34. Porgi la man che morte mi contese
Le arcate gotiche della chiesa di San Domenico Maggiore rendevano l'atmosfera ancora più tetra. Tutti erano riuniti lì, in piedi, appoggiati alle panche nella navata centrale della chiesa, a poca distanza dall'altare e da quella bara ricoperta da un velo bianco. Non mancava nessuno, erano venuti tutti a rendere omaggio al più grande generale che l'impero possedesse. Carlo di Lannoy era in prima fila e osservava la bara con un'espressione di tristezza, forse perché vedere il suo rivale chiuso in quella cassa di legno gli ricordava che, prima o poi, la morte sarebbe arrivata anche per lui. Dall'altra parte Costanza d'Avalos sembrava invecchiata di dieci anni tutto d'un colpo: i suoi capelli scuri, dentro la retina altrettanto scura, erano striati di bianco e la pelle del suo viso era diventata sempre più cadente. Poco più in là sua nipote, la duchessa di Amalfi, seduta vicino ad Alfonso Piccolomini, si guardava intorno con gli occhi lucidi, tenendo per mani i suoi due bambini che erano gli unici non provati da tutto quel dolore.
Vittoria era dietro a tutti, non vedeva bene e forse era meglio così: la sua visuale era filtrata dal velo scuro che si era buttata sopra la testa e da quello di lacrime che le annebbiava gli occhi. Accanto a lei c'era Alfonso che le teneva, in silenzio, la mano per farle coraggio, ma Vittoria sembrava non averne poi tanto bisogno. Era distrutta dal dolore ma piangeva in silenzio, stava in piedi come tutti gli altri nonostante sentisse di non avere la forza per camminare: non voleva fare scena, si tratteneva dal piangere in modo patetico in pubblico. Sentiva un vuoto dentro di sé che la stava distruggendo sempre di più, un dolore che l'avrebbe fatta urlare ma doveva resistere e resisteva.
Non udiva niente, la voce del sacerdote che pronunciava le formule della Messa era completamente ovattata, arrivava alle sue orecchie come un sussurro di sottofondo. Al momento dell'eucarestia Alfonso le porse il braccio per sostenerla, credeva che non ce l'avrebbe fatta ad attraversare la chiesa, ma Vittoria scosse leggermente il capo e andò, a passo lento, fino alla balaustra del presbiterio, non così lontana dalla bara che conteneva il corpo di suo marito. Si inginocchiò e alzò lo sguardo verso il sacerdote, si scostò il velo dal volto e fissò i suoi occhi sull'ostia che il prete aveva alzato verso il cielo. Il suo "Amen" fu un sussurro ma il sacerdote lo udì, le avvicinò il Corpo di Cristo alle labbra e lei lo prese, ne mangiò e sentì tornarle la forza.
Si alzò sostenendosi alla balaustra di pietra e tornò al suo posto, guardandosi intorno comprese di vederci più chiaro. Si sedette, strinse le sue mani in preghiera e invocò, nella sua mente, Cristo perché la sostenesse. Più che pregava, in quella chiesa silenziosa, in mezzo a quella cerimonia funerea, più sentiva avvolta da un calore certamente sovrannaturale, abbracciata da qualcuno che non conosceva, che non vedeva ma che sentiva più che chiaramente. Provò una sensazione di così tanta gioia che, quando ebbe finito e fu tornata a sedere, si guardò intorno spaesata, come se non riconoscesse il luogo in cui si trovava.
«La mia anima non appartiene a questo mondo» mormorò a voce bassissima, «deve tornare da dove è venuta.»
***
La cripta era fredda, ancora più buia e tetra della chiesa superiore, era lì che il corpo del marchese Ferdinando d'Avalos era stato trasportato ed era lì che sarebbe rimasto fino alla fine dei tempi, ma solo poche persone potevano entrarvi. Vittoria era scesa, Alfonso le aveva consigliato di non farlo ma lei aveva insistito e nessuno aveva più cercato di fermarla.
Aveva sceso le scale con le gambe tremanti, sorreggendosi debolmente al muro ed era arrivata in quello spazio angusto, tappezzato su tutte le pareti di sarcofagi: la maggior parte della famiglia era ancora in vita quindi gran parte erano semplici casse di pietra, vuote, in attesa di avere qualcuno da ospitare al loro interno. Essendo la tomba di famiglia Vittoria pensò che una di quelle casse stava aspettando anche lei.
Ferdinando fu portato in un angolo, la sua bara in legno fu caricata dentro un semplice sarcofago su cui, all'esterno, erano scolpite in caratteri romani le parole:
FRANCISVS FERDINAVS
DAVALOS D'AQUINO MARCO
PISCARIA CESARAE MAESTAIS
VICARIVS
OBYT AÑO DNI
1525
Vittoria deglutì, fece un lungo sospiro e attese. Due addetti alle onoranze funebri si sistemarono su un lato della bara, in un attimo scalzarono via il coperchio ancora nuovo, non indurito dal tempo e lo aprirono lentamente appoggiandolo su un lato del sarcofago in pietra.
«Venite, signora» fecero cenno a Vittoria di avvicinarsi e lei fece qualche passo verso la bara, con il cuore pesante.
Osservò con le lacrime che le scendevano sulle guance il volto di suo marito, bianco e pallido, addormentato in un sonno eterno. Ferdinando giaceva interamente vestito nella bara, indossava i suoi abiti migliori, quelli da generale, e gli stivali in pelle ai piedi: era elegantissimo anche nel giorno della sua sepoltura. Gli addetti inserirono nella bara le sue armi più preziose, una spada con l'elsa in argento e alcuni pugnali con decorazioni d'oro.
«A voi, mia signora» uno dei due addetti le porse un coltello, la sua lama scintillava e Vittoria fu percorsa da un brivido.
Lo ringraziò con un cenno del capo, si tolse il velo scuro dal capo e sciolse la treccia che si era appuntata sulla nuca. Afferrò il coltello, lo guardò per qualche attimo, il dolore l'accecava così tanto che per un attimo fu tentata di sentirlo premere contro la sua pelle, ma poi lo avvicinò alla treccia e, con un colpo secco, i suoi lunghi capelli, l'oggetto più importante della vanità femminile, le rimasero tra le mani.
Fu lei stessa ad adagiare la sua treccia ad un lato della bara, la ripose lì dentro cercando di non sfiorare il corpo di suo marito: non voleva toccare la morte. Si avvicinò un poco al suo viso, era ancora bello come quando era in vita e sembrava dormire in una placida tranquillità.
«La mia anima non appartiene a questo mondo» ripeté, «arrivo anche io, mio bel sole*.»
***
«Signora marchesa» una serva bussò alla porta della sua stanza, «signora marchesa, ce l'ho.»
Vittoria le ordinò di entrare, quando quella aprì la porta vide la sua padrona seduta sul letto, con lo sguardo vuoto e perso nel nulla, gli occhi scavati da profonde occhiaie e la pelle bianca quasi cadaverica. La osservò un attimo, poi le si avvicinò porgendole una piccola boccetta in vetro che conteneva un liquido trasparente che, a primo impatto, poteva sembrare semplice acqua.
«Vai pure» le rispose Vittoria prendendo la boccetta e rigirandosela tra le mani, la serva la guardò quasi piangendo ma non poteva disubbidire.
«Siete sicura, mia signora?» le domandò, un un'ultima volta.
Vittoria annuì, era sicurissima, non avrebbe esitato un attimo.
«Vai» ripeté, «dì pure a tutti che sono stata io stessa a farmi questo, che hai trovato il veleno tra le mie cose ma, non capendo che cosa fosse, l'hai lasciato stare: non voglio che la colpa ricada su qualche innocente.»
«Lasciate una lettera» le consigliò la donna.
«L'ho già scritta» Vittoria indicò con lo sguardo una sottile busta appoggiata sul suo scrittoio, «è per la signora duchessa, ma possono leggerla tutti. Credo che non ci sia molto da spiegare.»
La serva annuì e si allontanò un po', rimanendo sulla soglia della sua stanza.
«Siete proprio sicura?» domandò di nuovo, ma stavolta Vittoria non rispose, le fece cenno di uscire e quella si chiuse la porta alle spalle.
Vittoria posò il suo sguardo sulla bottiglietta che teneva tra le mani, sembrava veramente innocua acqua ma invece non sapeva neanche lei che cosa ci fosse dentro: aveva chiesto uno dei veleni più letali, che non la facesse soffrire e che la portasse il più velocemente all'altro mondo. Voleva raggiungere Ferdinando il prima possibile, non riusciva più a stare lontana da lui.
Si alzò in piedi e la aprì, avvicinò il naso e sentì un odore che la fece ritrarre. Il cuore le palpitava nel petto velocemente, non sapendo che presto avrebbe finito una volta per tutta la sua corsa, aveva ansia e paura, a dire la verità, ma non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro.
Avvicinò la cima della boccettina alle labbra, sentì il contatto con il vetro ma non con il liquido: doveva alzare solo un po' di più il braccio e quello sarebbe sceso fino ad inumidirle la bocca. A quel punto, se lo avesse deglutito, sarebbe stata fatta.
Respirava nervosamente, la mano le tremava sempre di più rischiando di far cadere il veleno per terra. Cominciò a contare, entro cinque secondi lo bevo, si disse. Allo scoccare del cinque, però, sentì un rumore da fuori, un suono di campane così gioioso che parve pervadere tutta la stanza. Probabilmente stavano dicendo la Messa in duomo o nella cappella del convento delle Clarisse, entrambi appena sotto il castello degli Avalos. Si fermò immediatamente, era come se quel suono l'avesse improvvisamente riportata alla realtà. Che cosa stava per fare?
Lasciò andare la boccetta, con un colpo secco si distrusse nell'impatto con il pavimento, il liquido letale fu assorbito dal ricco tappeto orientale. Con il respiro ansimante Vittoria rimase ferma a guardare i pezzi di vetro sparsi per terra, poi scoppiò a piangere stringendo il crocifisso che sempre portava al collo.
Dio aveva salvato, una volta ancora, uno dei suoi figli.
NOTA:
Durante la riesumazione delle casse nella cripta della chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli nel 2000, per identificare quale di quelle conservasse il corpo di Vittoria Colonna, è stata aperta anche la bara di Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara. La mummia (ho omesso questo particolare ma tutti i corpi della famiglia di Vittoria, incluso il suo, sono stati mummificati per eviscerazione) è stata ritrovata interamente vestita, con gli stivali ai piedi e con, a lato, una treccia di capelli rossi. Ovviamente è risultato naturale pensare che quella treccia appartenesse a Vittoria Colonna perché nessun'altra donna, poteva tagliarsi i capelli per lutto in un rituale così pubblico se non sua moglie. Il colore rosso, ovviamente, non è quello originale, i capelli conservati perdono il loro pigmento schiarendosi e prendendo una colorazione ramata (i processi chimici precisi non li so, lol).
Per quanto riguarda invece la scritta che ho riportato si trova, come ho scritto, sulla sua bara. Accanto alla scritta "VICARIVS" ce ne sono altre due che sono danneggiate e quindi non sono riuscita a leggerle. Una comincia con "GENER" quindi presuppongo fosse riferita al suo ruolo di generale sotto l'imperatore Carlo V, mentre la seconda è completamente oscurata.
*mentre "mio sole" è la comune espressione che usa Vittoria nei suoi sonetti e nelle sue lettere per indicare suo marito.
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