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10. In questa pugna orrenda e dispietata (parte 2)

9 aprile 1512

«Ferdinando, venite con me» Fabrizio Colonna si presentò all'ingresso del suo padiglione di prima mattina. Il marchese di Pescara, si stava riposando un'oretta, stremato dalla lunghissima veglia notturna che l'aveva tenuto impegnato per metà della notte e che non gli aveva lasciato modo di riposare, «devo parlare con Marcantonio Colonna e voi siete l'unico che mi può accompagnare, non mi fido del Navarro, men che meno del Cardona.»

Ferdinando lo osservò per qualche istante confuso.

«Dovete parlare con messer Marcantonio?» gli chiese ancora mezzo assonnato.

«Esatto» rispose il Colonna, «voglio sapere come ha intenzione di agire adesso che i francesi si sono accampati appena dirimpetto a noi, dall'altra parte del Ronco. E, soprattutto se Ravenna è pronta per un assedio di tale portata.»

«Lo dubito fortemente» rispose Ferdinando dando voce ai pensieri che nutriva in seno da tempo, «Ravenna non ce la farà.»

«Lo credo anche io ma non fate l'errore di sottovalutare Marcantonio Colonna» lo ammonì Fabrizio, «è un grande stratega e un coraggiosissimo guerriero.»

«Non lo dubito» rispose il giovane marchese, «ma ciò che mi preoccupa più di tutto è la nostra inferiorità numerica: il nostro esercito verrà spazzato via e Ravenna non avrà alcun aiuto da parte nostra, saremo stati completamente inutili.»

«È quello che temo si avvererà» sospirò il Colonna, i suoi occhi erano angustiati, «venite, allora?»

Ferdinando annuì mettendosi in piedi, prese il pugnale che portava sempre alla cinta e seguì Fabrizio Colonna fuori dal padiglione.

Con disappunto di Fabrizio Colonna, li accompagnava, oltre a Giovanni de' Medici, anche Ramon de Cardona che era tenuto, a sua detta, ad essere partecipe di qualsiasi trattative per evitare doppi giochi e alleanze segrete. Quella che stavano andando a fare non era assolutamente una trattativa ma un semplice confronto tra due eserciti alleati che il Colonna avrebbe potuto benissimo riferirgli in seguito. Ma al viceré non era interessato, aveva stabilito di dover essere presente.

Passarono a cavallo vicino all'accampamento dei francesi. Era enorme, vedendolo così sembrava quasi il doppio di quello pontificio: questo significava che conteneva anche il doppio dei soldati. Faceva rabbrividire al solo sguardo e Ferdinando smise di osservarlo, guardarlo gli procurava solamente angoscia.

«Guardalo invece» gli sussurrò Fabrizio Colonna avvicinando il suo cavallo al suo, quasi leggendogli nel pensiero, «come credi di abbatterlo se non studi come è fatto? Ogni accampamento ha dei punti deboli, devi trovarli così da sapere dove attaccare.»

Ferdinando si sentì stupido a non averci pensato prima, annuì e tornò ad osservarlo cercando di studiarlo con occhio critico, l'occhio di un generale esperto. Ma più lo guardava più gli sembrava inespugnabile, si perse d'animo ma cercò di non mostrarlo.

Proprio mentre stava per scrutare l'ingresso vide uscire da quella che pareva essere la porta principale una delegazione di una trentina di persone, tutte a cavallo. Sperò che non venisse diretta verso di loro eppure l'evidenza mostrava tutto il contrario. Dei cavalli con le bardature decorate con i colori e lo stemma francese stavano cavalcando esattamente nella loro direzione.

Appena furono vicini, Ferdinando vide quello che pareva essere il capo, che indossava l'armatura più ricca e decorata degli altri, scendere dal suo possente stallone bianco. Seguendo l'esempio di Fabrizio Colonna quel piccolo gruppo di generali si fermò, Ferdinando ebbe il sospetto che il Cardona volesse proseguire facendo finta di non aver visto la delegazione francese: sarebbe stato proprio un comportamento infame, pensò. Anche loro scesero tutti, chi con più fatica e chi con meno, dalle loro cavalcature, rimanendo però ad una non esigua distanza dai francesi. Il giovane che aveva fatto qualche passo avanti si tolse l'elmo facendo scuotere le piume azzurre che lo decoravano sulla sommità. Era un ragazzo della sua età ma era il giovane più perfetto che Ferdinando aveva mai visto: una massa di capelli biondi, un po' spettinati, coronava il viso più virile ma allo stesso tempo più delicato che avesse mai visto. I suoi occhi celesti fissavano, con una strana luce nelle iridi, Ramon de Cardona che pareva tremare sotto quello sguardo perforante.

«Non credevo di incontrarvi fuori dall'accampamento» furono le sue prime parole, in un latino dall'accento inevitabilmente francese, «Ramon de Cardona, ma mi fa molto piacere.»

Ferdinando vide il viceré sbiancare ma non muoversi dalla sua postazione.

«Stavo venendo, appunto, a farvi una proposta» continuò il giovane, «che varrà il vostro onore.»

«Parlate» disse il Cardona apparendo anche più sicuro di quanto non fosse per davvero.

«Volevo sfidarvi a duello» rispose il francese, «un duello io e voi, sotto le mura di Ravenna, come facevano gli antichi.»

«Un duello, in una battaglia come questa, è completamente inutile» esclamò arrabbiato Fabrizio Colonna, quelle parole suonavano tutte di presa in giro e anche Ferdinando se ne era accorto. Non che al Colonna interessasse l'incolumità del Cardona, o almeno non era proprio la sua priorità, ma era chiaro che non potevano illudere l'esercito, gli abitanti di Ravenna e anche gli stessi comandanti che una situazione precaria come quella potesse veramente risolversi con un mero duello.

«Esatto» annuì il Cardona rivolto verso Fabrizio Colonna, poi gridò: «non accetto, De Foix»

Il giovane serrò le labbra e sul suo volto comparse un sorrisetto beffardo e minaccioso.

«Avete scelto la disfatta allora!» urlò quando fu salito di nuovo sul suo destriero, fece ordine di partire e la delegazione rientrò velocemente all'interno dell'accampamento.

«L'avremmo avuta lo stesso» commentò amaramente il Colonna facendo cenno di ripartire.

Ferdinando lanciò un'occhiata alle sue spalle, osservò il giovane scomparire all'interno delle porte dell'accampamento nella sua armatura brillante: così quello era Gaston de Foix.

***

Era primo pomeriggio quando un rumore improvviso squarciò l'aria. Ferdinando corse immediatamente fuori dal suo padiglione e vide che tutti i soldati si stavano guardando intorno, spaesati. Cercò tra la grande folla che si stava formando per le strette strade dell'accampamento Fabrizio Colonna ma lo trovò solo una decina di minuti più tardi: stava osservando preoccupato, in compagnia degli altri generali, le mura di Ravenna. Guardò anche lui: schierati proprio davanti alla porta c'era una lunga fila di artiglierie, di cannoni puntanti in direzione delle mura della città. Colpo dopo colpo, il cuore di tutti i presenti si fece più pesante.

«Sono le artiglierie di Alfonso I d'Este» disse il Navarro guardando verso lo schieramento di cannoni con aria disgustata, «non faranno breccia nelle mura, non temete.»

«Siate realista» gli rispose Fabrizio Colonna, «sono molte e lo sapete tutti, quelle di Alfonso d'Este sono le migliori: faranno breccia.»

E la fecero, ma non così grande come il Colonna si aspettava. Marcantonio provvedette subito, appena l'attacco fu cessato, a riparare quella piccola parte in cui le mura avevano ceduto con un grande terrapieno, ma era un difesa che non sarebbe mai bastata, ne erano consapevoli tutti.

***

11 aprile 1512

Nessuno aveva dormito. Era la domenica di Pasqua e, mentre in tutte le altre città si festeggiava con pranzi e preghiere, l'intera Ravenna era chiusa nelle sue silenziose e oscure case, aspettando l'inizio della battaglia. Era stata fissata per quel giorno e quel giorno si sarebbe svolta, quel giorno o sarebbero sopravvissuti o sarebbero periti durante il sacco della città da parte dei francesi. Era una paura che era difficile da sopportare.

Ferdinando era nel suo padiglione e si stava rivestendo delle armi: aveva infilato la dura corazza di metallo e gli schinieri, in mano teneva l'elmo decorato con una grande piuma bianca. Mentre indossava quelle armi che tante volte aveva provato, aveva desiderato di portare, sentiva crescere dentro di lui il desiderio della battaglia, della mischia, della morte. Era a un passo da ciò che aveva sempre desiderato, a un passo da combattere la sua prima battaglia e non stava nella pelle. In mezzo a tutti quei generali timorosi e vili come il Cardona o Giovanni de' Medici avrebbe mostrato tutto il suo coraggio, la sua bravura e il suo valore: lui e la sua truppa di cavalleggeri avrebbero brillato in mezzo a quello strano e scombinato esercito. Non desiderava altro che essere riaccolto a casa sua, a Napoli, con i più grandi onori, come vittorioso, di essere osannato per le strade della città e di poter conquistare ancora più potere. Il titolo di Marchese di Pescara non gli bastava, non gli era mai bastato e aveva sempre desiderato di più: questa era l'occasione per ottenerlo.

Avrebbe combattuto contro Gaston de Foix. Era una decisione folle, se ne rendeva conto, nessuno avrebbe mai affrontato quell'uomo, ma, in quel momento, si sentiva così potente, così capace di fare tutto ciò che desiderava, che era certo che avrebbe vinto, che sarebbe stato dichiarato il vincitore del comandante francese e avrebbe portato il suo esercito, seppur di minor numero, alla vittoria. Voleva essere ricordato? Allora quale modo poteva essere migliore di quello di uccidere Gaston de Foix?

Cominciò a sentire dei rumori fuori dal suo padiglione, rumori di cavalli, di molti passi, di armature e di spade. Lanciò un ultimo sguardo alla sua immagine riflessa nello specchio: era pronto. Uscì dalla tenda, le strade dell'accampamento si stavano riempiendo di soldati, ognuno di essi stava raggiungendo il proprio generale per disporsi secondo i suoi ordini e i comandanti attendevano le ordinazioni del Cardona. Ferdinando fece cenno di aspettare alla sua truppa di cavalleggeri che si stava radunando fuori dal suo padiglione, pronta e perfettamente armata. Andò a cercare Fabrizio Colonna e lo trovò insieme al Navarro e Giovanni de' Medici. Notò con disappunto che c'era anche il viceré.

«Ferdinando, vieni, figlio mio» Fabrizio Colonna gli fece cenno di avvicinarsi, il giovane marchese notò che aveva l'aria preoccupata, «i tuoi uomini sono pronti?»

«Sì, signore» rispose annuendo con un cenno del capo, Giovanni de' Medici stornò lo sguardo.

«Non ci sono variazioni nello schieramento» gli spiegò il Colonna, «tu e e i tuoi cavalleggeri starete all'estrema destra, in prima posizione.»

Ferdinando fece cenno di aver capito. Avevano stabilito la sera precedente di posizionarlo, seppur in posizione laterale, in prima fila e ciò lo rendeva orgoglioso, sentiva di potersi dare importanza. Lo schieramento di Fabrizio Colonna, invece, avrebbe avuto una posizione centrale, il primo, in prima linea, a poter essere colpito; alla sua sinistra il Navarro correva praticamente il suo stesso rischio.

Improvvisamente si udirono suoni di trombe, tutti si guardarono disorientati.

«Disponetevi nei vostri schieramenti!» gridò Fabrizio Colonna prendendo in mano la situazione, il Cardona sembrava senza parole, si guardava intorno con gli occhi sgranati.

Un forte colpo di cannoni squarciò l'aria accompagnando le sue parole, l'artiglieria di Alfonso d'Este stava attaccando di nuovo ma, stavolta, non le mura di Ravenna ma quelle dell'accampamento. Con grande stupore di tutti l'accampamento stava resistendo, il rivestimento di carri falcati ideato dal Navarro stava funzionando: le palle di cannone andavano a colpire i carri lasciando indenne il muro vero e proprio. Sul volto di tutti i soldati si dipinse un sorriso di trionfo, sembravano tutti rasserenati vedendo che l'attacco nemico non sortiva gli effetti sperati, ma ben presto dovettero ricredersi.

Altri colpi di cannone squarciarono improvvisamente l'aria ma non erano più sul davanti dell'accampamento, Ferdinando li sentì vicini, puntavano proprio sulla sua ala. Le artiglierie, infatti, comprese in quel momento il giovane marchese, si erano spostate: nascoste dalle linee di picchieri una parte dei cannoni si era spostata, senza che nessuno se ne accorgesse, sul lato del Ronco, in modo che adesso l'accampamento dell'esercito papale veniva attaccato da due parti.

Ferdinando comprese che era impossibile resistere, i colpi di cannone sfondarono il muro laterale in molto poco, andando a colpire senza tregua le truppe di fanti che avevano davanti. I soldati, senza trovare alcun riparo, si gettarono tutti a terra, con le mani sopra la faccia, sperando e pregando di essere risparmiati da quel massacro. I cannoni, allora, cominciarono ad infuriare sulle truppe dei cavalleggeri: la prima di fila degli uomini di Ferdinando fu completamente trucidata, presto quel lato dell'accampamento divenne un bagno di sangue, un cumulo di carcasse di uomini e di cavalli.

Ma le truppe dovevano stare ferme, questo era l'ordine che veniva dall'alto.

Ferdinando, consapevole che, se non avessero fatto qualcosa, lui e le sue truppe sarebbero state spazzate via nel giro di qualche minuto, chiamò con tutto il fiato che aveva in gola il Cardona pregandolo di dare l'ordine di attaccare: dovevano spostarsi da lì a tutti i costi. Ma il viceré gli fece cenno di no, non era ancora il momento. Ferdinando insistette, non lo vedeva che ad ogni cannonata morivano delle persone? Se non avesse attaccato subito l'esercito sarebbe stato dimezzato. Come poteva essere così cieco? Anche il generale della fanteria, che cercava in tutti i modi possibili di ripararsi dai colpi, sbraitava ma senza alcun risultato. Ferdinando chiamò Fabrizio Colonna. Lo vedeva, poco lontano da lui, con la fronte accigliata e un'espressione tormentata negli occhi: non sapeva che cosa fare. Lo pregò con lo sguardo, Ferdinando sapeva che lui era l'unico che avrebbe potuto fare qualcosa.

«Per favore!» gridò ma le sue parole furono portate via da un'altra forte cannonata e sovrastate dalle grida e dai gemiti degli uomini e dei cavalli colpiti.

«Date la carica» finalmente Fabrizio Colonna si rivolse al Cardona, il suo tono non era un'intimazione, era un ordine. Ma il Navarro gli si oppose, gridò ai suoi che non si muovessero di un passo, che non avanzassero di un centimetro.

Fu più di quanto Fabrizio Colonna poté sopportare, brandì la spada e, scuotendola sopra il capo, gridò: «Abbiamo noi tutti vituperosamente a morire per la ostinazione e per la malignità di un marrano? Ha a essere distrutto tutto questo esercito senza che facciamo morire uno solo degli inimici? Dove sono le nostre tante vittorie contro a' franzesi? Ha l'onore di Spagna e di Italia perdersi per uno Navarro?»

La cavalleria del Colonna partì all'attacco, seguendo l'ordine del proprio generale, il Navarro e il Cardona, seppur malvolentieri, furono costretti a loro volta ad ordinare l'avanzata.

Ferdinando si sentì sollevato, ordinò anche ai suoi di attaccare, per quanto potevano fare. Era un andare incontro alla morte per le sue truppe, erano già state dimezzate dai colpi di cannone e non avevano speranza di sopravvivere contro quelle il triplo delle volte più numerose dei francesi.

Tutto l'esercito, non solo la truppa dei cavalleggeri fu letteralmente travolto, Ferdinando si trovò immerso in un mare di sangue, spade che cozzavano e persone che morivano nei più crudi dei modi. Non provò pena per i morti, anzi, vedere i soldati massacrati gli fece crescere nel petto il furore, la voglia, il desiderio di essere diverso da loro, di poter sopravvivere quando loro non ci erano riusciti e di uscire vittorioso da quella carneficina. Si guardava intorno, cercava una persona in particolare ma, con tutta la confusione, non riuscì a vederlo. Si era sparsa la voce che Gaston de Foix combattesse senza elmo e con una fascia legata al braccio destro, per un voto fatto alla sua dama, ma Ferdinando non riuscì comunque a trovarlo.

Vide, però, Giovanni de' Medici cadere da cavallo, non sembrava gravemente ferito ma la sua poca agilità e il suo fisico un po' grassoccio non gli permettevano di rimettersi subito in piedi. Era questione di qualche secondo e sarebbe diventato un'ottima preda per qualche soldato francese. Un cavallo si ribaltò davanti a lui, si alzò un grande polverone e non vide più niente, quando tornò a guardare Giovanni de' Medici non c'era più.

In quel momento Ferdinando vide dei cavalieri francesi puntare verso di lui, gridò alla truppa di prepararsi a respingerli, ma rimase senza parole quando vide che furono tutti spazzati via da un paio di colpi di cannone. Che cosa stava facendo Alfonso d'Este? Non riuscì a comprendere, capì solo che le sue artiglierie avevano preso a massacrare indistintamente spagnoli, italiani e francesi.

All'improvviso si ritrovò per terra, sentì un pugnale fendergli il fianco e un dolore lancinante al basso ventre. Gridò, qualcuno dei suoi dovette udirlo o forse fu solo una coincidenza ma il suo assalitore cadde morto al suo fianco. Ferdinando tentò di alzarsi in ginocchio, ma il dolore era troppo forte da non permettersi di muoversi, non sapeva dire quanto profonda fosse la ferita ma la corazza era stata perforata.

Quello che successe dopo non lo comprese, il suo volto si era fatto pallido e i suoi occhi si erano annebbiati, non vedeva più niente. Sentì solo altri colpi di cannone, rumore di cavalli imbizzarriti e grida e gemiti di uomini. Qualcuno, vedendolo morente per terra, gli si avvicinò, Ferdinando sapeva che non era né uno spagnolo né un italiano ma un francese venuto lì per finirlo. Non si sarebbe arreso, non sarebbe morto. Quando il soldato calò su di lui la lama, Ferdinando riuscì a schivarla non abbastanza bene da rimanere indenne ma sufficientemente da evitare di ritrovarsi la testa mozzata. Brandì la sua spada e la conficcò nella gamba del suo avversario facendolo cadere, gli fu sopra in un batter d'occhio e spinse più forte che poté l'arma nel suo petto fino a quando non vide di averlo completamente ucciso.

Si toccò il viso, era completamente coperto di sangue, sentiva un dolore tremendo al naso che era il punto in cui la lama aveva cozzato più forte e si meravigliò che non gli avesse portati via un occhio. Lo tracciò con il dito, era una ferita non troppo profonda che gli attraversava diagonalmente tutta la faccia.

Chiuse gli occhi, il rumore della battaglia intorno a lui stava svanendo, la testa aveva preso a girargli in un modo vertiginoso, la vista gli si stava offuscando sempre di più. Non ce la faceva più, non riusciva più a stare neanche in ginocchio per terra. La ferita al fianco si stava facendo sempre più dolorosa, sentiva un male lancinante ogni volta che faceva qualsiasi movimento, anche solamente a respirare. Non ce l'avrebbe fatta.

Le cannonate del duca di Ferrara gli sembravano ormai lontane quando in realtà stavano infuriando ancora sulla sua cavalleria. Tentò inutilmente di fare un profondo respiro, fu aggredito da un dolore lancinante, smise di vederci e si abbandonò alla sorte in mezzo alle carcasse dei cavalli e ai corpi dei suoi soldati.

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