Capitolo 1 - Solitudine
Ocean
Solitudine.
Una volta ho provato a cercare sul vocabolario il significato del termine.
La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura.
C'è stato un tempo in cui ero solo dentro e fuori.
Con una famiglia assente anche se fisicamente presente.
Adesso che ho qualcuno che sembra tenere veramente a me, invece, rifuggo quell'affetto.
Abbraccio la solitudine.
Perché per conto mio sto meglio e perché sono solo anche ad una festa piena di gente.
Ho molti amici, apparentemente. Qui alla University of Miami chiunque mi conosce.
Molti mi amano, altri mi odiano. Qualcuno è talmente soggiogato dal mio potere che pende dalle mie labbra, qualunque cosa io faccia.
Poi ci sono quelli che mi temono perché non esiste cattivo più cattivo di me.
So essere perfido, crudele. Amo giocare con le loro piccole menti e annientare la loro autostima.
So dove colpire. Dove fa più male, così come sono stato colpito io.
Trovo i loro punti deboli e mi ci aggrappo per farli sentire delle nullità, per scavare come un tarlo nelle loro sofferenze.
Lì, dove il dolore che si sente è atroce.
E non parlo di dolore fisico, no! Quello è niente.
Parlo di dolore vero, profondo. Un dolore che attanaglia l'anima e spacca il cuore.
Qualcuno mi domanda come possa, io, essere in questo modo.
Ho una famiglia ricca alle spalle che mi ha adottato quando avevo solo quattordici anni e mi ha dato tutto.
Ha provato a rimettere insieme i miei pezzi senza sapere che ormai ero irrimediabilmente perso.
Quei pezzi non combaciavano più; qualcuno era andato perso e qualcun altro bruciato insieme all'appartamento della mia famiglia d'origine.
Le hanno provate tutte, con me.
Non ho voluto nemmeno il loro cognome, preferendo tenere, nonostante quanto accaduto, quello del mio defunto padre.
Ho abbracciato solo ciò che era materiale e ho ricusato ogni forma di bene.
Mi sono preso la casa con la piscina in cui ho abitato, l'appartamentino in cui vivo ora, al campus, molto più grande dei dormitori dei miei amici. Ho accettato gli oggetti sfarzosi, i vestiti di grandi marchi, la moto e le tre automobili di grandi case che mi hanno regalato.
Cazzo, impazzisco per i miei motori!
Una Ducati, un Ferrari, una Maserati e una Lamborghini. Quattro meravigliosi bolidi.
Mi danno potere, mi fanno sentire forte.
Il mondo è nelle mie mani.
Quelle mani che, un tempo, erano fragili e insicure.
Quelle mani che hanno parato colpi di ogni tipo.
Schiaffi, pugni, calci.
Quelle mani che, oggi, sono bramate da tutte le ochette del college e che potrebbero far male seriamente a chiunque provi a farmi girare le palle.
E qui, adesso, in questo preciso istante, mentre cammino a passo svelto nel parco del campus, non mi pento di essere come sono.
Se faccio un bilancio della mia vita di merda, è il minimo. È già un miracolo grandissimo che io non abbia ucciso qualcuno a sangue freddo.
Eppure hai ucciso, Ocean! Hai ucciso chi ti ha messo al mondo!
Scuoto il capo con nervosismo e ricaccio indietro i pensieri negativi.
Prendo il cellulare dalla tasca e accendo la fotocamera per controllare che il mio aspetto sia a posto.
Studio il mio volto, come sempre... come se avessi paura di non riconoscermi più.
Gli occhi chiari che danno un'aria angelica contrastano col mio aspetto da bad boy patentato.
Piercing al naso, tatuaggi che ricoprono ogni parte del mio corpo, perfino il collo, e capelli scuri come la pece che rispecchiano perfettamente il mio perenne stato d'animo.
Sbatto gli occhi e ricordo le parole di mia madre, anche se non voglio.
Parole che dopo tutti questi anni fanno ancora un male cane.
"Ti ho dato questo nome, bambino mio, perché i tuoi occhi sono azzurri come il mare e perché il mio amore per te è grande quanto l'oceano".
Già, peccato che fossero solo belle parole e niente di più.
Peccato che non abbiano mai corrisposto alla realtà.
Rimetto il cellulare in tasca e rifuggo ancora certi pensieri.
Pensieri che mi giudicano, che mi mortificano, che mi fanno del male.
Pensieri che vorrei annientare come è stata annientata la mia vita.
«Ciao, Ocean».
Mi volto di tre quarti e scopro il viso di Arabella Newton, una delle cheerleader della squadra del nostro college.
«Ciao, Bella. Che vuoi?» rispondo malamente, continuando a camminare.
Mi insegue, provando a stare al mio passo, e continua a parlare, anche se affaticata.
«Io, niente, volevo solo... provare a capire se avevi... ti fermi un attimo, per favore?» chiede, rimanendo un passo indietro .
Tiro un profondo sospiro spazientito e mi blocco, guardandola negli occhi.
«Non è giornata, Bella. Ho un compito del cazzo da recuperare e ho un mal di testa assurdo perché mi sono svegliato col piede storto, quindi vedi di sparire!».
Provo a fare un passo, ma lei mi ferma, parando una mano sul mio petto.
«No, tu adesso aspetti».
La guardo con aria torva, ma lei non si lascia intimorire e continua a parlare.
«Speravo che potessimo parlare di... di ieri sera e... di quello che ci siamo detti».
«Ti riferisci a quanto mi hai confessato in auto, dopo che ti ho sbattuta per circa un'ora?» chiedo, alzando il sopracciglio e lei annuisce infastidita, colpita dai miei modi rozzi.
Faccio un altro bel respiro per avere la forza e la pazienza di stare ancora dietro a questa rompi coglioni.
«Da quanto mi conosci, Bella?» le chiedo e lei sorride.
«Dal primo anno» risponde.
«E quante volte, seguendo i miei tempi e modi, ovviamente, siamo andati a letto insieme?» incalzo, sperando di spazientirla tanto da farle girare i tacchi e sparire dalla mia vista.
«Beh... non le ho contate, ma... parecchie.»
«Parecchie, brava. E dimmi, c'è stata forse una volta, anche una sola singola volta in cui io ti abbia lasciato credere che potesse esserci di più?»
Si stringe nelle spalle, il suo viso si rattrista.
«No, ma... pensavo che col mio discorso di ieri... insomma... Ocean, adesso è diverso. Io sono diversa. I miei sentimenti sono cambiati!» ribatte risentita.
«E non è un mio problema. Se non sei in grado di tenere a bada questi... sentimenti, come li chiami tu, fatti fottere da qualcun altro, ma non pensare di piagnucolare sulla mia spalla perché dopo che hai preso in bocca il mio uccello io non ti porto a cena fuori!»
Mi molla uno schiaffo che paro.
La sbatto contro un albero e le vomito addosso la mia rabbia.
«Prova una sola volta ad alzarmi un'altra mano addosso e ti farò pentire di essere nata.»
«Davvero? E che cosa vuoi fare, sentiamo!» mi sfida.
Piccola puttanella che non sei altro, forse hai dimenticato chi ha il potere di distruggere l'altro qui!
«Ti rammento che mi hai mandato una sfilza infinita di foto che ti ritraggono completamente nuda e video in cui ti tocchi gridando il mio nome. In più, se ben ti ricordi, ci siamo filmati parecchie volte, quando lo abbiamo fatto, per cui...».
Mi fissa inorridita.
«Sai, non vorrei dover girare tutto all'intera università. Anche perché se poi questo materiale arrivasse nelle mani di paparino... beh, non credo avresti ancora lunga vita qui dentro. E forse anche fuori!»
«Non oseresti!»
«Sfidami!»
Bella abbassa lo sguardo preoccupata e io la lascio andare.
«E adesso levati dalle palle e non farti più vedere!»
Ha le lacrime agli occhi. Il suo dolore è la mia linfa vitale.
Se le asciuga alla bell'e meglio e scappa via, correndo più lontano possibile dal sottoscritto.
Sorrido e riprendo il mio cammino.
Non mi farò calpestare più da nessuno.
Non in questa vita!
Eccoci qui con il primo capitolo di questa storia!
Che ne pensate ragazze?
Io già impazzisco 😅
Ocean mi darà un gran bel da fare!
È un bullo della peggior specie, ma nasconde un passato pesantissimo che verrà fuori dettagliatamente nel tempo.
Si farà odiare da morire, vi avviso già, ma vi assicuro che dopo sarete capaci di perdonarlo.
Vi abbraccio, lasciandovi due belle immagini dei prestavolto dei protagonisti, e vi aspetto nei commenti 😊❤️
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