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11. Li fausti giorni e le disgrazie torte

Ferdinando non riconobbe la stanza in cui si trovava, aveva aperto gli occhi ma vedeva ancora, intorno a sé tutto offuscato. Gli ci volle qualche secondo perché capisse che non si trovava nel campo di battaglia, perché cominciasse a sentire il morbido cuscino che aveva sotto la testa e le calde coperte che avvolgevano il suo corpo dolorante. Mise a fuoco il soffitto, ma non lo riconobbe. Non era a casa sua, non era a Ischia e non era a Napoli. Dove allora? Avrebbe voluto tirarsi su a sedere ma sapeva che non sarebbe stato capace di farlo. Le ferite, non capiva come, gli provocavano meno dolore di quanto ricordasse ma non era comunque in grado di muoversi. Non sentiva più il suo volto e il corpo coperto di sangue, non sentiva più l'odore aspro e ripugnante delle carcasse ma, anzi, la stanza era pervasa da un sano profumo e illuminata da un'accesa luce.

Cercò di parlare ma tutto quello che uscì dalle sue labbra fu un suono roco e incomprensibile, pure la sua voce sembrava aver subito le stesse ferite del suo fisico. Comprese che non c'era nessuno con lui, era completamente solo e bruciava dalla voglia di sapere dove fosse. Non voleva stare ancora con questo interrogativo, aveva bisogno di una risposta chiara e semplice a tutte le sue domande. Come era andata la battaglia? Avevano vinto o perso? Si trovava quindi nella casa di qualche suo alleato o era stato preso dai francesi? Certo, sarebbe stato strano un tale trattamento da parte dei suoi nemici, ma non poteva escludere niente.

Non ebbe il tempo di attendere neanche qualche minuto che sentì dei passi salire le scale, passi di più persone. Rimase in ascolto, speranzoso che venissero da lui: forse avevano sentito dei rumori e stavano venendo a controllare. Di una cosa era ormai certo: nessuno gli avrebbe fatto del male. Come avrebbero potuto altrimenti accoglierlo in una così ospitale dimora, pulirlo, curarlo e medicargli le ferite?

La porta si aprì lentamente, Ferdinando cercò di alzare la testa per vedere meglio chi fossero le persone che stavano entrando ma una fitta lo fece ritrarre con un gemito di dolore. Udì una risata soffocata che lo fece infastidire.

«Come stai, mio caro?» Ferdinando notò, dopo un attimo di spavento, che la voce aveva uno strano accento, un accento che non era abituato a sentire: quello francese. Era finito in mano ai nemici quindi. Altre domande, ancora di più di quante ne avesse già accumulate, si affollarono nella sua mente: perché allora lo chiamava "mio caro"?

L'uomo si avvicinò al suo letto e Ferdinando poté vederlo meglio, accanto a lui veniva una servetta con un bacile pieno d'acqua e qualche straccio e pezza. Il giovane marchese non riuscì a trattenere un'esclamazione di stupore e il suo carceriere, se così si poteva chiamare, scoppiò in una fragorosa risata.
«Non mi avevi riconosciuto, Ferdinando?» rise lanciando un'occhiata alla serva, «cambiagli le bende e puliscigli di nuovo le ferite.»

La ragazza cominciò a scostare le coperte mentre Ferdinando rimaneva immobile.

«Come avrei potuto?» balbettò ancora scosso, «non sapevo che voi...»

Non riuscì a finire la frase che l'altro gli rise nuovamente in faccia.

«Gian Giacomo Trivulzio è ancora in vita, se tu te ne fossi dimenticato» lo sbeffeggiò.

Ferdinando sospirò: era finito sì nelle mani dei nemici, ma si trovava a casa di un suo parente, anche se non così tanto prossimo. Gian Giacomo Trivulzio, uomo d'armi e generale al servizio della signoria di Milano, era un signore piuttosto basso, pieno, dal viso squadrato e da lunghi e lisci capelli grigi; aveva sposato in seconde nozze, dopo la morte della prima moglie Margherita Colleoni, Beatrice d'Avalos, sorella della duchessa Costanza. Erano quindi, seppur abbastanza lontanamente, imparentati.

«Che cosa ci faccio qui?» domandò ancora stordito mentre la ragazza cominciava a sciogliergli le bende della ferita al fianco.

«Sei stato così fortunato da essere stato recuperato dal campo di battaglia, seppur non in condizioni meravigliose, e, data la nostra parentela, ho creduto bene di non farti finire in mano a gente che ti avrebbe trattato come solitamente si trattano i prigionieri» spiegò orgoglioso il Trivulzio con un sorrisetto sulle labbra, poi ci tenne a precisare, «ma questo non ti esenta da esserne uno a tutti gli effetti: ho solo creduto meglio non farti morire dissanguato per le tue numerose ferite.»

«Di questo vi ringrazio molto» rispose Ferdinando sinceramente riconoscente, «ma avrei bisogno di porvi qualche domanda prima che ve ne andiate.»

Il Trivulzio lo guardò con l'espressione di chi sapeva già a che cosa si sarebbe dovuto aspettare.

«Desideri sapere come si è conclusa la battaglia?» gli domandò senza, però, lasciarlo rispondere, «L'esercito del Papa è stato completamente sconfitto, solo una legione di soldati si è salvata mettendosi in fuga, altrimenti avremmo trucidato tutti.»

Ferdinando abbassò lo sguardo: non era da considerarsi una novità, alla fine lo aveva saputo fin dall'inizio che le speranze di vittoria per il suo schieramento erano veramente scarse. Quindi erano morti quasi tutti? E che cosa ne era stato dei comandanti? Sentì il suo battito accelerare: lui era stato così fortunato da salvarsi, ma gli altri?

«Che cosa ne è stato del viceré?» chiese ancora, in preda ad un sentimento di tremenda ansia, «e dei comandanti? Che cosa è successo a Fabrizio Colonna, al Navarro, a Giovanni de' Medici...»

«Il vostro valoroso Ramon de Cardona è scappato appena ha visto che non c'erano più speranze per il suo esercito» rispose il Trivulzio con il classico tono da presa in giro. Ferdinando sbuffò: non si sarebbe aspettato niente di meglio da lui. «Per quanto riguarda Fabrizio Colonna e Giovanni de' Medici state tranquillo: entrambi sono vivi e prigionieri come voi, solo con molte meno ferite. Si sono arresi, per evitare la morte, al duca di Ferrara e vi posso assicurare che li sta trattando con tutto il rispetto che si può avere con dei prigionieri.»

L'ultima frase non era ironica, era stata pronunciata con un tono serio e Ferdinando fu portato a credere che fosse la verità. Ne fu rassicurato e il suo cuore rallentò i suoi battiti. Lasciò affondare la sua testa nei cuscini e chiuse gli occhi. Era vero, lui e tutti gli altri comandanti erano vivi, ma tutti i soldati erano morti in circostanze terribili, massacrati senza tregua dall'esercito francese. Non era rimasto più nessuno di quei giovani che combattevano con lui: quelli che facevano parte della sua truppa, tutti quelli al fianco di cui aveva combattuto erano stati spazzati via dalle artiglierie nemiche, dalle palle di cannone di Alfonso d'Este.

Il Trivulzio fece qualche passo indietro.

«Tu continua il tuo lavoro» disse alla serva, poi si rivolse a Ferdinando, «ci vediamo più tardi, caro.»

«Aspettate!» esclamò lui in risposta, il Trivulzio si voltò, «ho ancora così tante cose da chiedervi...»

«Mi dispiace, ma devo andare, c'è una cerimonia molto importante a cui non posso mancare» il tono dell'uomo era cambiato improvvisamente, aveva pronunciato il termine "cerimonia" con un tono di tristezza e amarezza che Ferdinando non gli aveva mai sentito, «ragazza, fai in modo che non gli manchi niente.»

«Non avete neanche qualche minuto?» insisté Ferdinando, il Trivulzio si fermò sulla porta, «dove dovete andare di così importante?» si azzardò a chiedergli.

Il volto di Gian Giacomo si offuscò, il sorriso gli morì sulle labbra e gli occhi si oscurarono.

«A un funerale» rispose, poi, prima di chiudere completamente la porta dietro di sé, aggiunse, «la salma di Gaston de Foix è arrivata questa mattina a Milano.»

***

I giorni passavano tutti uguali, Ferdinando trascorreva pomeriggi a pensare e ripensare all'accaduto. Aveva una voglia matta di alzarsi ma il medico, che era venuto a visitarlo una seconda volta da quando era cosciente, gli aveva categoricamente vietato qualsiasi tipo di movimento. "Non siete ancora totalmente fuori pericolo" gli aveva detto con parole chiare e Ferdinando non aveva potuto replicare. Non aveva più notizie di nessuno, l'unico contatto con l'esterno lo aveva grazie ai racconti del Trivulzio che veniva a trovarlo una o due volte al giorno e lo aggiornava un po' su tutto ciò che succedeva, per il resto non aveva saputo niente da nessuno. Spesso il suo pensiero lo portava a Ischia, a Napoli e alla sua patria, riviveva nella mente la tranquillità della vita al castello aragonese e, altrettanto spesso, il suo pensiero arrivava a Vittoria.

Doveva ammettere che era strano il rapporto che aveva con lei: le donne gli erano sempre piaciute e non era raro che si trovasse affascinato da una dama bella fisicamente e di comportamento elegante e, allo stesso modo, prima del matrimonio, aveva provato desiderio per Vittoria. Ma poi, una volta soddisfatto, questo svaniva completamente e da una donna si spostava ad un'altra, magari più bella.
Con sua moglie era stato diverso, Vittoria aveva sempre esercitato, sin da bambina, un'ammirazione in lui che nessun'altra ragazza gli aveva mai fatto provare, riconosceva che in lei c'era qualcosa di diverso, di superiore rispetto a tutte le altre donne e per questo la stimava enormemente. Le voleva sinceramente bene e sapeva che lei lo amava molto di più di quanto lui facesse con lei.

Mentre pensava a sua moglie, gli tornò in mente il regalo che lei gli aveva fatto: il medaglione che gli aveva donato con tanto amore prima della sua partenza. Lo cercò ma non lo aveva addosso, tentò di vedere se fosse da qualche parte vicino a lui, se fosse stato riposto su qualche mobile della sua stanza, ma non vide niente. Ne parlò con il Trivulzio e lui rise.

«Non pensavo fosse così importante per te» gli rispose, «te lo faccio portare, l'avevo riposto tra i gioielli di mia moglie.»

Nemmeno lui lo pensava quando Vittoria glielo aveva dato, nemmeno lui credeva che un tale oggetto potesse risvegliare in lui un desiderio che ormai considerava sepolto. Quando il Trivulzio glielo aveva teso, le sue mani avevano cominciato a tremare.

Vittoria. Chissà come stava adesso. Poteva davvero avere così tanto desiderio di rivederla? Pensava che ogni influenza che lei aveva esercitato su di lui era svanita, invece no. Voleva vederla, doveva vederla. Doveva tornare a Ischia. Non poteva neanche immaginare il dolore di sua moglie nel saperlo così lontano, prigioniero e ricoperto di ferite. Pensò: magari neanche lo sapeva, magari era creduto morto, magari a Ischia erano già tutti in lutto. L'immagine del candido volto di Vittoria in lacrime lo spronò.

Cercò di tirarsi su, appoggiandosi ai cuscini, si fece portare dalla servetta che lo curava e custodiva, un foglio, penna e calamaio senza sapere neanche lui che cosa realmente stesse facendo. Intinse la penna nell'inchiostro e, sorprendendo anche se stesso, cominciò a scrivere. Sapeva che niente avrebbe reso Vittoria felice quanto una poesia, uno scritto in rima. Sapeva che lei gli aveva sempre, anche se non esplicitamente, rimproverata la sua poca passione nei riguardi della letterature che, invece, lei amava tanto: adesso le avrebbe mostrato che, per amore suo, era diventato pure poeta.

Si stupì delle parole, tanto inusuali quanto romantiche, che stavano sgorgando dalla sua penna: conosceva benissimo tutte le liriche amorose di Petrarca e i dolci versi di Dante quasi al pari della Bibbia, ma essere lui, Ferdinando, il giovane che aveva sempre la mente rivolta verso i clamori della battaglia, a scrivere cose così romantiche e appassionate per una donna che non credeva nemmeno di amare lo sorprendeva. Era questo l'effetto che Vittoria produceva su un uomo, era questo l'effetto che Vittoria produceva su di lui?

Quando ebbe finito e la sua mente si fu svuotata di tutti i sentimenti che aveva cercato di esprimere nella sua poesia, ripiegò il foglio e lo nascose: solo Vittoria avrebbe dovuto vederlo, solo a lei l'avrebbe recitato, nel caldo della loro camera da letto.

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