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3. Sterili i corpi fur, l'alme feconde

Ischia, 1507

La musica riempiva l'aria dell'ampia sala da ballo del castello, le coppie danzavano le meravigliose ma stancanti danze tipiche delle corti spagnole, si muovevano leggiadre nei loro abiti sgargianti, ricchi di oro e frange che sventolavano tutto attorno a loro. Era uno spettacolo meraviglioso anche solamente da vedere, ma Vittoria Colonna sembrava completamente persa in altro.

I suoi occhi erano posati sulla figura di Ferdinando d'Avalos e non sembravano avere intenzione di staccarsi. Se era venuta a quella festa, invece di starsene chiusa in camera come faceva di solito a leggere o scrivere, era solamente perché sapeva che lui ci sarebbe stato. Ora che non era più un bambino, la sua vita a Ischia si era limitata parecchio: passava tutto il suo tempo nel palazzo a Napoli che aveva ereditato da suo padre, marchese di Pescara, ad allenarsi, andare a cavallo e a fare battute di caccia con gli amici. Vittoria lo vedeva sempre meno ma, ogni volta che succedeva, lo trovava sempre più bello. Non era l'unica: non c'era nessuna ragazza sull'isola e in tutta Napoli che non spasimasse per lui. Ferdinando stava diventando conosciuto per la sua bellezza alla quale veniva aggiunto il fascino dei suoi modi ombrosi da guerriero, del suo sguardo attento e serio e del suo fisico atletico.

In quel momento era dall'altra parte della sala e stava parlando con la duchessa Costanza d'Avalos, sua zia: pareva che lei lo stesse presentando, orgogliosa, a qualche suo amico letterato e ospite da poco al castello. Vittoria era completamente persa, in quegli anni quello che da bambina era stato un po' di interesse nei confronti del suo promesso sposo si era intensificato a dismisura e ora doveva ammettere a se stessa di essersene completamente innamorata. Non sapeva neanche lei se era successo come conseguenza alla consapevolezza che era destinata a diventare sua moglie oppure se, con la possibilità di conoscerlo, sarebbe successo lo stesso, ma quello di cui era consapevole era che non aveva altro in testa se non lui. Tutti i suoi pensieri erano rivolti verso Ferdinando: quando guardava il tramonto la sera dalla sua amata finestra pensava a lui, quando leggeva storie di due innamorati pensava a quella che avrebbe avuto con lui, quando scriveva tutti i suoi versi carichi di amore li indirizzava al giovane d'Avalos.

«Non mi dire che stai ancora guardando lui» esclamò vicino a lei la giovane Costanza, l'altra e omonima nipote della duchessa.

Vittoria le lanciò un attimo un'occhiata distratta per poi tornare a posare gli occhi sul ragazzo.

«Secondo te per quale motivo sono venuta, stasera?» le chiese retoricamente.

Costanza ridacchiò. In quegli anni erano diventate amiche, Vittoria era diventata per lei un'altra cugina. Si erano trovate d'accordo: entrambe scrivevano versi, entrambe amavano la letteratura e l'arte, avevano gli stessi identici interessi. Nonostante Vittoria considerasse gli scritti dell'altra frivoli e anche abbastanza sciocchi, lei era l'unica persona a cui faceva leggere le sue poesie, si confrontavano e parlavano spesso di letteratura, da sole, e si erano molto affezionate l'una all'altra.

«Secondo te mi chiederà di ballare?» le domandò Vittoria, speranzosa.

Costanza si fece un po' preoccupata, non voleva ferirla ma non voleva neanche mentirle. La verità era una ed era dura: Vittoria era così accecata da questo amore che l'aveva travolta così improvvisamente che pareva non vedere la realtà. Era vero, era la sua promessa sposa, ma era anche vero che a Ferdinando pareva non importare. Costanza sapeva bene che cosa faceva suo cugino a Napoli ma, per pietà dell'ingenuità della sua cara amica, non le aveva mai parlato del comportamento completamente da libertino che aveva.

«Lo vedo impegnato, adesso...» rispose Costanza titubante.

«Non lo farà, vero?» sbuffò Vittoria leggermente delusa.

Ferdinando, proprio in quel momento, si voltò e, vedendo che la ragazza lo stava guardando, le rivolse un caloroso sorriso. Vittoria parve sciogliersi sotto il suo sguardo, rispose allo stesso modo con le guance completamente a fuoco. Non che Ferdinando non le volesse bene, anzi, Vittoria le era molto cara, ma l'affetto che lo legava a lei era quello che un fratello poteva nutrire nei confronti di una sorella, niente di più e niente che avesse a che fare con il legame che sigillava il loro futuro.

«Signorina Vittoria» la voce di un uomo la richiamò dal suo stato di adorazione. Si voltò e vide davanti a sé Enea Irpino, un poeta che era venuto da non molto ad abitare nel castello: scriveva versi carichi di dolcissimo amore per la principessa Costanza d'Avalos e si diceva che bruciasse così tanto di passione per lei che, innamoratosi ancora prima di conoscerla dal vivo, proclamava di essere stato portato all'isola dalla sola forza di Amore.

«Oh, messere» esclamò Vittoria facendogli un sorriso distratto, «buonasera.»

«Vedo che siete sola» disse lui, «non vi ho mai vista ballare stasera.»

«No, infatti...» stava rispondendo lei, ma il poeta non le diede tempo di finire il discorso.

«È un vero peccato» continuò, ignorando la sua tentata risposta, «una ragazza bella quanto voi e con la vostra grazia ed eleganza nella danza dovrebbe essere al centro della sala, ammirata da tutti».

Vittoria sgranò gli occhi, lanciando un'occhiata a sua cugina che, altrettanto sconcertata, stava cercando di non scoppiare a ridere per la stranezza della situazione. Quello che fino a poco tempo prima stava corteggiando la duchessa adesso era venuto a corteggiare lei? Non si fidava di quell'uomo come non si fidava di tanti altri letterati che erano presenti quella sera.

«Vi ringrazio molto, messere, per i vostri complimenti» rispose lei tutto d'un fiato, precedendo la sua richiesta, «ma non ho intenzione di danzare questa sera.»

«Come mai?» domandò lui un po' infastidito dall'atteggiamento per niente lusinghiero della ragazza, «se permettete, vi vedo ballare molto raramente» fece un attimo di pausa, «ma quando lo fate gli occhi di tutti sono fissi a guardare voi.»

Non era una bugia, Vittoria se ne era accorta ed era uno dei motivi per cui evitava di danzare spesso: a Marino e a Roma le era stato insegnato a ballare meravigliosamente e, con i suoi movimenti leggiadri e aggraziati, attirava l'attenzione di tutti nella sala. Ma non era solo la sua bravura nel danzare che ammaliava i letterati di corte, mentre ballava di sentiva osservata in punti in cui l'occhio dell'uomo non doveva andarsi a posare: per una ragazza così giovane e pudica come era lei si veniva a creare una situazione estremamente imbarazzante.

«Preferisco impiegare il mio tempo in altro» rispose lei, chiedendo aiuto con un'occhiata a Costanza che, lì vicino, stava zitta e osservava la scena.

«Nello studio?» ribatté lui, «comprendo appieno la vostra passione, ma, delle volte, anche i poeti come siete voi o io devono prendersi delle pause e svagarsi.»

«Non ce n'è bisogno» rispose lei lasciando da parte l'imbarazzo e usando un tono serio e orgoglioso.

«Io credo di sì.»

«"Qui bene canit bene vivit" soleva dire il poeta Ovidio» gli disse con un sorrisetto di scherno, «vogliate scusarmi.»

Prese per mano la cugina e la trascinò via, fuori dalla sala, senza voltarsi indietro.

Quando furono fuori dalla sala da ballo, lontane dalla confusione della festa, le due cugine si guardarono negli occhi per qualche secondo e poi scoppiarono entrambe a ridere.

«Oh, Vittoria» rise Costanza mettendosi una mano davanti alla bocca, «sei stata fantastica, non riuscivo a trattenermi dal ridere per l'espressione che ha fatto quando ce ne siamo andate.»

Vittoria scrollò le spalle.

«Almeno ho trovato un modo per andare via da questo ballo» rispose sorridendo, «mi stavo annoiando terribilmente.»

Mentiva: sarebbe stata ore ed ore a guardare Ferdinando, ma ormai era fatta e non aveva intenzione di rientrare.

Le due ragazze si guardarono un po' intorno, erano nella piccola stanza, arredata con qualche poltrona, tavolino e specchio, che faceva da anticamera alla sala per le danze e nelle quale, a volte, si intrattenevano coloro che desideravano discutere un po' più lontani dalla musica e dalla confusione. Quella sera non c'era nessuno.

«Che facciamo?» le domandò Costanza, sorridendo.

Vittoria non lo sapeva, stette qualche secondo a pensarci: non aveva voglia di leggere adesso, men che meno di tornare nella sua stanza per dormire.

«Andiamo a guardare il mare» propose, «è bellissimo di notte.»

Il volto di Costanza si illuminò e le sue labbra si aprirono in un sorriso entusiasta.

«Sì, che meraviglia!» esclamò, felicissima.

Procedettero per le stanze del castello, fino a raggiungere la piccola porticina che conduceva nel giardino circondato da un'altissima cerchia di mura. Non incontrarono nessuno per i corridoi vuoti e silenziosi, tranne che una giovane serva che veniva dalle cucine e portava con sé qualche brocca verso la sala. Vittoria, appena la vide, si fermò improvvisamente, i suoi occhi andarono a posarsi sulla pancia della donna: era gonfia, la serva aspettava un bambino. La ragazza si incupì d'un tratto, il sorriso le svanì dalle labbra e i suoi occhi parvero riempirsi di lacrime.

«Vittoria, che ti succede?» le domandò Costanza, fermatasi a sua volta, vedendo il cambiamento improvviso della sua espressione.

«Niente» rispose lei, sforzandosi di sorridere.

Prima di procedere lanciò un ultimo sguardo alla donna e sentì una fitta al cuore, ricacciò indietro le lacrime: non voleva piangere.

***

Le mura del castello aragonese non lo circondavano completamente, da una parte l'imponente abitazione degli Avalos era protetta dalla migliore cinta muraria che potesse esistere: le rocce a picco sul mare. Il giardino finiva lì, con quel enorme dirupo che si apriva su una meravigliosa valle d'acqua. Vittoria amava quel posto e anche Costanza.

Appena arrivate le due ragazze si sentirono molto meglio: il vento fresco della sera che accarezzava i loro visi e lo scroscio delle onde del mare che si infrangevano sulla scogliera le faceva sentire libere.

«Guarda la luna, Costanza» Vittoria alzò lo sguardo verso quel magnifico disco di luce argentea che illuminava il cielo, quella sera era piena e sorprendentemente luminosa.

Rimasero lì, qualche minuto, con gli occhi fissi al cielo. Poi Vittoria fece qualche passo avanti nell'erba e si sedette, guardando quella distesa di nero che non lasciava distinguere dove cielo e mare si separassero. Costanza le venne affianco, si tirò su la gonna e si mise vicino a lei.

«Non c'è posto migliore di questo, Costanza» le disse l'amica senza staccare lo sguardo dallo scuro panorama.

«E più romantico» aggiunse la cugina sospirando, «immaginati qui, una coppia di innamorati: lui le recita uno di quei sonetti dolcissimi, pieni d'amore e di passione e lei lo ascolta con il cuore in gola.»

Vittoria sorrise nostalgica, sentì le farfalle nello stomaco al pensiero di lei e Ferdinando lì, di sera, sotto la luna. Costanza la guardò con un sorrisetto.

«So a chi hai pensato» le disse scherzosamente.

«Ferdinando non scrive sonetti» le rispose lei, con un tono un po' malinconico: le sarebbe piaciuto.

«Non vedo l'ora che vi sposiate!» esclamò la cugina, esuberante. Vittoria avrebbe voluto rispondere "anche io" ma rimase in silenzio. Non ancora.

«Non capisco perché ancora non vi siate sposati» continuò l'altra, stavolta con un tono più serio, «intendo dire, tu hai compiuto i diciassette anni e Ferdinando si avvicina ai suoi diciotto, avete raggiunto l'età giusta per sposarvi.»

Vittoria abbassò lo sguardo, cominciò a rigirarsi i fili d'erba tra le dita. C'era una cosa che non aveva ancora detto a nessuno, solo la sua balia e la duchessa la sapevano, una cosa che le costava molte, silenziose lacrime.

«Quante ragazze a quasi diciotto anni non sono ancora sposate, Costanza?» le domandò Vittoria, consapevole che tutte le giovani, anche le più povere contadine, a diciotto anni erano già maritate e la maggior parte aveva già un primo figlio. Le tornò in mente la donna incinta che aveva incontrato in corridoio.

«È quello che volevo dire io» la interruppe l'altra, «non capisco perché la zia aspetti tanto, lei è sempre attenta a tutto e non trascura mai niente: non sarebbe mai capace di dimenticarsi di una promessa così importante».

Vittoria sospirò, Costanza era più piccola di lei ma non aveva il suo stesso problema: era diventata la promessa sposa, da poco, del duca d'Amalfi, Alfonso Piccolomini, e presto si sarebbe sposata.

«C'è un motivo, Costanza» le disse Vittoria facendosi coraggio, questo argomento la tormentava e faceva molta fatica a parlarne.

«Deve essere qualcosa di molto importante» disse la cugina, ragionando tra sé.

«Lo è» rispose Vittoria facendosi coraggio, gli occhi le si stavano già riempiendo di lacrime e sapeva che presto sarebbe scoppiata a piangere. Attese qualche attimo e poi si fece forza: «Non posso concepire dei figli.»

Costanza sgranò gli occhi, il tono secco con cui Vittoria aveva pronunciato quelle parole le aveva fatto provare tutti i sentimenti di angoscia, preoccupazione e dolore che ella teneva dentro il suo cuore.

«Ancora no?» le chiese, sussurrando a bassa voce per paura di dire qualcosa che potesse peggiorare la situazione.

Vittoria scosse il capo, si asciugò le lacrime che erano sfuggite al suo controllo con il dorso della mano.

«Mai» rispose, «sai meglio di me che il matrimonio tra me e Ferdinando è concordato da molto tempo e che sia i Colonna che gli Avalos aspettano da anni che venga celebrato. Se abbiamo aspettato così tanto e continuiamo a farlo è perché tua zia spera che qualcosa possa cambiare, ma non succederà.»

«Non puoi dirlo» cercò di rassicurarla Costanza, mettendole gentilmente una mano sulla spalla, «tutte noi abbiamo tempi diversi, non significa che...»

«Diciassette anni sono troppi» la interruppe Vittoria con un singhiozzo.

«C'è ancora speranza» ribadì l'altra con gli occhi velati di lacrime di compassione, «non dirlo.»

Vittoria si lasciò andare, si distese sull'erba fresca del prato e guardando il cielo lasciò che le lacrime le bagnassero il viso.

«Sono sterile» disse e sentì un dolore acuto colpirla al cuore, come una pugnalata, e mozzarle il fiato, «sono sterile e che cos'è una donna sterile? Niente.»

Costanza la guardò con gli occhi lucidi, avrebbe voluto dirle qualcosa per consolarla ma non sapeva cosa.

«Non dire così...» le mormorò incerta.

«Lo dico perché è la verità» rispose lei con un singhiozzo, «una donna che non può dare un erede alla casata del marito non serve a niente, è una cosa inutile. Non potrò dare un erede a Ferdinando, non potrò dare un erede agli Avalos, come credi che verrò considerata?»

«Vittoria, tutti ti stimano qui» le disse Costanza con un tono più convinto, cercando di farle forza, «tutti ti stimano, ti tengono in grandissima considerazione e non sarà la tua sterilità a farti decadere, a farti ignorare da tutti coloro che adesso ti amano.»

«No, infatti» rispose lei con una tremenda amarezza nella voce, «sarà il mio nome a trattenermi qui: se non vengo ripudiata è solo perché sono una Colonna.»

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