Capitolo 16 - Era inutile
Edvokin tamburellò le dita sulla coscia per resistere all'istinto di grattare l'attaccatura dei capelli. Le trecce in cui Ilja li aveva raccolti tiravano la pelle benché avesse optato per un'acconciatura semplice, che alternava ciocche sciolte a un intreccio morbido. Il risultato era grazioso, ma Edvokin si era soffermato davanti allo specchio solo per compiacere il domestico che ci aveva lavorato con tanto impegno. Aveva rivolto a Ilja i suoi complimenti e poi aveva infilato l'abito grigio del lutto, precipitandosi nella carrozza senza neppure fare colazione.
Delle lamentele di sua madre si sarebbe preoccupato in seguito. Ad assorbire la sua attenzione era il messaggio che Alexiej gli aveva fatto recapitare per invitarlo alla magione Dimiekov: aveva firmato a nome della famiglia e quella non era la sua calligrafia, sicché doveva aver fatto scrivere il biglietto a qualcun altro, ma quelle precauzioni non rendevano il gesto meno azzardato. Cosa l'aveva spinto a prendere una simile decisione?
La carrozza si fermò di fronte al portone, dove il domestico calvo di cui aveva dimenticato il nome lo attendeva fuori dall'uscio. Edvokin si lasciò scortare all'interno e gli affidò cappello e cappotto, poi offrì le condoglianze ai membri della famiglia che si erano riuniti per salutarlo. Né Alexiej né sua moglie erano lì, com'era ovvio che fosse. Era stato lui a invitarlo, ma nessuno avrebbe preteso che i genitori di Krija accogliessero gli ospiti alla porta nel periodo del lutto.
Il domestico guidò Edvokin nel salotto amaranto, molto più piccolo di quello che potevano vantare i Metsiz. Il rosso-violaceo a cui doveva il nome dominava la tappezzeria, accompagnato da legni e metalli chiari, ma lui degnò l'ambiente solo di una rapida occhiata prima di accomodarsi sul divano centrale. Fuori dalla finestra il cielo era plumbeo, le nubi si confondevano con la neve che rivestiva il giardino di un fitto manto bianco. Filtrava così poca luce che il domestico ruotò una Pietra di Sihir sul dersvet prima di congedarsi, promettendo che la sua attesa sarebbe stata breve.
Quello era strano. Periodo di lutto o meno, lasciare da solo un ospite era un grave atto di maleducazione. I Dimiekov però avevano poco personale, forse Alexiej aveva dato quelle disposizioni sapendo che Edvokin non si curava di simili sciocchezze – ma perché non era già nel salotto ad attenderlo? I domestici dovevano averlo avvisato del suo arrivo non appena avevano riconosciuto la carrozza. Se gli era successo qualcosa...
La porta si aprì e il sollievo scivolò via dalle labbra di Edvokin in un sospiro. Scattò in piedi, ma nel voltarsi si scontrò con i severi occhi rosa di Ingveld. Aveva i capelli chiari raccolti in una treccia attorno al capo e un sarafan grigio addosso, il tessuto privo di decorazioni e ricami. La mano stringeva ancora la maniglia, rigida sotto la lunga manica della blusa che sfiorava le nocche, e il viso smunto mostrava un'espressione adirata.
«Donna Ingveld» sussurrò Edvokin, chinando il capo. «Nuovamente vi porgo le mie—»
«Risparmiami. Condividi il letto con mio marito e continui a rivolgerti a me in modo formale?»
Edvokin si irrigidì. Occhieggiò la porta ancora aperta e la sua espressione dovette essere abbastanza eloquente, perché Ingveld proseguì: «Non c'è nessuno nei dintorni che possa sentirci. Drogos tornerà per servire stuzzichini e bevande, non prima.»
«Mi perdonerai se colgo l'occasione per essere diretto, dunque. Dov'è Alexiej?»
«In visita al sepolcro di Krija, o così ha detto. In verità ti attende non so dove per l'appuntamento a cui non ti presenterai.»
«Come, prego?»
Ingveld liberò un soffio ironico. Chiuse la porta alle sue spalle, e il cattivo presentimento che pizzicava la pelle di Edvokin gli azzannò lo stomaco.
«Se hai necessità di conferire con me, possiamo farlo altrove. Drogos tornerà presto, lo hai detto tu stessa, e di certo i tuoi parenti sono ancora su questo piano. Se vedessero la porta chiusa—»
Lei girò la chiave nella toppa, poi la sfilò. «Chissà che idee potrebbero farsi.»
Che intenzioni aveva? Era sicura di poter contare sulla discrezione familiare o aveva smarrito la ragione? Gli occhi arrossati e lucidi sembravano aver pianto fino a un attimo prima, e lo fissavano con un odio che superava quello di qualunque sguardo gli avesse mai rivolto finora.
«Ingveld, non credo che—»
«Gradirei mettere subito in chiaro una cosa: questa è casa mia e sono io a dettare le regole. Tu non hai alcun diritto di parola, men che meno dopo quanto successo. Non ti lascerò distruggere ciò che resta della mia famiglia.»
«Ingveld.» Edvokin ammorbidì il tono, sentendo il cuore battere sul fondo della gola. «Ti assicuro che non costituisco una minaccia, in particolar modo adesso. Credimi, mi dispiace profondamente per Krija.»
«Non abbastanza» sibilò lei, asciutta. «Non ancora.»
«Desidero solo che Alexiej stia bene, lo giuro sull'armonia cromatica. Non sarei venuto senza invito, e se la mia presenza ti disturba farò in modo che tu non debba più vedermi, ma adesso, per cortesia, apri la porta. Lo dico nell'interesse di entrambi.»
«Alex stava bene, prima che tu entrassi nelle nostre vite.» Ingveld si rigirò la chiave tra le dita, poi la fece scivolare nella piccola tasca di stoffa che pendeva dalla cintura del sarafan. Alex... Quel soprannome non gli si addiceva. Era dissonante sulle sue labbra, come se stesse parlando di un'altra persona. O forse era solo il modo in cui lo pronunciava, quasi fosse un comando. «Stavamo tutti bene, io, lui e Krija. Non abbiamo mai avuto il tipo di matrimonio che si può considerare ordinario, ma avevamo trovato il nostro equilibrio. Eravamo amici. Complici. Orgogliosi genitori della nostra splendida figlia. Eravamo felici, a modo nostro, finché tu non hai deciso di intrometterti e rovinare ogni cosa.»
«Non è mai stata mia intenzione farlo.»
«Lo hai sedotto. Lo hai allontanato da noi e questo è il risultato, e adesso tu sei qui mentre Krija...» Un singhiozzo le spezzò la voce. «Lei non c'è più. La mia dolce bambina non c'è più, ed è solo colpa tua.»
Edvokin respirò piano, ma l'aria era così densa che non riusciva a riempire il petto. Spostò lo sguardo dalla porta chiusa all'orologio, fissando le due lancette immobili sul quadrante. Quanto tempo era trascorso? Il suono del pendolo che scandiva il passare dei secondi sembrava troppo rapido, eppure era più lento del battito del suo cuore.
«Comprendo che tu sia sconvolta, Ingveld.» Edvokin avanzò con cautela, le braccia molli lungo i fianchi. «Non credermi tanto presuntuoso da sminuire ciò che provi. Non posso arrogarmi il diritto di affermare che conosco la misura del dolore che opprime te e Alexiej, eppure la sola contemplazione è sufficiente a straziarmi l'anima. Se cercare un responsabile può alleggerire in qualche modo la tua sofferenza non mi esimerò dal rivestire questo ruolo, ma non posso lasciarti credere che la condotta di Alexiej sia la causa di tutto. Non posso permettere che se ne convinca, lo distruggerebbe. E sono certo che tu sappia, nel profondo, che non è vero. Quanto successo a Krija è una tragedia che non ha altro colpevole se non la malattia che l'ha colpita.»
«Tu sei la malattia. Tutto ha avuto inizio con te e non avrò pace finché non ne avrai pagato il prezzo.»
Alzò le braccia e sfregò i capelli fino a guastare l'acconciatura, lasciando che alcuni ciuffi avorio sfuggissero alle trecce per cadere spettinati sul viso. Edvokin trasalì. Un brivido corse lungo la schiena e schizzò attraverso i muscoli in una scarica che lo fece scattare in avanti.
«No, no, no!» Attraversò la stanza in lunghe falcate mentre Ingveld sollevava gonna e sottoveste fin sopra le ginocchia. Edvokin sentì le guance formicolare, lo stomaco attorcigliarsi mentre il cuore accelerava i battiti. «Hai perso il senno? Uno scandalo non sarà d'aiuto a nessuno di noi!»
Ingveld sbuffò una risata amara, stridula. «Oh sì. la notizia susciterà scalpore senza precedenti. Edvokin Metsiz, il libertino ribelle, approfitta del dolore di una madre in lutto per insinuarsi sotto le sue gonne.»
Sudore freddo colò lungo la nuca. Non diceva sul serio, non poteva farlo, non...
Ingveld tirò giù le braghe intime e le mani di Edvokin si mossero da sole, serrandosi attorno ai suoi polsi. «Fermati! Non c'è necessità di arrivare a tanto. Possiamo discuterne con calma.»
«Non c'è nulla di cui discutere. Drogos sarà qui a breve, chiamerà le guardie e tu avrai ciò che ti meriti.»
«Per favore, Ingveld. È una follia, consegnami la chiave.»
«Un uomo forte come te sarà di certo in grado di recuperarla da solo.» Ingveld cercò di spingere l'intimo oltre le ginocchia, ma Edvokin serrò la presa e la costrinse ad alzare le braccia. Lei allungò un sorriso soddisfatto, ciondolando la testa di lato. «Splendido! Se potessi anche lasciarmi qualche segno, sarebbe veramente perfetto.»
Edvokin sussultò, lasciando la presa per prendere le distanze. Se Drogos era il capo dei domestici, possedeva la chiave di riserva di tutte le porte; sarebbe potuto entrare in qualsiasi momento e, se l'avesse trovato con le mani addosso a Ingveld, sarebbe svanita persino la più remota possibilità di provare la sua innocenza.
Doveva andarsene da lì al più presto. Si voltò verso la finestra che concedeva l'accesso al giardino, chiusa dalla barra di sicurezza, e si precipitò ad aprirla. Ingveld avrebbe cercato di fermarlo, ma rimuovere quella chiusura era più semplice che sottrarle la chiave. Sarebbe uscito alla svelta, avrebbe attraversato il giardino e—
«Ti hanno visto entrare.» La voce di Ingveld era rilassata alle sue spalle. «La mia famiglia ti ha accolto, Drogos ti ha scortato in salotto. Pensi che non crederanno alle mie parole solo perché non sei più qui? Fuggire non è un comportamento che si addice a un innocente.»
Edvokin si fermò. Le mani tremavano mentre sistemava la barra al suo posto, perdendo ogni slancio. Quando si voltò, Ingveld era distesa sul divano, la gonna raccolta sopra le ginocchia e l'intimo che giaceva sul pavimento.
Era in trappola. Qualunque cosa avesse fatto, Ingveld avrebbe raccontato la sua versione e nessuno avrebbe osato contestare la parola di una donna – perché avrebbero dovuto? Era vero, l'avevano visto entrare. Erano rimasti soli in quel salotto con la porta chiusa a chiave. Lei era in condizioni indecenti e lui si era costruito una solida fama da seduttore. Il parere di amici e familiari che avessero osato difenderlo sarebbe stato considerato fazioso, e Alexiej... non poteva schierarsi contro sua moglie. Avrebbe insospettito chiunque sul perché.
«Ingveld...» Edvokin cercò di usare un tono calmo, ma la sua voce tremava. «Abbiamo poco tempo. La tua furia nei miei confronti è comprensibile, ma dev'esserci qualcosa che possa fare per rimediare.»
«Puoi resuscitare mia figlia?» Il suo sguardo si indurì di fronte al silenzio di Edvokin. «È tardi per rimediare.»
La maniglia della porta si abbassò in uno scatto secco, facendo traballare l'anta bloccata dal chiavistello. Il sorriso di Ingveld si allargò. Sfilò la chiave dalla tasca esterna e la lasciò cadere a terra.
«Aiuto!»
Edvokin crollò in ginocchio al suo fianco. «Ti prego, questo non risolverà le cose. Pensi che Alexiej ne sarà felice? Hai detto di tenere alla tua famiglia, ma così non farai che distruggere il vostro matrimonio ancora di più. Se lo hai a cuore—»
«Ormai l'ho perso.» Gli occhi si fecero vacui per un istante. «Non c'è più nulla da salvare.»
«Ti scongiuro, Ingveld» sospirò, privo di fiato. Un strascicare metallico lo informò che Drogos aveva infilato la chiave nella toppa. «Potrebbero condannarmi a morte.»
Lei alzò lo sguardo, asettica. «Lo dici come se non avessi già riflettuto a riguardo.»
Edvokin ansimò. Un capogiro gli appannò la vista mentre le forze lo abbandonavano, e si aggrappò al bracciolo del divano per non cadere. Schiuse le labbra ma non riusciva a parlare, non riusciva a muoversi, non riusciva neppure a respirare.
Drogos aprì la porta. Gli urlò contro qualcosa che non riuscì a sentire, poi qualcuno lo afferrò per le braccia e lo tirò su. Ingveld non lo guardava più, aveva coperto il viso con le braccia e singhiozzava, le gambe seminude strette al petto.
Qualcuno ordinò di chiamare le guardie mentre una damigella accorreva a coprire e consolare Ingveld, poi la realtà sfumò in colori indistinti e i suoni si ridussero a un lungo fischio tra le orecchie. Edvokin si lasciò strattonare e schiacciare contro la parete da chi l'aveva afferrato, i muscoli così intorpiditi che non riusciva più a sentire gli arti. Opporsi era inutile. Supplicare era inutile. E sperare di vedere un'ultima volta Alexiej, di sentire la sua voce prima che lo trascinassero in prigione, anche quello fu inutile.
La luce pallida che filtrava dalla feritoia rischiarava a malapena l'ambiente spoglio della sua cella. Uno stanzino angusto scavato nella pietra con un singolo giaciglio dietro le sbarre, senza neppure un tavolo o una qualche fonte di illuminazione. Edvokin se ne stava seduto a terra, la schiena appoggiata contro la parete umida e lo sguardo perso a fissare il vuoto. Non si mosse quando il cigolio della porta lo avvisò che qualcuno era entrato nel corridoio, ma tese l'orecchio quando riconobbe il suono di tacchi piatti accompagnare quello pesante degli stivali d'ordinanza.
«Edvokin!» Mari singhiozzò, afflosciandosi contro le sbarre.
«Cinque minuti» borbottò la guardia che era con lei, poi si allontanò e lo schianto della porta informò che li aveva lasciati soli.
«Mi dispiace, non mi hanno permesso di venire prima.» La voce di sua cugina tremava. Allungò un braccio verso di lui, anche se era troppo distante per raggiungerlo. «Ti hanno fatto mangiare? Beyled candida, ti hanno fatto bere? Volevo portarti io qualcosa, ma non me l'hanno permesso. Scoloriti uno più dell'altro!»
Edvokin accennò un sorriso. Si mise in piedi e afferrò la mano di sua cugina, sentendo il petto scaldarsi un poco. «Mari, ti giuro che non ho—»
«Non serve che tu lo dica, sono certa della tua innocenza come del calore del fuoco. Cos'è successo? Perché Donna Ingveld ti ha accusato?»
«Mi crede responsabile della morte di Krija, seppur in modo indiretto.»
«Ma è un'assurdità!»
«Il dolore deve averle annebbiato la mente, non ha voluto ascoltare ragioni.»
«E Alexiej? Non lo accetterà mai, saprà come farle comprendere che non hai nessuna colpa.»
«Non riporrei in questo la mia fiducia. Non lo faresti neanche tu, se avessi visto lo sguardo che Ingveld mi ha rivolto.» Edvokin gettò fuori un respiro stanco, appoggiando la fronte contro le sbarre. Il metallo ruvido era gelido contro la pelle, eppure neanche quello riuscì a smuoverlo. Anche la sua anima vestiva di grigio e il suo corpo era un castone vuoto, inutile senza la sua Pietra. «Trova il modo di parlare con Alexiej, Mari. Qualunque modo. Digli che lo amo, che il mio ultimo pensiero sarà per lui e che niente di tutto questo è accaduto per causa sua. Ti prego, deve sapere con certezza che sono stato io a pronunciare queste parole. Lesha non ha colpe, ho bisogno che possa crederci.»
Il viso di Mari perse colore mentre inspirava. «No. Glielo dirai tu stesso quando sarai libero. Non puoi arrenderti prima ancora del processo, non lo accetto! Troveremo una soluzione, lo facciamo sempre.»
«Mi giudicheranno colpevole, non vedo esito diverso da questo. Tutto è contro di me. Ci rifletto da quando mi hanno gettato qui dentro, e sai che lo faccio solo nelle situazioni disperate.» Abbozzò un sorriso, ma l'espressione di Mari non si ammorbidì.
«Scriverò a Brycen» decretò, e gli occhi blu si accesero di nuova speranza. «Pagherò Ilja perché consegni la lettera di persona. Lo farò partire stasera stessa, non impiegherà più di una settimana. Che ti condannino pure a passare qui dentro il resto dei tuoi giorni, non ha importanza: Chloe ti farà fuggire in uno schiocco di dita.»
«Una settimana perché ricevano la lettera e un'altra perché raggiungano Kholod» sospirò Edvokin. Aveva sempre adorato quella sfumatura nello sguardo di sua cugina, una risolutezza così brillante da colorare persino la pietra della prigione, ma non abbastanza da raggiungerlo. Non quella volta. «Forse i poteri di Chloe permetteranno loro di risparmiare uno o due giorni, ma l'hai sentita anche tu: non può viaggiare tanto a lungo senza riposare, e io non ho tutto questo tempo a disposizione. Ingveld mi vuole morto, farà il possibile perché ciò accada.»
«No. Dev'esserci qualcosa che possiamo fare per evitarlo.»
«L'unico modo che avrei per scagionarmi sarebbe rivelare di essere un invertito, ma è pur sempre la parola di Ingveld contro la mia. Data la situazione, potrebbero credere che l'abbia detto solo per evitare la pena di morte... O peggio, potrebbero decidere di effettuare delle indagini per accertarsene.»
«E in che modo sarebbe peggio? Spingi perché lo facciano! Qualunque cosa ti tenga in vita fino all'arrivo di Chloe andrà bene. Dobbiamo solo guadagnare tempo, l'esito è ininfluente.»
«L'esito potrebbe coinvolgere Alexiej. Chiamami sciocco, se ciò ti aggrada. Definiscimi pure un folle, ma non giocherò con la sua vita neanche per salvare la mia.»
Gli occhi di Mari divennero lucidi. Il respiro era così rapido da far vibrare il petto sotto l'abito indaco. «Edvokin...»
«Dì a Sevre che mi dispiace. Digli che non avrei mai voluto abbandonarlo, che è il miglior fratello che potessi desiderare.» Afferrò entrambe le mani di sua cugina, stringendole al petto. «Dì a Brycen che non ho trascorso giorno senza ringraziare Beyled per aver intrecciato la mia vita alla sua. Dì ad Alexiej che mi ha reso più felice di quanto riuscirò mai a esprimere, e che se posso morire senza rimpianti è solo merito suo.»
La porta si aprì in un cigolio lugubre, e il suono di pesanti passi trascinati riecheggiò lungo il corridoio. Mari si gettò in avanti e lo abbracciò nonostante le sbarre, stringendosi a lui quanto poteva. Ignorò un secondo richiamo della guardia e schiacciò la fronte contro il suo petto mentre si aggrappava alla sua giacca.
«Non voglio» gemette, un sussurro appena udibile. «Non è giusto, non... Ci dev'essere un modo. Chiederò che ti venga assegnata la miglior avvocata di Kholod, riusciremo a evitarti l'esecuzione.»
«Tempo di andare» ordinò la guardia, ma sua cugina si strinse ancora di più a lui.
«Mari...»
«Non dirlo. Questo non è un addio. Parleremo fuori da qui, quando potrò abbracciarti come si conviene. Non ti ascolterò prima di allora.»
Si alzò sulle punte per baciargli una guancia, poi sgusciò via dal suo abbraccio. Il profumo di limone che permeava i suoi capelli restò con Edvokin anche quando si fu allontanata, e così l'ultimo sorriso che gli regalò prima di voltarsi.
Si va di bene in meglio ✨
Ingveld ha intuito che Alexiej avrebbe cercato di mettersi in contatto con Edvokin e ha intercettato il suo messaggio, facendogliene ricevere uno in cui lo invitava a casa così da approfittare dell'assenza di suo marito per incastrarlo :')
Nel contesto zimeo Edvokin è più che spacciato in questa situazione, Ingveld ha il coltello dalla parte del manico in quanto donna e in più tutto il contesto non volge a suo favore. Che la giustizia zimea lasciasse abbastanza a desiderare si era intuito in Bluebird, ma ora avremo modo di vederla in azione!
Curiosi di assistere al processo? Quando sarà ridicola la giurisdizione zimea da 1 a "sotto i 10 secondi non è molestia"? Còff, scusate, dicevamo.
Come spero si possa intuire, il reato di stupro è più grave dell'essere gay (ma solo se la vittima è una donna, che ve lo dico a fare), ma è chiaro che la morte sia in entrambi i casi la pena massima, ad esempio dire di essere omosessuali e dire di avere una relazione omosessuale hanno un peso differente e non è detto che ogni caso finisca con la morte. Edvokin però sa che Ingveld farà di tutto per ottenere la sentenza peggiore, senza contare che tutto ciò sarebbe avvenuto in casa sua, durante il periodo del lutto e venendo meno alle regole dell'ospitalità, tutte graziose aggravanti che non aiutano molto xD
Spero di essere riuscita a delineare Zima abbastanza bene da far comprendere bene tutta la questione e soprattutto che riesca a risultare credibile nel contesto :')
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