38. Ma per colmarmi il cor d'eterne doglie
La marchesa di Pescara non era l'unica ad essersi rifugiata ad Ischia, ma fu solo la prima di una lunga serie. Il castello divenne un centro ancora più popolato di quanto già non fosse, sotto la protezione di Costanza d'Avalos si rifugiarono un grandissimo numero di letterati, poeti e artisti che, fuggiti da Roma, avevano trovato Ischia come unico rifugio sicuro. Fu in poco tempo, quindi, che la già ricca corte della duchessa si accrebbe ancora di più, arrivando ad ospitare tutti i più importanti intellettuali del tempo.
Vittoria si trovò a dover ringraziare Clemente VII per averle vietato di prendere i voti: per quanto il suo cuore fosse rivolto verso Dio e il mondo spirituale, doveva ammettere che i salotti letterari alla corte di Costanza erano un piacere di cui non avrebbe mai voluto fare a meno. Riprese a partecipare, come faceva prima della morte di suo marito, ma ciò non la privava dalla preghiera. Passava gran parte del suo tempo alternandosi dalla cappella alla sua stanza per pregare, continuava a vestire abiti semplici che stonavano in contrapposizione delle altre nobildonne, Costanza per prima, e non mostrava alcun segno di vanità. Questo era una delle caratteristiche che la rendeva affascinante agli occhi degli ospiti del castello, non c'era nessuno, tra i poeti e letterati, che non lodasse la sua castità.
***
Fu uno di loro, in particolare, ad attirare l'attenzione di Vittoria. Era arrivato dopo che la situazione a Roma era diventata drastica, dopo che le truppe mercenarie dei lanzichenecchi di Carlo V e quelle dei Colonna avevano saccheggiato, senza alcune pietà, Roma, a maggio dell'anno 1527.
«Signora marchesa, si parla molto di voi e della vostra bellezza ma devo dire che le voci non erano abbastanza veritiere: lo siete di più di quanto si possa esprimere a parole.»
Vittoria lo osservò curiosa: era un uomo dalle maniere cortigiane, lineamenti non armoniosi ma intelligenti e furbi. I suoi occhi scuri si erano subito posati su di lei come se tutte le altre nobildonne non esistessero, la duchessa inclusa.
«È un onore fare la vostra conoscenza, signor Giovio» gli sorrise gentilmente.
Paolo Giovio aveva già fatto conoscenza con Alfonso d'Avalos ma non era mai venuto ad Ischia prima, era conosciuto per la sua grande cultura che spaziava in ogni campo. Sin dalla più tenera adolescenza era stato iniziato allo studio delle lingue antiche, come il greco e il latino, poi aveva studiato all'università di Padova filosofia e medicina, ma, col tempo, interessandosi alla politica e alla religione, era diventato anche scrittore e desiderava pure farsi vescovo. Era una figura di cui Vittoria aveva già sentito parlare e, nonostante non fosse mai stata molto desiderosa di incontrarlo, adesso che era lì non poteva che farle piacere.
***
Quella sera, dato che l'ingigantita compagnia di Costanza d'Avalos doveva festeggiare l'arrivo di un così nobile nuovo membro, dopo una fastosa cena, si riunì, come sempre, a discutere. Paolo Giovo era, ovviamente, il centro dell'attenzione di tutti e lui mostrava di esserne fiero.
«Ringrazio per prima cosa la signora duchessa per la calorosa accoglienza» disse quando gli occhi di tutti si posarono su di lui, in attesa, Vittoria notò, però, che l'attenzione di lui era stranamente rivolta verso di lei, «il signor marchese del Vasto e la signora marchesa di Pescara.»
«Siete troppo gentile, signor Giovio» replicò Costanza con un cordiale sorriso sul volto, «mi fa molto piacere avervi come ospite: so che, insieme ai vostri studi di filosofia, medicina e religione, siete anche scrittore.»
Costanza si era curata di avviare la conversazione nella direzione che a lei interessava, la letteratura e, soprattutto l'attualità.
«Cerco di farlo, mia signora» rispose lui con tono falsamente modesto, «dubito fortemente, però, di essere al livello in cui Sua Eccellenza mi pone.»
L'espressione serena e interessata della duchessa lo invitò a proseguire ma lui, prima, si accertò che anche Vittoria nutrisse la sua stessa curiosità. La marchesa era riservata, aveva detto appena poche parole quella sera ma lo guardava con un accennato sorriso sulle labbra che lo spinse a continuare.
«Mi occupo soprattutto di attualità» spiegò, «viaggio molto e descrivo ciò che vedo e chi conosco come meglio posso.»
«E che cosa avete scritto di recente?» gli chiese Costanza d'Avalos, «oppure a che cosa state lavorando? So che avete vissuto, in prima persona, esperienze non sempre allegre: riporterete tutto?»
Paolo Giovio esitò un attimo, lanciò un altro sguardo a Vittoria che attendeva pazientemente la sua risposta. Lei capì immediatamente, il sorriso sulle labbra svanì, il suo viso si irrigidì visibilmente ma gli fece ugualmente cenno di proseguire.
«Esatto, signora duchessa» disse lui in risposta con un tono piuttosto sommesso, «come sapete sono scampato solo da pochi giorni dalla distruzione che ha colpito Roma, per adesso non ho scritto niente – ho tutto impresso nella mia mente e difficilmente ne uscirà – ma penso di farlo il prima possibile perché è bene che si sappia nei dettagli che cosa è successo quella notte.»
«Ve la sentireste di narrarci la vostra esperienza?» domandò Costanza d'Avalos forse troppo arditamente, il Giovio sussultò e Vittoria cominciò a tremare. La marchesa non avrebbe sopportato un tale racconto, non ci sarebbe riuscita non solo perché era estremamente sensibile, ma perché era consapevole che la sua famiglia avesse avuto un importante ruolo in tutta quella devastazione. Si sentiva in colpa e, per quanto non avesse potuto fare niente, Vittoria era assalita da un rimorso che non riusciva a gestire.
Paolo Giovio, pur di non fare un dispiacere alla signora duchessa, annuì lentamente e cominciò la sua narrazione.
«Sapete dell'esercito lanzichenecco, immagino» disse ma Costanza d'Avalos scosse appena il capo.
«Non ci sono giunte che poche e frammentate notizie di tutto l'accaduto» lo interruppe rispondendo a quella sua implicita domanda, «ancora non tutti si sono resi bene conto delle dinamiche della triste vicenda.»
Paolo Giovio fece cenno di aver compreso e ricominciò dall'inizio.
«L'imperatore Carlo V ha assoldato circa tredicimila lanzichenecchi, mercenari di fede luterana molto violenti e irati contro la Chiesa. Questi, insieme alle loro donne, hanno cominciato a marciare verso Roma agli inizi di novembre, è stato un percorso lungo e difficile il loro: hanno dovuto fare i conti con le truppe alleate del Papa, quelle veneziane comandate da Roé Volciano e quelle della Lega milanese, ma queste hanno avuto la peggio e l'enorme schiera di mercenari è arrivata verso Mantova. Nella battaglia nei pressi di Governolo le truppe di Giovanni dalle Bande Nere sono state sconfitte e, di questo presuppongo ne abbiate ricevuta notizia, anche Giovanni stesso è morto a causa delle ferite riportate nel combattimento.»
Costanza annuì, abbassando il capo in segno di lutto. Vittoria, invece, sentiva l'ansia crescere: era come se, man mano che Paolo Giovio continuava il suo racconto, sentisse avvicinarsi l'enorme esercito di lanzichenecchi e ne avesse paura, consapevole di ciò che avrebbero fatto una volta arrivati.
«I governanti di Mantova e Ferrara li hanno lasciati passare, non so se per risparmiare un attacco alle loro città oppure perché corrispondevano agli ideali dei lanzichenecchi» proseguì il Giovio, «l'esercito, rinforzato di altri duecento uomini al comando di Filiberto di Chalons, principe d'Orange, e di cinquecento archibugieri di Niccolò Gonzaga, è giunto alle porte di Roma il sei maggio e si è riunito con gli eserciti di Fabrizio Maravaldo, di Luigi Gonzaga e dei Colonna.»
Nel sentir pronunciare il nome della sua famiglia, Vittoria sussultò, cominciò a tremare e i suoi occhi si riempirono di lacrime: era lì che entravano in gioco i suoi parenti, per aiutare un gruppo di barbari assetati di sangue e di odio nei confronti della Chiesa. Stava male al solo pensarci.
«La meta dell'esercito lanzichenecco era il Vaticano» riprese Paolo Giovio deglutendo, si vedeva dalla sua espressione che durava molta fatica a raccontare le cose terribili che lui stesso aveva vissuto in prima persona, «il peggio, però, è iniziato quando Carlo di Borbone, viceré di Napoli, che si era aggiunto all'assalto con i suoi spagnoli, circa quattromila uomini, e che aveva preso il comando delle truppe di lanzichenecchi che avevano perso, morto di peste, il loro generale Frundsberg, è stato colpito da una palla di cannone» Giovio si fermò un attimo, «sapete chi è stato a tirarla?»
Costanza e Vittoria scossero il capo, le loro espressioni erano sempre più angosciate.
«È strano come uno dei più grandi condottieri dell'impero sia stato abbattuto da un semplice artista» il letterato fece un leggera risatina, «un orefice fiorentino, un ragazzo giovane ma coraggioso: il suo nome è Benvenuto Cellini. Stava difendendo il Papa e ha colpito, inconsapevolmente presuppongo, Carlo di Borbone che, ferito, è morto nella chiesa di Sant'Onofrio dove era stato portato per essere curato. Sapete, in una situazione come quella, anche le persone normali che non hanno neanche mai toccato un'arma, hanno dovuto combattere per salvare loro stessi e la loro città.»
«Che cosa triste, signor Giovio!» esclamò Costanza stringendo più forte tra le dita la croce che teneva al collo. Paolo Giovio annuì.
«Con la morte del Borbone» ricominciò a raccontare, «i lanzichenecchi hanno perso il lume, accecati dalla rabbia di aver perso il loro comandante e dall'odio nei confronti dei cattolici non hanno risparmiato niente e nessuno. Hanno assaltato soprattutto le chiese e i conventi, hanno distrutto ogni luogo sacro profanandolo nel peggiore dei modi, hanno torturato e assassinato tutti i sacerdoti con un certo gusto sadico e violentato fino a farle morire tutte le monache dei conventi. Le strade di Roma erano un bagno di sangue, i cadaveri martoriati di poveri cittadini che non avevano trovato un luogo sicuro in cui rifugiarsi giacevano in mezzo alla strada e tutta la città era uno spettacolo orrendo.»
Vittoria cominciò a tremare quando la sua mente prese ad immaginarsi quello scenario, avrebbe potuto viverlo anche lei se fosse rimasta nel convento di San Silvestro in Capite, sarebbe stata anche lei una di quelle monache violentate se Ascanio non l'avesse fatta andare via prima. Non osava immaginare i corridoi del convento pieni di grida, il chiostro come luogo si scempio, i corpi delle sorelle che tanto le avevano fatto compagnia abbandonati per terra...
Non riuscì a trattenere un singhiozzo, tutto questo era successo anche grazie alla sua famiglia. Cominciò a piangere e Costanza la osservò con un'espressione altrettanto triste.
«Vittoria cara» le disse ma non c'era modo per consolarla, la duchessa non poteva comprendere quale peso Vittoria si sentisse sul cuore in quel momento, era come se fosse responsabile, in parte, di tutti quei morti, di tutta quella sofferenza e di tutto quel male.
«Se può esservi di consolazione, signora» le disse a voce sussurrata Paolo Giovio, «i Colonna hanno fatto anche del bene. Si sono pentiti quando hanno visto fino a che punto i lanzichenecchi si fossero spinti, hanno aperto Palazzo Colonna, l'unico a non essere stato toccato dai mercenari dell'imperatore, e hanno cercato di far rifugiare al suo interno più persone possibili. In tutto quel male hanno salvato molte vite.»
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