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31. La spada, la virtù, l'invitto core (parte 2)

23-24 febbraio 1525

Ferdinando era pronto, Carlo di Lannoy e Carlo di Borbone un po' meno. Il marchese di Pescara era certo del suo piano, non temeva niente, era sicuro che sarebbe andato tutto liscio. Avevano schierato appena un quarto dell'esercito, pochi uomini perché la loro doveva sembrare una semplice scorreria e i francesi non dovevano capire che quella di quella notte sarebbe stata la battaglia decisiva.

Il marchese di Pescara si guardò intorno, tutti erano pronti, tutti stavano seguendo le sue regole: la fanteria leggera era schierata davanti al muro, coprendo l'accampamento dell'esercito imperiale, le armi e tutti gli oggetti di valore erano stati caricati su carri e presto sarebbero partiti alla volta delle Due Porte. Ferdinando sorrise appena riconobbe venire verso di lui Alfonso.

«Come ti senti?» gli chiese dandogli un colpo sulla spalla e stropicciando la camicia che portava sopra all'armatura: era buio e, durante la sua incursione, un indumenti di tessuto bianco sarebbe stato molto più facile da riconoscere di una corazza di scuro metallo.

Alfonso abbozzò un sorriso.

«In ansia» rispose, poi guardò la luna e la vide brillare alta nel cielo, «è arrivata l'ora di partire.»

Ferdinando annuì con un piccolo cenno del capo, sul suo volto tranquillo non c'era ombra di tensione: era certo che il cugino non avrebbe fallito nella sua missione. Vedendo che Alfonso non sembrava calmarsi lo strinse quasi improvvisamente in un tenero abbraccio dandogli la forza necessaria per partire.

«Tornerai vincitore» gli disse e con un sorriso lo osservò allontanarsi verso i suoi uomini, tutti vestiti di bianco.

Quando vide sparire quasi completamente i bagliori delle loro camicie si rivolse finalmente al Lannoy che non sembrava avere un'espressione entusiasta nel volto. Il viceré aveva alzato la testa e stava guardando ansiosamente il cielo.

«Abbiamo perso tempo» gli disse con un tono di voce duro, che non ammetteva sconti, «diamo la carica.»

Il marchese di Pescara annuì e gridò ai suoi uomini di procedere, le poche truppe di fanteria leggera che aveva schierato cominciarono a tirare colpi di archibugio facendo un rumore quasi assordate che, come Ferdinando aveva immaginato, avrebbe coperto ogni tipo di spostamento da parte dell'altra grande metà dell'esercito imperiale. Fu ordinato agli altri di mettersi in marcia, piano e cercando di non farsi vedere in alcun modo dai francesi che, a causa di quello che appariva un attacco da parte della fanteria, stavano accorrendo.

«Andate» il Borbone fece cenno a Ferdinando e al Lannoy di fare testa all'esercito in movimento, «io resterò qui a vedere come procede la situazione.»

«Se i francesi dovessero respingervi con più forze di quanto vi aspettate, non esitate a ritirarvi» gli rispose Ferdinando, «non mettete a rischio la vostra vita, è una delle più importanti che abbiamo.»

Il Borbone, quasi intenerito da quel pensiero, gli fece cenno di aver capito e il marchese di Pescara e il viceré di Napoli si avviarono verso le Due Porte.

Il castello di Mirabello non era molto grande ma la sua struttura imponente, circondata dall'oscurità della notte, incuteva non poco timore negli uomini di Alfonso d'Avalos, soprattutto sapendo che al suo interno era pieno di nemici. Oltre all'alta cinta muraria che circondava un grande casolare trecentesco si innalzavano alte e spesse torri, illuminate dalle torce delle sentinelle che facevano la guardia: non sarebbe stato facile introdursi al suo interno.

Non era questo il momento per avere paura, se avesse sbagliato anche solo una mossa Alfonso sarebbe stato finito: non sapeva quante persone c'erano all'interno del castello ma temeva che, in ogni caso, i suoi uomini sarebbero potuti essere sterminati dagli arcieri sulle mura. Fece cenno ai suoi tremila archibugieri di fermarsi e li osservò per qualche secondo: erano troppi, sicuramente sarebbero stati avvistati se si fossero mossi tutti insieme.

«Voi» disse rivolgendosi ad un paio di archibugieri che si misero immediatamente sull'attenti, «cercate di fare il giro del castello, individuate le sentinelle e poi tornate, tutto il più velocemente possibile.»

I due fecero cenno di aver compreso e subito si misero all'opera, Alfonso li seguì qualche attimo con lo sguardo per controllare se stessero davvero adempiendo al suo ordine: temeva che per l'inesperienza e per la sua giovane età i suoi uomini potessero quasi prendersi gioco di lui, non obbedire ai suoi comandi e fare di testa loro.

«Se non torneranno saranno dei disertori» mormorò a voce abbastanza alta perché la prima fila dei suoi uomini potesse udirlo, avrebbe voluto gridarlo ai due che aveva inviato in avanscoperta ma sarebbe stato il modo migliore per farsi scoprire dai francesi. Attese qualche minuto, non di più, e poi, con cuore più leggero, vide avvicinarsi due sagome scure, dalla camicia bianca.

«Sono due per torre» gli disse uno dei due ragazzi continuando ad osservare le mura del castello, «e le torri sono quattro. Poi ci sono quelli sulle mura, uno ogni due metri circa.»

Alfonso lanciò un'occhiata alle mura, calcolò in modo approssimato che fossero lunghe circa otto o nove metri. Fece un rapido conto. Si rivolse ai suoi uomini e indicò i primi ventiquattro della fila.

«Dividetevi in due gruppi» spiegò, «uno va a destra, l'altro a sinistra: ognuno di voi punta ad una guardia, quando vi ordino sparate.»

Gli archibugieri fecero cenno di aver capito, si divisero e cominciarono ad avanzare nella notte, con le loro armi in spalla, cariche e pronte a sparare. Furono dei colpi secchi, cinque delle guardie caddero immediatamente, il resto fu ucciso al secondo o al terzo colpo. Il castello, inevitabilmente, sentendo i colpi di arma da fuoco, si risvegliò, gli uomini cominciarono ad armarsi ma era troppo tardi: le truppe di Alfonso erano riuscite a scavalcare il muro ormai privo di difese. I primi che arrivavano all'interno del castello uccidevano coloro che tentavano di respingerli fino a quando Mirabello non si fu riempito di tremila uomini, un mare di sangue e due centinaia di cadaveri. Sterminarono tutti, o quasi.

«Signore» un uomo si avvicinò ad Alfonso che, intanto, si guardava attorno, in attesa di un segnale da parte dell'altra parte dell'esercito, «ho visto un uomo nel bosco, forse erano due, non so: correvano nella direzione dell'accampamento francese.»

Alfonso ebbe un calo di pressione, per quanto non amasse fare stermini era necessario perché nessuno potesse comunicare al re che cosa era successo a Mirabello, che il castello era andato in mano agli spagnoli. Tutto doveva rimanere segreto, nessuno avrebbe dovuto sapere nulla, ma adesso, se qualcuno era davvero riuscito a fuggire, i francesi si sarebbero risvegliati.

«Cinquanta uomini di vedetta» urlò alle sue truppe, «gli altri si impegnino a accatastare i cadaveri in un punto, dobbiamo ripulire questo luogo.»

Diede un calcio, preso dalla rabbia, ad un elmo che giaceva per terra, con la piuma zuppa di sangue. Avrebbe aspettato il segnale del Lannoy, se non fosse arrivato avrebbe saputo che qualcosa era andato storto.

***

Il sole stava nascendo, cominciava a filtrare una fioca luce tra le fronte degli alberi e il muro non era ancora stato abbattuto. Ferdinando aspettava trepidante, guardava con aria preoccupata i suoi uomini che cercavano, non invano ma quasi, di fare breccia con la testa d'ariete nella muraglia del parco. Si stava facendo mattina ed erano in ritardo, grande ritardo perché, secondo i suoi piani, adesso anche quest'altra metà dell'esercito doveva essere arrivata al castello di Mirabello almeno da un'ora. Quando un raggio di sole illuminò con troppa intensità la scena, Ferdinando vide finalmente crollare quel dannato muro. Emise un grido di mista gioia e fretta e poi si avviò dicendo a tutti di fare veloce ad entrare nel parco perché dovevano raggiungere il castello il prima possibile. Ma non appena ebbero passato le mura del parco, non ebbero il tempo di fare che pochi metri che si trovarono davanti l'intero esercito di Francesco I schierato contro di loro.

Ferdinando rimase fermo, immobile, ad osservare ciò che gli si parava davanti con la paura negli occhi: in prima fila quattordici cannoni, pronti a dare fuoco contro i nemici, al loro fianco i seicento uomini guidati men che meno che dal re in persona, al centro tremila svizzeri guidati da Robert de La Mark, signore di Florange, e sulla destra la Banda Nera e i quattrocento gendarmi comandati da Carlo IV, duca d'Alençon. Il marchese di Pescara sapeva che quello non era tutto l'esercito, che una parte era impegnata ancora a combattere contro la fanteria leggera che avevano usato come diversivo e un'altra, molto più ingente, si era accampata a sud di Pavia, oltre il Ticino: erano troppo lontani per accorrere immediatamente ma Ferdinando era certo che prima o poi sarebbero arrivati. Il loro esercito invece era composto da una cavalleria di circa tremila uomini, cinquemila fanti e due quadrati di lanzichenecchi con altri cinquemila uomini; poi mancavano ancora i tremila di Alfonso d'Avalos, sempre se non erano stati dimezzati durante l'incursione.

I francesi non diedero sconti, Francesco I era così desideroso di gloria che non poteva non buttarsi nella mischia: voleva guadagnarsi lui stesso la vittoria. Ordinò la carica, i cannoni cominciarono a sparare trucidando la fanteria spagnola, Ferdinando, che era in prima fila si gettò a terra nella speranza di non essere ucciso da un colpo di cannone. Non capì più niente, la mischia si fece terribile e confusionaria: voleva vedere in tutti i modi che cosa stava succedendo ma alzarsi in piedi era troppo rischioso. Cercò di rotolare, costringendosi a stare spiaccicato al terreno, in un tentativo di uscita dal mirino dell'artiglieria francese, pian piano, non seppe nemmeno lui come, ma ci riuscì. Si rimise in piedi, sguainò la spada e si gettò nella mischia, sul volto, coperto di sangue e terra, si aprì un sorriso quando vide arrivare, in grande numero, gli archibugieri di Alfonso. Il marchese del Vasto aveva avuto il presentimento che qualcosa non fosse andato per il verso giusto, aveva compreso che, ormai, la presa di Mirabello era inutile ed era tornato indietro con tutta la sua truppa. Non si era sbagliato, pensò, quando aveva detto che Alfonso se la sarebbe cavata molto bene.

In tutta quella carneficina Ferdinando riuscì solo a vedere che Francesco I si era separato, insieme ai suoi seicento cavalieri dal resto dell'esercito. Mossa sbagliata, pensò, il re era così preso dalla fama di gloria che non si era reso conto di aver perso completamente ogni collegamento, ogni vicinanza con tutti gli altri suoi soldati. Si buttò anche lui all'inseguimento del re, ordinò alla sua truppa di andare contro a quell'esiguo gruppo di cavalieri che man mano si faceva sempre più piccolo: ad ogni colpo qualche cavallo cadeva e qualche cavaliere insieme ad esso.

Francesco I non faceva cenno di desistere, era circondato, tra poco si sarebbe trovato nel mezzo all'esercito nemico. Ferdinando voleva avvicinarglisi sempre di più, fremeva di prenderlo prigioniero, voleva essere lui a farlo, non osava immaginare quali onore avrebbe ricevuto dall'imperatore. L'avidità di potere lo costrinse a continuare ad ordinare la carica, gli uomini del re cadevano secondo dopo secondo, non c'era più speranza per loro. Il marchese di Pescara vide Francesco I cercare di cambiare strada, in groppa al suo cavallo dal manto schizzato di sangue. Non ne ebbe modo, fu un colpo secco a passare da parte a parte dell'animale che cadde come un grande corpo morto sopra quello del re, lasciandolo imprigionato sotto di lui.

Ferdinando scese immediatamente dalla sua cavalcatura, cercando di non farsi travolgere, degli spagnoli avevano accerchiato il re immobilizzato e stavano cercando di ucciderlo. Ferdinando gridò loro di fermarsi ma non lo sentirono, corse più veloce: Francesco I non doveva assolutamente morire, serviva molto più da prigioniero che da cadavere. Era a pochi metri da lui quando, non seppe da dove, Ferdinando vide sbucare fuori Carlo di Lannoy. Lui, con fare orgoglioso, si avvicinò al re che lo guardava dal basso con disprezzo, gli mise un piede sopra il petto in segno di vittoria e alzò le mani al cielo gridando.

Il marchese di Pescara rimase lì, immobile mentre le truppe imperiali, intorno a lui, finivano e distruggevano completamente quelle francesi. Il Lannoy aveva preso prigioniero il re, era lui che avrebbe avuto grandi onori dall'imperatore, anche se l'intero piano era stato inventato da Ferdinando. Se avevano vinto era grazie a lui, Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara. Avrebbe voluto gridarlo ma nessuno lo avrebbe ascoltato. Il Lennoy, quasi leggendogli nella mente, gli rivolse un sorrisetto beffardo. Ferdinando lo odiò con tutto il suo cuore.

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