3. Living in a nightmare
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"Le anime più forti sono quelle
temprate dalla sofferenza. I caratteri più
solidi sono cosparsi di cicatrici."
- Khalil Gibran
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Erano le 7:30, e io mi ero svegliata con la stessa voglia di affrontare la giornata con cui un gatto affrontava un bagno: nessuna.
I raggi del sole filtravano dalla finestra con un entusiasmo che io mi sarei soltanto sognata.
Chi aveva deciso che il sole dovesse sorgere così presto? E soprattutto, perché nessuno l'aveva fermato?
Con uno sforzo sovrumano, allungai una mano fuori dalle coperte per cercare il telefono.
Ogni mattina era un ripetersi di occhi gonfi, capelli in rivolta e un cervello che si opponeva al sistema.
Ma mi ripresi subito. Non potevo permettermi di essere stupida. Non alla Stanford.
Pensai al caffè e al fatto che non si sarebbe mica comprato da solo e alla fine mi alzai.
«Me la pagherai, signor Caffè.» biascicai in preda a non sapevo bene che ritardo.
I seguenti dieci minuti li passai a tentare di capire quale fosse il mio posto nel mondo.
Mi lavai la faccia e i denti, pettinai i lunghi capelli castani e passai un po' di trucco per coprire le due borse sotto agli occhi.
Infine, optai per un abbigliamento comodo. Un paio di jeans neri e un maglioncino beige.
Quando tornai in soggiorno, ad accogliermi ci fu una folta chioma ramata intenta ad uscire dall'appartamento.
«Buongiorno, June.» salutai, e lei, che non si era accorta di me, si bloccò sulla soglia della porta.
Mi guardò spaesata per un attimo quasi insignificante. Quasi... perché io l'avevo notato.
«Buongiorno, Alia.» ricambiò, con un sorriso tirato.
«Vai in caffetteria?»
Dentro di me speravo dicesse di sì.
Quella sarebbe stata la mia prima colazione alla Stanford e, per quanto amassi la solitudine, una parte di me sapeva che avrebbe finito per ritorcermisi contro.
Necessitavo di compagnia e in quel momento lei era l'unica persona da cui l'avrei gradita.
«No, scusami,» soffiò, evitando il mio sguardo. «Sono un po' di fretta. Ci vediamo dopo, va bene?»
Non mi diede il tempo di rispondere. Si chiuse la porta alle spalle e sparì, lasciandomi lì, in piedi come una stupida.
Sbattei le palpebre un paio di volte, tanto incuriosita dalla sua fretta quanto stranita dal suo atteggiamento.
Girai su me stessa e tornai in camera da letto, strisciando le pantofole sul pavimento.
La giornata non era iniziata nel migliore dei modi.
L'idea di una caffetteria ricolma di studenti mi fece venire un nodo allo stomaco, ma mi armai di una gran dose di coraggio e abbandonai a mia volta l'appartamento.
Uscii dal Wilbur Hall e l'aria fresca mi accarezzò il viso, mentre mi incamminavo lungo il sentiero.
Raggiunsi il centro del campus, attraversando la grande distesa di archi, per poi avvicinarmi alla Green Library, un edificio imponente che segnava la fine del mio percorso.
Accanto alla biblioteca, infatti, si trovava il Coupa Café, l'unica caffetteria che avevo avuto modo di notare e di cui ricordavo la strada.
Notai subito l'immensa fila e mi accodai, senza perdere tempo. L'odore intenso del caffè mi avvolse in grandi folate e, quando finalmente arrivò il mio turno, ordinai un cappuccino e un muffin ai mirtilli.
Ero da sempre un'amante dei dolci. Per me, non esisteva una colazione senza. Era come se necessitassi di quella dose di zuccheri per affrontare la giornata.
L'interno del locale era piuttosto affollato, così decisi di uscire nel piccolo patio all'aperto, dove trovai un posto a sedere sotto gli alberi.
Era carino, pensai.
Dopotutto, forse quella giornata non sarebbe andata poi così male.
Ma, nel giro di pochi secondi, mi ricredetti.
Il mio sguardo, quasi per caso, si posò su un tavolo più in là. E lì, tra le persone sedute all'esterno, c'era June.
Il suo viso era inconfondibile, anche da quella distanza. Non avevo dubbi: era lei. Stringeva un cappuccino tra le mani, con l'aria rilassata di chi era immersa in una conversazione piacevole.
Non ci sarebbe stato nulla di strano, se non fosse che mi aveva detto che non sarebbe passata in caffetteria.
Strinsi la tazza tra le mani, cercando di razionalizzare. Forse aveva semplicemente cambiato idea. Forse non voleva fare colazione con me. O forse...
Il pensiero mi si gelò in testa quando notai con chi era. I due ragazzi della sera prima. Gli stessi che, quando ero con Tyler, non avevo smesso di fissarmi.
Gli stessi da cui lui mi aveva consigliato di stare lontana.
Il mio stomaco si chiuse per la seconda volta nel giro di un'ora. Da quella distanza non potevo sentire cosa si stessero dicendo, ma l'atmosfera tra loro era leggera, quasi intima.
Non sapevo che pensare.
June mi aveva mentito? Perché avrebbe dovuto farlo? Quegli studenti erano suoi amici? Lei faceva parte del loro gruppo?
Mi stavano cominciando a far male le tempie.
Cos'avrei dovuto fare? Andare da lei e chiederle spiegazioni? Oppure fare finta di niente?
Il mio muffin era ancora intatto, ma ormai avevo perso completamente l'appetito e, come se non bastasse, quello che successe dopo, mi strinse lo stomaco in una morsa.
Il mio sguardo scivolò incredulo sulla sua figura, il ticchettio lontano e fastidioso dei suoi tacchi quindici mi riempì i timpani.
Le gambe tremarono appena e ogni particella del mio corpo inviò segnali di pericolo al cervello.
Raquel.
Non poteva essere vero.
Lei non poteva trovarsi ad Atherton.
Non a Stanford.
Lei si avvicinava alla caffetteria, e io mi sentivo confusa, un po' di più ad ogni passo.
Sfilava con la sicurezza di chi sapeva di attirare l'attenzione. Di chi non aveva mai avuto problemi ad avere gli occhi addosso. Di chi era stupenda e sapeva di esserlo.
Così bella da sembrare un'allucinazione, con un corpo tonico e slanciato e i lunghi capelli biondi resi a delle morbide onde. Era vestita con un'eleganza che sembrava fuori posto a quell'ora del mattino.
Non stavo sognando.
Era proprio lei.
Un'ondata di inquietudine mi sormontò il petto, come un riflesso involontario.
Avrei voluto diventare invisibile prima che fosse troppo tardi, ma il destino aveva altro in mente e, quando abbandonai la panchina, lei mi vide.
Due occhi blu si scontrarono con i miei. Mi scrutarono curiosi, stringendosi appena. Mi studiarono come per assicurarsi che la vista funzionasse ancora. E a me si gelo il sangue nelle vene quando un mezzo sorriso si fece largo sul suo viso.
Il ticchettio proseguì, rimbombando nelle pareti della mia testa, finché non la ritrovai ad un soffio da me.
In un attimo mi sentii di nuovo quella ragazza insicura e impotente di un tempo, la stessa che faceva di tutto per evitare il suo sguardo nei corridoi del liceo di Madrid.
Ma inspirai profondamente e tornai in me. Non potevo permettere che lo shock prendesse il sopravvento.
«Ci si rivede, Alien.»
Raquel assaporò quel nomignolo mentre lo pronunciava, lo stesso che mi aveva tormentata per due anni interi.
«È così che si saluta una vecchia amica?» proseguì, infastidita dal mio silenzio.
Inclinò il viso, avvicinandosi ancora, letale come un mamba nero. Quando i nostri visi si ritrovarono a pochi centimetri di distanza, le riservai la mia espressione più impassibile.
«La caffetteria è da quella parte.» indicai con un cenno del capo e tentai di superarla.
«Non così in fretta,» la sua mano si chiuse attorno al mio braccio, trattenendomi. «Sono passati tre anni dall'ultima volta che ci siamo viste, non essere maleducata.»
«Raquel.»
Una voce alle sue spalle interruppe il momento. Una ragazza dai lunghi capelli neri era comparsa dietro di lei.
Questa mi scrutò con i suoi occhi grigi, abbandonandoli sul mio viso per qualche istante di troppo.
«Stai attirando l'attenzione.» proseguì poi, ritraendola e creando della distanza fra noi.
A Raquel non sembrò importare, ma decise comunque di dar retta all'amica, così ritrasse la mano e mi liberò.
«D'accordo,» esalò. «Ci vediamo in giro, Alien.»
Marciai sul sentiero di ghiaia senza guardarmi indietro, veloce come se qualcuno mi stesse inseguendo. Decisa, come se fosse l'unica alternativa possibile.
Accelerai quando il dormitorio entrò nel mio campo visivo e mi trattenni dal correre quando sentii una voce alle mie spalle.
Scossi il capo, come se potessi cancellare l'immagine di Raquel dalla mente, come se bastasse a mandarla via dall'università, da Atherton, dalla mia vita.
Ma non bastava.
Il solo pensiero di tutto quello che avrebbe fatto per rovinarmi di nuovo la vita mi fece ribollire il sangue.
Non poteva essere vero.
Raggiunsi l'ingresso e, proprio quando credetti di avercela fatta, una voce mi chiamò.
La vista annebbiata dall'agitazione impiegò qualche secondo a mettere a fuoco.
Due occhi verdi mi fissavano con insistenza, colmi di preoccupazione.
June.
«Ti ho chiamata. Più volte. Stai bene?»
Non risposi.
Lei mi studiò con attenzione, poi aggiunse: «Non so cosa sia successo, ma in caffetteria ho notato della tensione.»
Le parole rimasero sospese fra noi.
«Devo salire ora.»
June si offrì di accompagnarmi, ma rifiutai.
Non la volevo attorno.
E ancora meno volevo il suo aiuto.
Una volta dentro, raggiunsi il bagno in fretta.
Aprii il rubinetto e con mani tremanti mi gettai l'acqua fredda sul viso, sperando che bastasse a lavare via l'ansia, il peso nello stomaco e il nodo alla gola.
Quando alzai lo sguardo, il mio riflesso mi restituì un volto che conoscevo bene, ma che non vedevo da troppo tempo.
Una smorfia mi attraversò il viso mentre, con gesti meccanici, mi sistemavo i capelli castani dietro le orecchie.
Inspirai. Espirai.
Ancora e ancora.
Ma ogni respiro portava con sé un frammento del passato e questo si insinuava nel presente.
Ogni attimo era un ricordo che tornava a galla.
Ogni battito di ciglia, un'eco di dolore che provavo ad ignorare.
Ogni pensiero, un po' di Raquel che mi rovinava.
E il ricordo di quell'ultimo giorno del secondo anno di liceo riaffiorò.
3 anni prima
Madrid, Spagna
Ero esausta, con il fiato corto e le gambe a pezzi.
Il livido pulsava nella vene, ma almeno ero puntuale.
Raggiunsi il cancello della scuola strisciando.
Non avevo idea di essere in grado di correre tanto prima di quel giorno, eppure per qualche motivo non ero felice.
Non sapevo se per la cena del giorno prima che rischiava di darmi il buongiorno o per i crampi ai fianchi, ma avevo un'urgente bisogno di sedermi e riprendere fiato.
Attraversai la porta d'ingresso, ma l'attimo dopo il mio corpo perse l'equilibrio e mi ritrovai a terra.
Una scintilla bruciò ogni singola parte del corpo venuta a contatto con il pavimento freddo, dalle braccia alle gambe.
Ma il dolore morì fra le labbra, quando dei passi si fecero sempre più vicini.
Delle risate rimbombarono, sprezzanti e divertite, minacciose come tuoni in mezzo ad una tempesta. E io sapevo perfettamente a chi appartenevano.
«Sei perfino più goffa di quanto credessi. Avete sentito che caduta? Deve essersi rotta qualcosa.» cinguettò Raquel e subito dopo puntò il tacco a pochi millimetri dalla mia mano. La scansai immediatamente.
Era istinto di conservazione o semplicemente una gran voglia di avere ancora tutte le dita a posto.
«Che fai, non ti alzi?» continuò scuotendomi con la punta delle scarpe.
«Smettila...»
Tentai, ma la mia richiesta uscì come un lamento strozzato e Raquel lo trovò divertente.
Erano due anni che mi prendeva di mira per il semplice piacere di avere qualcuno su cui flettere la propria imponenza ed elevarsi agli occhi di mezza scuola.
Ai suoi occhi io era perfetta.
La studentessa orfana giunta a scuola nel bel mezzo del trimestre. Timida, introversa e decisamente fuori posto.
«Come hai detto, puoi ripetere?»
Si piegò per avvicinarsi di più ed ero sicura che se si fosse avvicinata ancora sarei stata risucchiata dal buco nero che Raquel era.
«No, dico sul serio. Che hai detto?» ripeté lei con voce ancora più bassa.
Tremai e tremai ancora.
Tremai come una foglia spinta ad abbandonare il suo albero, tremai come i rami lottavano contro la forza del vento e l'aria mi si bloccò nei polmoni.
Raquel si risollevò.
«Qual è il tuo problema, Alien?» squittì lei con quel nomignolo che ormai sembrava identificarmi più del mio vero nome.
Rimasi con la faccia a pochi millimetri dal pavimento, i gomiti a sorreggere il mio peso avrebbero ceduto da lì a poco mentre sentivo la vista annebbiarsi a causa delle lacrime.
M'impuntai e le ricacciai indietro.
Debole ed impotente, era così che mi sentivo.
Era così che mi ero sempre sentita.
«Prendetela.» ordinò lei alle amiche che subito mi afferrarono per le braccia sollevandomi.
«Ultimo giorno. Ultimo giro.» canticchiò, incamminandosi verso dove avevo passato la maggior parte delle mie pause pranzo. Nei bagni.
Lei sfilava sui suoi tacchi quindici.
Ogni ticchettio era un metro in meno alla nostra destinazione, un suono tanto drammatico quanto fastidioso.
Mi guardai intorno alla ricerca di qualche professore che potesse aiutarmi ma le lezioni era già iniziate il che significava che i professori si trovavano tutti in classe e che per la bellezza di un'ora i corridoi sarebbero stati vuoti.
«Dentro!»
L'ape regina che impartiva ordini alle sue api operaie.
Mi strattonarono fino alla porta annessa ai bagni per poi spalancarla e costringermi ad inginocchiarmi.
Un déjà vu.
Serrai gli occhi disgustata al ricordo di quante volte ero stata costretta ad inginocchiarmi contro il mio volere e ai conati di vomito che quello che sarebbe successo dopo mi avrebbe provocato.
«Vi prego...,» la mia bocca si aprì da sola. «Non fatelo.»
Il respiro si fece pesante, affannoso. La testa cominciò a girare e gli occhi ad annebbiarsi per l'ennesima volta.
La stretta sulle braccia divenne più forte mentre me le bloccavano dietro la schiena ed è li che capii.
Stavo vivendo in un incubo.
L'ennesimo incubo.
«Sei patetica,» sibilò velenosa Raquel, voltandosi schifata dalla parte opposta e io incassai il primo colpo in attesa degli altri. «Come si può essere così patetici?»
Sentivo il suo sguardo sulle spalle. Bruciava.
«Sei un mix letale Alia. DEBOLE e INUTILE! Le persone come te meritano di soffrire. Di essere prese di mira affinché capiscano di non valere NULLA. Non meriti il lusso di frequentare una scuola come questa e non meriti il tempo che una come me ti sta regalando. Non meriti di avere Sean Crane come padrino pronto a tutto per renderti la vita facile e non meriti di avere una casa. Non meriti di avere un posto in questo MONDO. Perché non la fai finita e fai un favore a tutti quanti?»
L'incasso fu più violento del previsto, perché rimasi immobile e non riuscii a muovere neanche un muscolo.
Lo sguardo perso contro al muro mentre assimilavo la violenza verbale e psicologica che avevo appena subito.
Un attacco così violento da sembrarmi fisico.
Provai dolore pur non essendo stata toccata.
Sentii ogni parte del mio corpo lasciarsi andare. Il tocco delle due ragazze sparì e la paura mi tappò le orecchie.
Sentii voci lontane, Raquel ordinare qualcosa e, alla fine, sentii il viso a contatto con dell'acqua fredda.
Non riuscii a muovermi.
Non cercai di tirarmi su alla ricerca dell'aria che stava pian piano abbandonando i miei polmoni. Non cercai di fare assolutamente niente.
Sentivo di non avere il controllo su nulla.
Sentivo di non averne mai avuto.
Ero una bambola? Come mai venivo controllata dagli altri spinta a fare ciò che non volevo? Il mio volere valeva così poco? Io valevo così poco?
Pensai a Sean, al se mi vedesse come Raquel mi descriveva. Mi domandai se gli fossi d'intralcio e non mi volesse fra i piedi.
I miei polmoni si svuotarono per l'ennesima volta privi d'ossigeno.
Chiusi gli occhi e mi ritrovai a lasciarmi andare in quella posizione fatale mentre come una pellicola di un film, centinaia di immagini si proiettavano di fronte a me.
Immagini che rappresentavano tutte la stessa persona.
Nancy. Mia madre.
Lei era l'unica persona ad aver mai tenuto a me. E questo al punto da sacrificare la sua stessa vita per permettere alla mia di continuare.
I sensi stavano fremendo, si ribellavano, la testa pulsava per la mancanza d'ossigeno, la gola raschiava, mentre lo stomaco si ribaltava più e più volte.
Credevo di essere giunta alla mia fine quando un braccio mi risollevò.
Panico, nausea, iper ventilazione, non sapevo cosa avrebbe avuto la meglio su di me, ma mi sentii sprofondare in un abisso da cui non ci sarebbe stato ritorno.
Respirai come non avevo mai fatto, in modo frenetico ed insistente con l'obbiettivo di assorbire tutta l'aria fra queste quattro mura, mentre una tosse ossessiva mi riempiva la bocca.
Qualcosa mi scosse e mi ritrovai a voltarmi, incontrai lo sguardo arrabbiato di Raquel e non riuscii ad interpretarne il significato.
Le api operaie indietreggiarono impaurite al cambio d'umore dell'amica e io avrei voluto fare lo stesso, se solo avessi avuto dove indietreggiare.
«Sei per caso impazzita?!» gridò lei, premendomi contro la parete sottile del bagno in cui ci ritrovavamo rinchiuse.
Respirai per l'ennesima volta non avendone ancora abbastanza. Il mio petto saliva e scendeva a ritmo incalzante mentre i capelli bagnati si appiccicavano al viso.
«Rispondi, dannazione! Cosa avevi intenzione di fare? Morire in un lurido cesso scolastico?»
Mi scosse di nuovo e, se possibile, divenne perfino più arrabbiata di quanto già non era.
Mi ritrovai ad aggrottare la fronte confusa.
«Stavo seguendo il tuo consiglio.» mormorai debolmente, appiattendomi ancor di più contro alla parete quasi a voler diventare un tutt'uno con quest'ultima.
Lasciai ricadere il mio sguardo a terra e mi bloccai a fissare una mattonella bordeaux tra le mie gambe pallide e piene di lividi e quelle di Raquel abbronzate e perfette.
Mi trovavo ancora per terra, a pochi millimetri dalla persona che aveva deciso di torturarmi ogni giorno di ogni mese di quegli ultimi due anni e come se le mie labbra si mossero da sole, una domanda prese vita.
«Mi devi odiare davvero tanto, non è vero?»
Lei rimase immobile, inginocchiata alla mia stessa altezza con una mano ancora sul mio petto.
Ero sicura potesse sentire il mio battito cardiaco accelerato, il mio petto era una furia in corsa sotto al suo palmo eppure non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo.
Rimasi con gli occhi, gonfi e annebbiati, fissi sul pavimento.
Avevo paura. Avevo paura di Raquel, ma in fin dei conti, chi non ne avrebbe avuta?
«Perchè?,» la voce mi si spezzò. «Perché mi odi?»
Strinsi gli occhi mentre le prime lacrime si liberarono nell'aria finendo sul suo polso in un contatto così violento che ero sicura averne sentito lo schianto.
«Non ti ho fatto niente,» singhiozzai disperata «Ho sempre fatto tutto quello che mi dicevi. Ti facevo i compiti, mi offrivo volontaria al posto tuo alle interrogazioni, portavo lo zaino a te e alle tue amiche, pulivo i bagni durante le pause, pulivo il tuo armadietto a tutti i cambi d'ora e nonostante questo...»
Annaspai nella mia stessa aria, e alzai il viso su di lei.
Per la prima volta, i nostri sguardi si incontrarono e fu straziante.
Uno spettacolo drammatico e sofferto.
La sua era tempesta. Una tempesta distruttiva e letale che scontrava contro al muro di ghiaccio fragile e sottile che invece ero io.
Raquel rimase pietrificata. Era la prima volta che i miei occhi verdi si incastravano nei suoi blu.
Ero sicura non servisse più alcuna parola, i miei occhi avrebbero parlato per me, sarebbe bastato così poco perché il mio dolore trasparisse in quelle due fessure verde smeraldo.
«Mi spingevi nei corridoi,» continuai. Sentivo di averne bisogno. «Mi prendevi in giro di fronte a tutta la scuola, mi rinchiudevi nello sgabuzzino per ore, mi tiravi i capelli, mi obbligavi ad infilare la testa...»
Mi bloccai costringendomi a non guardare il gabinetto dove fino a poco prima vi era la mia testa e così tornai su Raquel che intanto si fece più cupa.
Non la riconobbi.
Ero abituata al sorrisetto derisorio ed antipatico, al suo fare sprezzante, al modo sicuro e altezzoso con cui sovrastava tutti i cavernicoli della scuola, al modo in cui manipolava i professori ottenendo sempre ciò che voleva.
Sentii la sua mano mollare la presa sul mio petto e allontanarsi, appoggiando a sua volta la schiena contro la sottile parete del bagno alle sue spalle.
«Vattene,» i suoi occhi si posarono sulle mattonelle e le sentii tremare sotto al mio peso. «Ho detto vattene!»
Mi alzai senza pensarci due volte e mi diressi velocemente verso l'uscita del bagno facendomi spazio fra le sue amiche che intanto avevano assistito alla scena in completo silenzio.
Afferrai lo zaino e uscii a passo svelto, dirigendomi verso l'uscita della scuola.
Non avrei passato un secondo di più là dentro.
Neanche uno.
Fine Flashback
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Era sera e, mentre camminavo, le mie ombre si allungavano sui sentieri del campus.
Mi rendevo conto di quanto fossi infantile, perché mi divertiva osservarle prendere forma sotto di me e sparire quando raggiungevo il lampione successivo.
Avevo passato una giornata poco piacevole e, dopo ore di riflessioni, alla fine decisi di partecipare al primo giro d'orientamento di Stanford.
Pensai che mi sarebbe servito per distrarmi.
E avevo ragione.
Il pomeriggio era trascorso senza intoppi o preoccupazioni. E, tra edifici storici, cortili e corridoi affollati, il giro mi aveva permesso di scoprire i luoghi più importanti dell'università.
Non avevo più visto nessuno.
Né Raquel, né June.
Recuperai dalla borsa la minuscola guida ricevuta durante la visita e iniziai a sfogliarla, quando un suono improvviso mi obbligò a fermarmi.
Un rumore metallico riecheggiò intorno a me, facendomi voltare di scatto verso la caffetteria.
Proveniva da lì.
Rimasi immobile qualche istante. Il mio sguardo scivolò in ogni angolo del campus. Intravidi qualche studente passeggiare in lontananza, ma non sembravano essersi accorti di niente.
Non sapevo per quale motivo, ma mi avvicinai, stringendo la guida tra le mani come se potesse proteggermi.
Cercai di sbirciare all'interno.
Il Coupa Café era vuoto.
Appoggiai l'orecchio sulla porta chiusa.
Solo silenzio.
Me l'ero forse immaginato?
Mi guardai attorno, cercando di non farmi notare, consapevole del fatto che la mia curiosità non si sarebbe fermata lì.
L'idea che mi stava frullando per la testa voleva che andassi fino in fondo.
Allungai la mano per aprire la porta, ma all'improvviso, qualcosa mi afferrò il polso, stringendolo con fermezza.
Un brivido mi attraversò la schiena mentre venivo tirata di scatto, costretta a voltarmi.
Una sagoma imponente mi si stagliò davanti. L'ombra della sua figura si allargò su di me e, per un istante, trattenni il respiro.
Era lui. Il ragazzo del corridoio.
I nostri corpi erano vicini, a un soffio dallo scontrarsi. Il calore della sua presenza mi scaldò e di colpo il freddo di quell'autunno svanì.
Indossava un paio di pantaloni della tuta e una maglietta a maniche corte nera che lasciava scoperta la pelle decorata da un intreccio di inchiostro.
Non riuscii a soffermarmici più di quanto avrei voluto perché una folata di vento pungente, mi strinse nelle spalle.
Doveva avere freddo, pensai.
Chi uscirebbe vestito in quel modo in una sera d'autunno?
Eppure sembrava così a suo agio, come se il freddo non lo sfiorasse nemmeno. Forse era abituato?
Incrociai il suo sguardo per un istante e la sua mano calda sulla mia pelle scoperta mi creò brividi nervosi.
A riportarmi al presente fu il mio cuore che prese a battere più forte, consapevole del fatto che ero stata scoperta.
«Non conosci le regole, forse?,» la sua voce gutturale vibrò nell'aria. «L'ingresso senza autorizzazione è una violazione.»
Non lo sapevo, ma avrei dovuto immaginarlo.
Dovevo inventarmi qualcosa, e in fretta, ma il modo in cui continuava a guardarmi, bruciò ogni pensiero.
Non avevo mai visto occhi così scuri. Erano neri. Neri come la pece. Una vera e propria distillazione di carbone racchiusa in due fessure.
Finii per fissarlo, incapace di distogliere lo sguardo, e il taglio che attraversava il labbro inferiore lo rese immediatamente interessante ai miei occhi.
La cicatrice era fresca e profonda.
Doveva essere recente.
Non riuscivo a capire cosa mi attirasse di lui, ma prima che potessi trovare una risposta, le parole uscirono dalla mia bocca.
«Come te lo sei procurato?»
I tratti del suo volto si irrigidirono in un istante, mentre le iridi nere passavano a rassegna le mie.
Il suo corpo si avvicinò di un passo, ma non mi toccò. Rimase lì, a pochi centimetri da me.
«Sei curiosa o solo stupida?»
Sbattei le ciglia. «Come?»
«Vattene, e smettila di ficcanasare in giro.»
I suoi occhi non mi abbandonarono. Nemmeno quando mi liberò il polso.
E così, senza lasciarmi il tempo di rispondere, lui fece un passo indietro, dando fine a quella conversazione.
Guardai la sua figura allontanarsi e non mi mossi.
Rimasi lì, a fissarlo mentre scompariva nella notte e i pensieri vagavano impazziti.
Mi decisi a rientrare soltanto quando cominciai a provare freddo. L'aria si era alzata di colpo ed io mi arresi, perché non avrei saputo nient'altro di lui.
Non quella notte.
Fofinhas🦭
Nonostante il piccolo ritardo, eccoci qua.💗
Questo capitolo mi ha stesa, (nel vero senso della parola), ma ora... parliamo un po'.
Cosa ne pensate del comportamento di June, del personaggio di Raquel e del primo breve incontro con il nostro ✨lui✨?
Stellina se vi è piaciuto e io vi aspetto su IG per commentare il capitolo insieme.🖤
Ci vediamo al prossimo aggiornamento.🫂
Grazie mille di seguire UNL.🫧
IG: @karinastrs
Tiktok: @karinastrs
Take care of urself, please.🦋✨
Karina🖤
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