caso Vittoria fece quel poco che ormai rimaneva da fare: mandare aiuti a Roma, soldi e denaro e un luogo dove poter stare per gli sfollati. Palazzo Colonna, come era già successo durante il sacco, fu aperto per tutti coloro che avevano bisogno di un alloggio, Vittoria provvedette a far sì che a nessuno mancasse il cibo, gli abiti, le cure mediche e tutti i beni di prima necessità.
«Siete stata molto generosa, avete fatto molto più di quello che vi sarebbe spettato per dovere» Paolo Giovio era andato a ringraziarla, Vittoria aveva proprio bisogno di qualcuno che la sostenesse e aveva trovato nel suo nuovo ospite una persona a cui poteva chiedere consigli. Il giorno dopo dell'incontro con Costanza d'Avalos, Vittoria aveva chiamato Giovio in privato e gli aveva chiesto di narrarle, di nuovo, tutto, in modo ancora più dettagliato se fosse stato possibile, per comprendere ancora meglio la gravità della situazione e i bisogni della popolazione romana. Lui era stato disponibile, ad ogni domanda che lei gli faceva aveva risposto come meglio poteva, non evitando di raccontare anche quelle cose che di più l'avevano colpito e che, avendole vissute, gli provocavano non poca amarezza.
«Devo ringraziare voi» gli sorrise, «vi siete aperto con me e questa era la cosa più difficile che avrei mai potuto chiedervi. Ve ne sono immensamente grata.»
Paolo Giovio abbozzò un sorriso.
«Farei qualsiasi cosa per voi, signora marchesa» le rispose, «chiedete qualunque cosa e vi sarà data.»
Vittoria ci pensò un attimo: un desiderio, in fondo al cuore, lo possedeva.
«Posso approfittarne?» scherzò, lo scrittore rimase un attimo spiazzato ma poi annuì, «avrei veramente una cosa da chiedervi...»
«Sentitevi libera di dirmi tutto» la rassicurò, «quello che dico non lo dico per cortesia, ma perché è veramente ciò che sono disposto a fare per voi.»
Vittoria esitò, le pareva una richiesta forse un po' troppo complicata ma perché non tentare? Era da tanto che aveva in mente questa cosa e Paolo Giovio era l'unico uomo che conosceva che avrebbe potuto realizzarla.
«Avete detto che scrivete anche biografie, giusto?»
Giovio annuì, dalla sua espressione era chiaro che aveva già capito dove Vittoria volesse arrivare: non era inusuale che le nobildonne, soprattutto se vedove come lei, volessero ricordare la memoria di qualcuno commissionando una biografia.
«Desidererei che scriveste la biografia del marchese, mio marito» dichiarò con un leggero sospiro, «credo sappiate che cosa si dice di lui in giro e io so che non è niente meno che la verità ma» si fermò un attimo, «ma vorrei che il nome degli Avalos tornasse a splendere nuovamente.»
Lo scrittore annuì con un sorriso.
«Come desiderate, signora marchesa» rispose, «sarò felicissimo di raccontare la vita dell'illustrissimo signor marchese di Pescara, uomo dall'animo purissimo, dal cuore impavido, dal grande talento, dalla bellezza divina e dotato della più grande fortuna.»
Vittoria sorrise, aveva capito: perché il nome degli Avalos tornasse a splendere c'era bisogno di mostrare tutto ciò che Ferdinando aveva avuto di positivo, nascondendo e, se necessario, cambiando tutti i peccati di cui si era macchiato. Avrebbe voluto leggere di un Ferdinando amorevole, gentile, che amava infinitamente sua moglie, leale, buono, misericordioso: tutto il contrario di ciò che, in realtà, aveva mostrato di essere. E qui anche la poesie di Vittoria giocavano un ruolo fondamentale: aveva capito che doveva sfruttare, per quanto fosse una cosa brutta, il suo cuore infranto: mostrarsi perennemente distrutta per la morte dell'amato marito avrebbe riportato Ferdinando alla sua concezione ideale di marito leale e amorevole.
«Fortunato non direi» ironizzò lei, quelle parole in realtà le avevano fatto male.
«Questo è il vostro punto di vista e permettetemi di oppormi» sorrise Giovio, «dubito che esista un uomo più fortunato di colui che ha sposato la donna più bella, affascinante e intelligente di tutta Italia.»
Le guance di Vittoria si colorarono inevitabilmente di rosso, abbassò lo sguardo e si sforzò di sorridere.
«Mi lusingate, signor Giovio» rispose. La situazione stava prendendo una brutta piega, pensò lei.
***
Era da tanto che non si vestiva così e non le sembrava più neanche di essere lei, si riconosceva a stento. Inizialmente non voleva partecipare, la sua condizione così riservata in cui era vissuta negli ultimi tempi la rendeva restia, ma Costanza aveva insistito così tanto che ne era stata costretta.
«Sei tu il centro dell'attenzione, mia cara» le aveva detto, «i nostri ospiti rimarranno delusi se non ti vedranno.»
Vittoria aveva capito benissimo a chi si riferiva: sapevano entrambe quanto Paolo Giovio avrebbe dato per poter passare del tempo con la marchesa e quale migliore occasione era meglio di un ballo? Lei, però, non era così sicura che gli avrebbe dato questa soddisfazione.
Costanza non aveva voluto sentire scuse: era alla sua corte e partecipare agli eventi come quelli era un suo dovere, altrimenti che cosa si sarebbe detto di lei che già passava la maggior parte del tempo in solitudine? Per quanto amasse la preghiera e la vita ritirata era ancora una marchesa e come tale doveva mostrarsi al pubblico. Per questa grande occasione, quindi, la duchessa le aveva prestato uno degli abiti più belli che conservava dalla sua gioventù.
Vittoria non credeva di aver mai indossato qualcosa di tanto appariscente: la sua esile figura sembrava quasi totalmente immersa in un fiume dalle acque dorate, la sua gonna somigliava ad un mare increspato e agitato, ondeggiante di raggi colorati arrotolati alla cintura decorata con bordi viola.
Non fu sorprendente il fatto che, quando fece il suo ingresso nella sala da ballo, al fianco di Costanza d'Avalos, tutti la guardarono così tanto affascinati da farle tingere involontariamente le guance di un tenue rossore: non era più abituata ad avere tutto gli occhi addosso in quel modo e le recava un po' di fastidio. Stava peccando di vanità? Si sforzò di non pensarci, ormai era lì e non poteva più tornare indietro. Fortunatamente, pensò, l'abito che Costanza le aveva dato aveva lo scollo molto alto e le maniche molto ampie, così non sarebbe sembrata affatto lasciva come molte delle dame lì presenti che mostravano in modo alquanto inopportuno il seno.
Costanza d'Avalos si fermò al centro della sala, tutti la osservarono in silenzio; Vittoria, al suo fianco, si guardava intorno non molto a suo agio. Non le ci volle tanto perché si accorgesse di Paolo Giovio: era lì, poco più in là dell'entrata, in un abito elegante ma non molto più raffinato di quelli che indossava di solito, e la osservava con un'espressione estasiata. Vittoria sentì un brivido attraversarle la schiena, tentò di atteggiarsi nel modo più naturale possibile ma la verità era che si sentiva completamente vulnerabile: non era solo l'intensità dello sguardo di Giovio a infastidirla, ma il fatto che la sua attenzione fosse insistentemente focalizzata sul suo corpo. La terrorizzava il fatto che non la stesse guardando in viso.
«Che le danze abbiano inizio!» annunciò Costanza eccitata, tutti risposero esultati cominciando già a disporsi in coppia, pronti per il primo turno. Appena l'orchestra cominciò a suonare Vittoria si era già ritirata in disparte, ma era sola e non poteva non aspettarsi che qualcuno andasse da lei.
«Signora marchesa, la luce che irradiate quest'oggi riempie tutta la sala» Paolo Giovio non si era lasciato sfuggire l'occasione di vederla sola, aveva fatto un profondo inchino e portata alla bocca, con un po' di ritrosia da parte di Vittoria che cominciava a dubitare delle sue buone intenzioni, la sua mano per baciarla, «siete come la luna, la più splendente tra tutte le stelle.»
Vittoria si costrinse a sorridere.
«Avrei dovuto essere una stella al pari di tutte le altre» rispose, «anzi, altre giovani nobildonne avrebbero dovuto splendere molto più di me.»
«Non sottovalutatevi, mia signora» le rispose, «accettate la vostra bellezza e non abbiate paura a mostrarla.»
Non era per niente convinta che quelle parole fossero giuste, doveva, allora, essere presa dalla vanità di apparire sempre più bella di quanto non fosse? Era consapevole che gran parte del fascino che esercitava sulle persone era dato dalla ricchezza dei suoi abiti, dalla nobiltà del suo ruolo e dalla fama del suo cognome. Se era certa di possedere una cosa certo non era la bellezza, non quella fisica almeno, e, da quando Ferdinando non c'era più, non se ne interessava affatto.
«Dovrei allora abbandonare la mia modestia per lasciare spazio alla superbia e al vanto?» gli domandò, temeva di udire la risposta.
«Dovreste abbandonare la paura di mostrarvi quale siete, il rigore di conservare qualcosa che ancora potete donare» disse.
Vittoria lo guardò con un'espressione contrariata, poi sorrise.
«Sono punti di vista, signor Giovio» rispose mostrando il desiderio di allontanarsi, ma non aveva nessuno con cui poter parlare e questo la metteva in difficoltà: quasi tutti erano impegnati a danzare, «e non credo di cambiare il mio.»
Il letterato lanciò uno sguardo alle persone nella sala, la musica si era appena conclusa e le coppie si stava rimescolando per il secondo turno.
«Non ballate, signora marchesa?» le domandò, intendendolo in modo implicito come un invito.
«Non è un'attività che si addice ad una vedova quale sono io, signore» gli rispose, tornando sul loro precedente discorso e rimarcando con il tono secco della voce che non voleva obiezioni, «preferisco di gran lunga poter ammirare gli altri e ascoltare tranquillamente la musica». Non aveva nominato la conversazione perché desiderava che la sua e quella di Giovio finisse il prima possibile.
In quel momento Costanza si avvicinò a loro, salutò con parole cortesi Paolo Giovio e rivolse il suo sguardo verso Vittoria.
«Vi vedo molto presi dalla vostra conversazione» esclamò con il suo solito, raggiante sorriso, «ma è bene che non vi isolate troppo: ci sono molte persone che desiderano parlare con te, mia cara, non puoi rimanere in un angolo per tutta la sera.»
La marchesa sorrise appena, mostrando la sua aria contrariata: già era stata costretta a venire quando non desiderava altro che poter stare in tranquillità a leggere, scrivere e pregare e adesso doveva pure partecipare attivamente? Le stavano chiedendo più di quanto avesse intenzione di dare.
«Signor Giovio, voi non danzate?» Costanza rivolse, adesso, la sua attenzione al letterato, «sono certa che sarete abilissimo nell'arte della danza come in tutte le altre arti.»
«Mi lusingate, signora duchessa» rispose lui, «ma non c'è altra persona con cui desidererei ballare se non con la signora marchesa.»
«Vi ho già detto che non ballo» rispose immediatamente Vittoria cercando di nascondere nel miglior modo possibile tutta la sua irritazione.
«Come, cara?» esclamò Costanza, «desideri deludere così tutti questi ospiti? Non vedi come guardano insistentemente verso di te? Desiderano tutti vederti ballare.»
Vittoria sperò che la duchessa stesse scherzando, ma sapeva di essere conosciuta anche per la sua abilità nella danza: spesso si diceva che non c'era donna che fosse più elegante, aggraziata e leggiadra con i passi di danza quanto lei.
«Vi prego, signora duchessa, non c'è bisogno...»
Ma Costanza aveva già preso la sua iniziativa, appena la musica era finita aveva esclamato: «Suonate quella melodia ungherese per la marchesa di Pescara!»
Vittoria si sentì subito rincuorata, le canzoni ungheresi erano sempre state le sue preferite, non solo per la musica ma soprattutto perché la coreografia era da solista: non avrebbe danzato con nessuno, e, cosa più importante, non avrebbe danzato con Paolo Giovio.
Raggiunse il centro della sala come tante altre volte aveva fatto, tutti i presenti si fermarono a guardarla, non distogliendo mai lo sguardo dalla sua figura. La musica cominciò a suonare, Vittoria iniziò la sua danza e tutti gli ospiti, pian piano, si sistemarono in un grande cerchio intorno a lei, immobili, ad osservarla in silenzio. In effetti niente era più affascinante di quando con i gesti più piacevoli abbinava tutti i suoi movimenti ai ritmi della danza, sia che fingesse di agitare il suo ventaglio piumato per smuovere l'aria o di riunire le sue maniche lunghe fluenti o quando spazzava il pavimento con le sue ampie gonne che disegnano cerchi delicati. E passo dopo passo in sintonia con i ritmi della suonatrice di flauto, a volte alzata in punta di piedi per un riposo armonico, altre volte saltellando in cerchi obliqui, e altre ancora con movimenti vorticosi su sentieri sinuosi danzava.*
Quando la musica cessò, un caloroso applauso accolse Vittoria che sorrideva mentre cercava di riprendere fiato. Si guardò intorno, vide Costanza e il suo sorriso incoraggiante sul volto e poi la sua attenzione si fermò su Paolo Giovio. Forzò immediatamente il respiro e deviò lo sguardo quando vide che gli occhi dello scrittore erano fissi sul suo petto, seguendo il suo ritmico alzarsi e abbassarsi. Vittoria fu percorsa da un tremito, si voltò dandogli la schiena. La situazione doveva assolutamente cambiare.
* Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus, Paolo Giovio.
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