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Capitolo 14 - Inimmaginabile

«Se non tornerai per il mio matrimonio, ti taglierò i capelli così corti che non si comprenderà neppure di che colore siano.»

Mari passò le dita tra le ciocche sciolte di Edvokin. Lui rise e si stravaccò sul divano su cui erano seduti, sorseggiando il nalewka rimasto nel bicchiere.

«E per il mio compleanno!» Sevre picchiettò contro la spalla di suo fratello perché lo guardasse. «Se oserai mancare, sarai il primo che sfiderò a duello con la mia nuova shashka

Edvokin sghignazzò. «E come potrei perdermi gli eventi più interessanti del nuovo anno? Non temete, chiedere permesso per quelle date sarà la prima cosa che farò dopo essermi arruolato – perciò sarà bene che tu e Gavriil vi affrettiate a definire il giorno delle nozze, cugina.»

«È già definita, sarà il trentacinque del mese Giallo.»

«Ma zia Jlenna—»

«Il trentacinque del mese Giallo. Se lo farà andare bene.»

Mari si allungò verso la bottiglia, ma Sevre scattò in piedi e si precipitò ad afferrarla per riempirle il bicchiere.

«Grazie, ma quando siamo soli non è necessario, posso servirmi da sola.» Addolcì il tono mentre sorrideva, sfiorando la guancia del cugino in un buffetto. «Sei un vero diamante. Mi domando chi ti abbia cresciuto così bene.»

Gli rivolse uno sguardo eloquente e continuò a fissarlo mentre beveva. Edvokin avrebbe voluto dire che era esagerato affermare che l'avesse cresciuto, dato che era solo un ragazzino alla sua nascita. Avrebbe voluto dire che aveva ereditato la sua integrità morale da Brycen, non certo da lui, e che era stata Zenaida a influenzare il suo senso di giustizia. Avrebbe voluto dire che non aveva fatto altro che essere presente quando ne aveva bisogno, perché almeno lui sapesse che non era solo, che c'era qualcuno tra i suoi parenti più stretti che lo amava davvero. Avrebbe voluto, ma sua cugina sembrò leggergli nella mente e strinse gli occhi, fulminandolo con uno sguardo tanto intenso da zittirlo prima ancora che aprisse bocca.

Sevre inclinò la bottiglia verso di lui, ma Edvokin scosse il capo e gli lasciò il bicchiere vuoto perché lo posasse sul tavolino.

«Stai ancora male?»

«Sto a meraviglia, ma temo che farò meglio ad abituarmi quanto prima a bere responsabilmente.» Edvokin arricciò il naso in una smorfia. «Che parola orribile. La donna che l'ha inventata deve aver avuto una vita miserabile.»

«Una vita morigerata» lo corresse Mari. «Dovrai abituarti anche a questo. Colori, la sola idea di vederti con i capelli acconciati è così buffa!»

Edvokin rise con lei, osservandola mentre scherzava con Sevre sulle cattive abitudini di cui si sarebbe presto dovuto liberare per arruolarsi. Nessuno dei due lo vedeva bene in quel ruolo, ma l'avevano appoggiato e più ne ridevano più quel compromesso sembrava gestibile.

Sentiva il petto leggero, rinvigorito da un ottimismo che non aveva bisogno di simulare. Quello non era il futuro che avrebbe sognato, ma lo rendeva felice nonostante gli ostacoli che avrebbe dovuto superare. Quand'era l'ultima volta che era successo? L'ultima volta in cui aveva pensato al domani e si era detto impaziente di raggiungerlo. Alexiej era davvero riuscito nell'impossibile: gli aveva donato speranza, la voglia di muoversi in avanti e la sicurezza che sarebbe riuscito a farlo. In cambio avrebbe dato tutto se stesso, avrebbe messo tutto il suo impegno, avrebbe...

«Cugini.»

Edvokin alzò gli occhi, trovando Zenaida in piedi sull'uscio del salone. Aveva lo sguardo mesto e il tono docile, una postura morbida che mancava della sua solita autorevolezza.

«È appena giunta la comunicazione di un funerale che si terrà questo pomeriggio. La nonna richiede che andiate tutti a indossare gli abiti del lutto, ci recheremo al santuario dopo pranzo.»

Il divertimento abbandonò i volti di Mari e Sevre, che sedettero composti.

«Chi è deceduto?» chiese lei, posando con garbo il bicchiere sul tavolo.

«La Donzelletta Krija Dimiekov.»

No.

No, no, no.

Edvokin smise di respirare. La figura di sua cugina sfumò davanti ai suoi occhi mentre il silenzio gli riempiva le orecchie.

«Dev'esserci un errore» mormorò, così lieve che udì la sua voce a malapena. Sentiva solo la pelle formicolare, la testa leggera come se fosse sul punto di svenire. «È solo una bambina. Zenya...»

Lei abbassò lo sguardo. «Mi dispiace. Ho sentito dire che non era in salute da mesi e...»

Le sue parole si persero, soffocate dalla risata allegra di Krija nei suoi ricordi.

Lo zio! Cosa mi hai portato, oggi?

L'aveva esclamato con un entusiasmo tanto genuino da farlo ridere. I suoi occhi erano così pieni di vita, la sua espressione così gioiosa mentre stringeva al petto la lepre che le aveva regalato.

Non era vero. Non poteva essere vero. Sarebbe dovuta guarire entro la primavera, lui sarebbe passato a trovarla prima di partire per offrirle un nuovo dono, e Lesha...

Lesha. Oh, Dea, Lesha.

L'angoscia gli squarciò il petto, trapassandogli il cuore. Sentì la mano di Mari posarsi sulla sua, Zenaida che diceva qualcosa riguardo alla sua amicizia con il padre della piccola, ma era troppo da sopportare. Troppo rumore, troppa luce, troppo vuoto. Era tutto troppo.

Scattò in piedi e abbandonò il salone in silenzio.



Il santuario era immerso in una monocromia gelida. Nessun drappo a oscillare tra le colonne, nessun intreccio floreale a decorare le sedute. Mancavano persino le Pietre di Sihir per il riscaldamento, poiché a nessun colore era concesso brillare nella morte.

Avvolti nei loro cappotti grigi, i presenti tenevano gli sguardi malinconici sul piccolo sarcofago di pietra bianca al centro della sala, i castoni per le gemme ancora vuoti. Edvokin si rigirava la sua tra le dita guantate, una piccola Pietra di Sihir poco più grande di un'unghia. Persino le famiglie più ricche le riservavano solo ai parenti, ma non gli importava. Che pensassero ciò che volevano, che diffondessero qualunque pettegolezzo fosse venuto loro in mente. Avrebbe donato ciò che aveva di più prezioso, avrebbe rivestito da solo l'intero sarcofago se fosse servito ad alleviare il dolore di Alexiej.

Lo cercò con lo sguardo, trovandolo al fianco di sua moglie e dei familiari di lei. Non poteva voltarsi, ma Edvokin non credeva che l'avrebbe fatto in ogni caso. Teneva gli occhi spalancati fissi davanti a sé, vuoti come la sua espressione. Ingveld singhiozzava, soffocando il pianto in un fazzoletto di stoffa, ma le lacrime erano un privilegio per le donne. Da Alexiej ci si aspettava che restasse stoico, la roccia che avrebbe sorretto sua moglie facendosi carico della sua sofferenza affinché lei potesse sfogare il suo dolore. E lui era lì, immobile, come se la vita avesse abbandonato anche il suo corpo.

Sua figlia era morta e non gli era neppure concesso di piangere. Sua figlia era morta e Edvokin poteva solo guardarlo da lontano e incastonare una stupida pietra nella tomba.

Mari si aggrappò al suo braccio quando le Sacerdotesse fecero il loro ingresso senza musica e canti, avvolte in lunghe vesti di un grigio slavato. Lo accarezzò piano, ma Edvokin non riuscì a rilassare i muscoli o a smettere di stringere i denti, che era l'unica cosa che lo tratteneva dal correre verso Alexiej per abbracciarlo.

L'avrebbe fatto, se fosse servito a qualcosa. L'avrebbe fatto e che scolorisse tutto il resto.

Chiuse gli occhi, stringendosi al fianco di sua cugina mentre inspirava piano. Avrebbe creato più problemi di quanti ne avrebbe risolti, lo sapeva, ma sentiva quel desiderio bruciargli la carne.

Si alzò in piedi per inerzia quando le Sacerdotesse cominciarono a parlare, prima all'unisono e poi una alla volta, brevi interventi alternati a sette secondi di silenzio. Finalmente, invitarono i presenti a porgere le loro offerte per il sarcofago. Edvokin attese che i parenti più prossimi ai Dimiekov si avvicinassero per primi – gli uomini che avevano lasciato la famiglia dopo il matrimonio e i congiunti di quelli che, come Alexiej, erano entrati a farne parte – poi sgusciò via dalla presa di sua cugina, ignorando il richiamo di sua madre per attraversare la navata.

«Donna Ingveld, Don Alexiej.» Sfilò il cappello per liberare le ciocche intrecciate e chinò il capo verso di loro. «Mi rincresce per la vostra perdita.»

Un lampo d'ira accese gli occhi di Ingveld quando si voltò. Strinse il fazzoletto così forte tra le dita da farle tremare, e dal modo in cui serrò le labbra sottili Edvokin capì che si stava sforzando di non parlare, forse di non urlare. Alexiej si rianimò un poco quando incrociò il suo sguardo, e prese fiato come se l'avesse trattenuto fino a quel momento. Lo fece anche Edvokin, e il kam che li separava non gli era mai sembrato uno spazio tanto grande.

«Sappiate che vi sono vicino in questo momento di dolore.» Aprì il palmo per offrire la Pietra di Sihir, senza smettere di guardare Alexiej. Pregò che almeno i suoi occhi suggerissero ciò che non poteva dire, ciò che non poteva fare. Pregò di riuscire a dargli almeno un po' di conforto. «Chiedete e vi sarà dato. Chiamate e verrò in soccorso. Di qualunque cosa abbiate bisogno, io— la mia famiglia sarà lieta di tendervi una mano.»

«Avete già fatto a sufficienza» sibilò Ingveld, afferrando la Pietra con troppa irruenza.

Edvokin la lasciò fare. Tenne gli occhi fissi in quelli di Alexiej e cercò di scorgere i suoi pensieri nella sua espressione. Vide le sue labbra tremare e accennare un sorriso amaro prima di chinare il capo. Non parlò, forse non riusciva a farlo, ma era sufficiente.

«Qualunque cosa» ripetè Edvokin. Indossò il cappello e in un ultimo cenno si congedò, liberando la via per le altre offerte.



«Colori, siamo proprio costretti a mantenere il silenzio?» Karamilla sbuffò mentre affondava il cucchiaio nella zuppa.

Edvokin non aveva toccato la sua. Non aveva raccolto le posate né sfiorato il bicchiere, anche se Gavriil – che non aveva lasciato il fianco di Mari dopo il funerale – gliel'aveva già riempito.

«È giorno di lutto» ricordò Zenaida. Di certo le aveva scoccato un'occhiataccia delle sue, ma Edvokin non aveva voglia di alzare lo sguardo per controllare. «E abbiamo un ospite a cena.»

«Figurarsi se nel terzo anello si preoccupano di rispettare simili convenzioni. Ho sentito dire che ai funerali offrono dei miseri quarzi, fossi in loro mi vergognerei tanto da uscire a volto coperto. Gavriil, voi che gemma avete donato ai Dimiekov, oggi?»

«Donzel Gavriil» la corresse Mari a denti stretti. «E la questione non ti riguarda.»

«Oh, beh. Se anche fosse stato un diamante, avrebbe sfigurato di fronte alla scelta del mio caro fratello. Una Pietra di Sihir, nientemeno! Edvokin, dicci, a cos'è dovuta la tua generosità?»

Edvokin inspirò a fondo, cercando di ignorare il formicolio che correva lungo la pelle. Sua sorella aveva un tono così acuto e indisponente da graffiare le orecchie. «È giorno di lutto, Karamilla. Non dovremmo parlare.»

«Come se tu non parlassi ogni volta che non si dovrebbe fare» bofonchiò Javok.

«E cos'è questa storia del qualunque cosa?» si intromise sua madre. «Volevo discuterne domani, ma oramai stiamo parlando. Come ti viene in mente di offrire il supporto della famiglia senza consultarci?»

«Ai Dimiekov, per di più.» Karamilla fece cenno a Jakov perché le riempisse il bicchiere, e lui eseguì subito. «Non esiteranno a chiedere un prestito, ne sono certa. Pare che siano talmente sul lastrico che non mi stupirei se vendessero ogni gemma ricevuta quest'oggi.»

«Krija era una bambina» ringhiò Edvokin. Gli occhi bruciavano quando li sollevò verso sua sorella, che sfoggiava un tale sogghigno da fargli ribollire il sangue. «Non hai un minimo di rispetto?»

«Che esagerazione! Si parla del suo malessere da quando sono stata confinata in casa, di certo non si tratta di una tragedia inattesa. Giovani come sono, i suoi genitori non avranno difficoltà a farne un'altra.» Karamilla alzò le spalle mentre sorseggiava la sua vodka. «E quale maestosa impresa ha compiuto, passando a miglior vita! A quanto pare, era necessario che morisse una pargoletta perché mio fratello si convincesse ad acconciare i capelli come si conviene. Non è splendido? Pur nella sua giovane vita, potrà dire di essere stata utile in qualcosa.»

Edvokin battè un pugno sul tavolo, facendo tintinnare l'argenteria. Scattò in piedi e le gambe si mossero da sole in lunghi passi attorno al tavolo. Aveva il corpo in fiamme, i muscoli urlavano per la necessità di muoversi e il disgustoso sorriso di sua sorella era l'unica cosa che riusciva a vedere. Si accorse che i suoi parenti lo stavano chiamando solo quando suo padre gli tagliò la strada, incitato da sua madre che gli ordinava di fermarlo.

«Torna a sedere, Edvokin» lo rimproverò Olga, una mano protesa a protezione della figlia. La sua voce era ferma, ma aveva il volto arrossato e lo fissava con gli occhi spalancati. «Il tuo comportamento è inaccettabile, stai facendo sfigurare la famiglia davanti a un ospite.»

Edvokin non rispose. Guardò suo padre, che dallo sguardo sembrava solo annoiato, poi si spostò su Karamilla. Sua sorella sghignazzava ancora, spaparanzata sulla sedia.

«Tra tutte le persone di cui desidero la morte, prego Beyled affinché tu sia quella a soffrire di più» soffiò Edvokin, sporgendosi oltre il fianco di suo padre. Liev alzò un braccio solo quando Olga lo chiamò per nome, così flscio che bastò fare un passo avanti per superarlo. «Rimpiango solo di non poterlo fare con le mie stesse mani.»

Ignorò i richiami e i borbottii alle sue spalle mentre abbandonava la sala. Sentì Mari chiamarlo e corrergli dietro, ma proseguì senza voltarsi fino alla sua camera. Non tentò neppure di chiudere la porta, lasciò che sua cugina lo seguisse in stanza insieme a Gavriil mentre lui vagava in passi pesanti attorno al letto.

«Edvokin...»

«Sua figlia è morta! Dovrei essere al suo fianco, e invece sono costretto ad ascoltare quella scolorita di mia sorella che non ha neppure la decenza di rispettare il lutto!»

«Lo so, mi dispiace. Mi dispiace tanto.»

Mari parlò a bassa voce, addolcendo il tono mentre si avvicinava. Gli accarezzò un braccio, ma Edvokin sfuggì alla sua presa. Non riusciva a stare fermo. Sentiva fremere ogni muscolo, il cuore batteva così forte che il respiro non era in grado di stargli dietro.

«Mi sembra di impazzire. Non so come sta adesso, cosa sta facendo, se è riuscito a mangiare qualcosa. Colori, non so quando è successo! Io me ne stavo qui, sereno, mentre lui...» Un singhiozzo divorò il resto delle parole. Si passò una mano sul viso, massaggiando la fronte che le trecce tenevano tesa all'indietro. «Non ha neanche potuto piangere. Sua figlia è morta e non poteva piangere, e io non potevo fare nulla, non potevo... Dea! Dovrei essere con lui, adesso! Ha bisogno di me e io sono bloccato qui, e quella serpe può prendersi gioco del suo dolore mentre io non posso neanche dire che lo amo!»

Gavriil si irrigidì. Spalancò gli occhi e boccheggiò sillabe confuse prima di abbassare lo sguardo, tormentandosi le dita. «Io... Forse dovrei andare via.»

«Vuoi andare via?» Edvokin si fermò davanti a lui, torreggiandolo. Gavriil incassò ancor di più la testa nelle spalle. «Non ho le forze per fingere. Hai sentito bene, sono innamorato di Alexiej Dimiekov. Se la cosa ti crea problemi, puoi trovare da solo l'uscita.»

Non era il modo in cui sperava di farglielo sapere. Avrebbe preferito che gliene parlasse Mari, come credeva avesse già fatto, ma era tardi per curarsene. Adorava Gavriil, era tra i pochi a poter chiamare amico, ma il tumulto che gli scuoteva il petto era troppo grande per darsi pena anche di quello.

«Gavriil. Gavrushka.» Mari afferrò le mani del suo promesso. «Non devi dirlo a nessuno.»

«Non lo farei mai, io...» Deglutì. Alternò lo sguardo tra Mari e Edvokin, ma senza guardarlo negli occhi. Quando finalmente ci riuscì, aveva il viso paonazzo e dovette schiarirsi la voce prima di riuscire a parlare. «Sono in debito con te, non l'ho dimenticato. E non ho dimenticato neanche tutto il resto, io... Scusa. Non intendevo... Scusa. È stupido. Sono stupido.»

«Se questo vuol dire essere stupidi, allora vorrei che lo fossero tutti.» Edvokin gettò fuori un sospiro denso, sentendo i muscoli rilassarsi un poco. Aprì la vetrinetta e afferrò una bottiglia senza curarsi del contenuto, scoprendo che si trattava di vodka speziata solo quando cominciò a bere. «Non ho intenzione di tornare in sala. Devo uscire da qui, devo andare da lui.»

«Non puoi presentarti a casa sua senza invito.» Mari afferrò la bottiglia per il collo e la spinse lontano dalle sue labbra. «E non puoi invitarlo fuori durante il periodo del lutto. Per favore, Edvokin. Non fare nulla di avventato, peggioreresti solo le cose.»

«Non ho intenzione di lasciarlo da solo. Devo almeno recapitargli un messaggio, devo—»

«Non lo accetteranno, non oggi. I domestici lo rispediranno indietro senza neppure leggere a chi è destinato, e i Dimiekov ne saranno offesi.»

«Che scoloriscano queste regole prive di senso!» Lasciò la presa sulla bottiglia e a Mari per poco non cadde dalle mani.

Aveva ragione, ma quella consapevolezza faceva ardere ancor di più la sua rabbia. Sapeva che prendere l'iniziativa avrebbe generato scalpore, anche se si fosse limitato a un semplice biglietto di condoglianze. Sapeva che l'unica cosa che interessava la città era che venisse rispettata l'etichetta, che sarebbero stati pronti a lamentare ogni mancanza, a spettegolare su qualsiasi indiscrezione. La stessa gente che chiamava Brycen mostro e lui contro natura non era in grado di mostrare empatia neanche di fronte alla morte.

Forse era un bene che fosse stato suo cugino a risvegliare il Respiro di Beyled e non lui. Brycen avrebbe dato la sua vita per salvare Zima; Edvokin, piuttosto, avrebbe congelato tutti.

«Donzel Edvokin?» La voce sottile di Ilja si udì a malapena, e così i colpi di nocche che batté contro il legno. «È permesso? È giunto un messaggio per voi, ma è anonimo. Chi l'ha recapitato non era—»

Edvokin aprì la porta con tale irruenza che il domestico balzò all'indietro. Afferrò il biglietto che stringeva tra le dita, un banale foglio ripiegato con poche rune vergate con una calligrafia che avrebbe riconosciuto ovunque.

Raggiungimi dove sai.

«Grazie, Ilja.» Accennò un sorriso verso di lui, poi cercò lo sguardo di sua cugina. «Mari—»

«Vai. Dirò che avevi necessità di una passeggiata per placare il nervosismo.»


Edvokin non ricordava di aver mai cavalcato con tanta impazienza, nel galoppo più sfrenato che il suo shire riusciva a sostenere. Si fiondò giù dalla sella appena raggiunse il bivacco, legò in fretta le redini al palanchino e si precipitò all'interno.

Lo sguardo di Alexiej si illuminò quando lo vide. Aveva i capelli rossi legati in una semplice coda, gli abiti grigi che aveva indossato al funerale e gli occhi arrossati.

«Scusami» mormorò, la voce incrinata. «So che è un rischio, ma—»

Edvokin lo circondò con le braccia e lo strinse a sé. «Non pensarci. Sono qui, adesso, tu sei tutto ciò di cui mi importa.»

Alexiej si aggrappò al suo cappotto, il viso abbandonato sulla spalla mentre prendeva fiato tra i singhiozzi. «Era una bambina. Dea, era solo una bambina, perché...?» Le parole morirono in un singulto. «Stava meglio. La dottoressa ha detto che stava meglio, lei... lei... Non ho potuto fare niente. Era tra le mie braccia e potevo solo... Stava soffocando. La mia perla. La mia dolce, piccola perla. Era tra le mie braccia e l'ho lasciata morire.»

«Hai fatto il possibile, ne sono certo.» Deglutire non scacciò il magone che gli rendeva difficile parlare. Ogni respiro spezzato di Alexiej incideva un solco nel suo stomaco, tremava stretto al suo petto e a lui mancava il fiato. «Eri con lei, questo è ciò che conta. Ha potuto vedere suo padre. Se n'è andata sapendo di non essere sola, di essere amata.»

Lui però scosse il capo. «Non c'ero. Stava male quando non ero in casa e io non c'ero, io... È colpa mia, Edvik? Ho ucciso mia figlia?»

«No! No, no, Lesha... Guardami. Lesha, ti prego, guardami.» Gli prese il viso tra le mani e lo sollevò, ancorando il suo sguardo al proprio. Gli occhi nocciola erano acquosi, opachi, e sembrarono vedere Edvokin per la prima volta mentre lui asciugava le lacrime che bagnavano le guance. «Non hai fatto nulla di sbagliato, non può essersi ammalata per questo. Forse è il contrario, forse stava sempre male e vedere te la faceva stare meglio – no, sono certo che sia così. Krija ti amava, ti amava perché sei un buon padre. Non è colpa tua, Lesha. Non è colpa tua.»

Alexiej gettò fuori l'aria in un gemito di dolore e crollò tra le sue braccia in lacrime. Edvokin lo accolse e lasciò che si sfogasse, accarezzando piano i suoi capelli. Gli sussurrò il suo conforto, pianse con lui nel silenzio del bivacco, lo strinse al petto mentre gli spasmi del suo cordoglio gli scuotevano il corpo e i singhiozzi gli impedivano di parlare.

Come si superava l'inimmaginabile? Non ne aveva idea. Riusciva a percepirlo, che il vuoto negli occhi di Alexiej non regrediva col passare del tempo, neanche quando il pianto cominciò a placarsi e si esaurirono sia le parole che le lacrime. Edvokin si accucciò con lui sul giaciglio, cullandolo mentre riprendeva fiato. Non sarebbe stato sufficiente, ma pregò che fosse almeno qualcosa. Che riuscisse a renderlo almeno un po' più tollerabile. Che anche Alexiej sapesse che non era solo, che era amato. Che avrebbe attraversato l'inimmaginabile al suo fianco, e avrebbe fatto di tutto pur di non farlo sprofondare.



Reference a Hamilton per il titolo? Naturalmente sì.

Dopo la chiusura dello scorso capitolo non potevamo che sprofondare nella tristezza ç_ç Lo scorcio di felicità di Edvokin dura ben 0.3 secondi prima di schiantarsi contro la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire :(

Può solo immaginare quanto stia soffrendo Alexiej in questo momento, e la cosa peggiore è che non può stargli accanto come vorrebbe e la cosa lo sta facendo impazzire. 

Se poi ci si mette anche Karamilla con la famigliola a seguito... Chi ha letto Bluebird non è nuovo ai MERAVIGLIOSI DISCORSI che i Metsiz tirano fuori, ma questa volta Edvokin non è davvero dell'umore giusto per sopportarlo. Io comunque sfido chiunque a non quotare le sue parole, còff.

Alexiej dovrebbe starsene rintanato in casa per il lutto, ma la necessità di vedere Edvokin è più forte e lui è pronto a offrirgli tutto il suo supporto ç_ç Sì, la scena l'ho pensata e scritta io, però mi fa male vederlo così, SOB ç__ç

Ad ogni modo... C'è qualcosa, tra le righe, che forse vi è sfuggito o forse no. Diciamo che non è neanche molto tra le righe, ma se non avete ancora ipotizzato nulla... Beh, ci vediamo al prossimo capitolo per scoprirlo! 

PS: Però, oh, che figo è il sarcofago tempestato di gemme? 

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