EPILOGO - BANYAN TREE
"Everyone you meet is fighting a battle you know nothing about. Be kind. Always."
Ci tengo a ricordarvi che qualsiasi sia la vostra battaglia, non dovete per forza affrontarla da soli. Se avete bisogno di parlare con qualcuno potete tranquillamente scrivermi in privato, vi ascolto sempre. <3
vi lascio qui sotto dei numeri verdi da contattare nel caso sentiste di non farcela. sappiate che vi rialzerete, c'è sempre una luce che vi guida, sempre.
TELEFONO AMICO: 02 2327 2327
TELEFONO AZZURRO: 1969
NUMERO PREVENZIONE SUICIDIO: 800 334 343
NUMERO PREVENZIONE DISTURBI ALIMENTARI: 800 180 969
NUMERO VIOLENZA DOMESTICA: 1522
SUPPORTO PSICOLOGICO: 800 833 833
SUPPORTO PSICHIATRICO: 800 274 274
TELEFONO ROSA: 06 375 18282
SUPPORTO PER AUTISMO: 800 031 819
Vorrei che sapeste e ricordaste sempre che non siete soli nelle vostre battaglie. Ci sono tante persone che stanno affrontando situazioni analoghe alle vostre. Se sentiste di non farcela da soli, di aver bisogno di aiuto, non esitate a chiederlo. farsi aiutare non fa di noi persone deboli, anzi, molto più forti di ciò che voi possiate immaginare.
Le persone che vi amano esistono, le persone che vi ascoltano e saranno al vostro fianco nella vostra battaglia esistono. Dovete ricordarvi sempre che non siete soli. Chiedete aiuto, aiutatevi. Siete forti, non dimenticatelo mai.
⚠️ Il capitolo contiene riferimenti ESPLICITI ad argomenti sensibili. Se vi trovaste in una situazione di pericolo o conosceste qualcuno in difficoltà che si trova in una situazione analoga, non esitate a chiamare i numeri verdi qui sopra elencati. ⚠️
Avanti e indietro, avanti e indietro.
Tutta la vita, tutti i giorni, tutte le ore.
Rincorriamo i nostri obiettivi e andiamo... Avanti e indietro, avanti e indietro.
Ci sono momenti dove la compagnia gioca un ruolo fondamentale,
eppure io non volevo nessuno.
Ho trovato la mia forza in quelle sere dove per vincere avevo solo me stesso.
"Non c'è nessuno", mi ripetevo.
Ho trovato la mia forza sentendomi perso.
"Non c'è nessuno", mi ripetevo.
Sono arrivato ad avere quello che volevo:
eppure, non sentivo nessuno vicino a me.
Poi, ho imparato che per saper condividere il tempo con qualcuno devi sapere convivere prima di tutto con la tua solitudine.
E così, avanti e indietro, avanti e indietro nella frenetica vita di tutti i giorni,
benedico quelle volte in cui ho scritto di sentirmi solo,
perché stavo preparando me stesso a non esserlo più.
- Nicolò Moriconi (16 luglio 2021, 19:35).
EPILOGO - Banyan tree.
"Ho visto gente esclusa ridere a squarciagola"
Sfiorai con le dita i tasti del pianoforte, sorridendo e osservandolo per la prima volta a cuore leggero. Dopo tanto tempo, dopo una vita che non mi capitava, sentii il profondo desiderio di sedermi davanti allo strumento che a lungo mi aveva tenuto compagnia restando in silenzio al mio fianco. Scelsi di ascoltare ciò che aveva da dirmi, lasciare che mi consolasse attraverso le melodie che erano rimaste incastrate soltanto nella mia mente, sgualcite dal tempo, senza la paura dei ricordi. Per la prima volta, provai il profondo desiderio di suonare il pianoforte con l'assoluta necessità di ricordare mio padre, perché sapevo che ogni volta che quelle note risuonavano nell'aria, il mio primo pensiero era rivolto a lui.
Fu la prima volta, dopo anni che non accadeva, che sorrisi mentre il silenzio veniva rotto dalle mie dita che suonavano quella melodia. La stessa che per anni mio padre aveva dedicato a mia madre, ogni qualvolta la vedesse triste. Ricordai la prima volta che me la fece sentire. Quando mi insegnò a leggere lo spartito del piano. Pensai che fosse la cosa più affascinante e complicata che avessi mai visto e, quando prese le mie mani e le posò sui tasti, un brivido intenso percorse la mia schiena e una sensazione di estrema pace e libertà m'invase. Era il mio primo ricordo felice: io e mio padre al pianoforte, la musica, la gioia e il sorriso di mia madre.
Era la prima volta che sentivo di stare suonando per me. Le rare volte che era capitato, lo avevo sempre fatto per strappare un sorriso a Victoria, farle provare qualche emozione al di fuori del dolore che portava sempre con sé ovunque andasse. Non mi capitava da tanto di sentire l'estrema necessità di suonare guardando il pianoforte, fu per quello che sorrisi e chiusi gli occhi assaporando ogni nota. Ogni accordo. Ogni ricordo che evocava la melodia.
Pensai a mia madre, che si commuoveva così facilmente da essere sempre presa in giro. Era una donna estremamente sensibile, prima che lei e mio padre si separassero. Dopo che lui se ne andò di casa, mia madre non fu più la stessa. Aveva eretto un muro, talmente spesso che né a me né a Ryan era stato più concesso l'onore di vederla sorridere o uscire dalla sua stanza. Mio fratello mi aveva fatto da padre, era stato costretto a farlo: sospettavamo fosse caduta in depressione, ma non ne avevamo mai avuto la conferma, non aveva mai voluto andare in terapia o farsi aiutare. Poi era arrivato Vincent e io lo odiavo così tanto che ero riuscito a far sì che ogni cosa si sgretolasse. Ero andato a vivere da mio padre, ero scappato e avevo lasciato che l'odio mi consumasse. Avevo scoperto che mio padre aveva il cancro, la leucemia. Lui era morto.
A causa mia, a causa del fatto che lo avessi lasciato solo in quella casa, Ryan era entrato nel giro di Vincent e poi ci avevano arrestati.
Alla morte di mio padre promisi che non avrei mai più suonato il piano: mi faceva troppo male, sentivo troppo la sua mancanza, provavo troppo dolore. Non riuscivo più a sentire la pace di una volta. Sentivo solo un infinito e instancabile senso di malinconia. Sapevo che non potevo più riaverlo indietro, che non sarebbe mai tornato, ma non riuscivo ad accettarlo. Soprattutto, non riuscivo a trovare nella musica la ragione per andare avanti. Mi avevano detto di suonare per sentirlo vicino così tante volte da perderne il conto, mi avevano detto che dovevo essere fiero del fatto che mi avesse lasciato la sua eredità più grande, ma io non ce la facevo. Avevo iniziato a sentirlo un peso, non più un dono. Invece che permettermi di respirare come aveva sempre fatto, sentivo il mio cuore smettere di battere ogni qualvolta osservavo i tasti. Fu proprio per questa ragione che scelsi di smettere di suonare.
In quel momento, però, il brivido era tornato. Sentivo il battito del cuore pulsare nelle mie orecchie, la vita scorrermi nelle vene. I ricordi di papà decoravano la mia mente come piccoli fiocchi di neve che incantavano le notti d'inverno: ogni cristallo era un vecchio ricordo. E mi accarezzavano la pelle, la mente, il cuore e io non riuscivo proprio a non sorridere. Per un istante mi sembrò di sentire mio padre arruffarmi i capelli seduto al mio fianco, spalla contro spalla, come l'ultima volta che avevamo suonato insieme. Piovevano i ricordi e il mio muro stava crollando. La torre che avevo eretto in quel castello circondato dalla solitudine, in cui mi ero rinchiuso per rimanere protetto e impedire ai ricordi di uccidermi, stava crollando proprio mentre la stanza era imbottita dalla musica. La mia musica. La musica di mio padre, il regalo più bello che mi fosse mai stato donato. Solo in quel momento me ne accorsi.
Compresi solo allora quale fosse il reale potere dei ricordi e ci riuscii perché mio padre era al mio fianco, proprio mentre suonavo da solo in quel grande salone potevo vedere i miei ricordi riempirlo e metterlo a soqquadro, lo vedevo colmo dei momenti con mio padre e con la mia famiglia, dei momenti con le persone che mi avevano accolto e mi avevo regalato nuovamente qualcosa in cui credere. Il mio vuoto si era riempito.
Ritrovai me stesso fra quelle note. Dove prima regnavano solo sfumature di tristezza per tutti quei momenti che non avevo vissuto con i miei genitori, con la mia famiglia.
Ritrovai me stesso nella folle bellezza racchiusa nello sguardo di mio padre ancora vivo nella mia mente. Ripensai a tutte quelle volte in cui mi aveva ripetuto che il sole per lui sorgeva soltanto quando vedeva me e mio fratello sorridere. Ritrovai me stesso fra le sue parole marchiate a fuoco dentro di me, quando mi diceva che avrebbe vissuto per sempre fra i miei occhi perché era solo lì che ritrovava se stesso. Quanto poco ne sapeva quel bambino che gli sorrideva spensierato, di tutti quei momenti in cui suo padre gli sarebbe mancato e lo avrebbe cercato nel suo sguardo ricordando quelle parole. Quanto poco ne sapeva dei giorni in cui avrebbe camminato nel silenzio della notte, rifugiandosi su un tetto in cima alla città e avrebbe pensato soltanto che avrebbe dato la vita pur di avere la possibilità di parlare con suo padre ancora solo un istante.
Com'era bello perdersi per ritrovarsi. Com'era bello amare ed essere amati. Com'era bello ricordare e sorridere, com'era bello sentirsi liberi e respirare, sentire la vita scorrere di nuovo nelle vene.
Uscii di nuovo in terrazza, dopo un tempo che onestamente non riuscii a definire, ritrovandomi gli sguardi dei miei amici e della mia famiglia addosso. La brezza estiva mi accarezzava la pelle in quella sera di luglio, facendo vibrare i miei ricci nell'aria, mentre gocce di pianto rigavano il viso di Elizabeth e Leonard mi sorrideva mentre stringeva la mano di sua moglie.
Fu Elizabeth la prima ad alzarsi e venirmi incontro abbracciandomi teneramente, immersa fra le lacrime con il respiro spezzato dai singhiozzi. I suoi capelli mossi fluttuavano nel vento mentre la timida luce del sole serale illuminava il suo viso facendomi pensare che quelle lacrime la rendessero ancora più preziosa di quel che già non fosse, quasi come se il suo sorriso dolce fosse incastonato fra quei raggi di sole. – Grazie, Benjamin – Esordì prendendomi il viso fra le mani e osservandomi fra i singhiozzi. – Custodirò questo momento con me per sempre. – Baciò il mio viso con così tanta tenerezza che il mio cuore perse un battito e per un momento mi sentii destabilizzato, colto alla sprovvista. D'improvviso mi fu chiaro a cosa si stesse riferendo: né lei, né Leonard mi avevano mai sentito suonare il piano.
Non avrei mai immaginato che sentirmi suonare il pianoforte potesse regalare quel tipo di emozione e non avrei mai immaginato che lei desiderasse così disperatamente assistere ad un momento come quello. Non mi avevano mai domandato per quale motivo avessi smesso di suonare e non mi avevano mai nemmeno chiesto di suonare per loro. Proprio per quel motivo osservarli così commossi dopo avermi ascoltato mi colse alla sprovvista. – Non ho fatto nulla di speciale – Risposi sorridendole e guardandola negli occhi. La gratitudine che mi stava dimostrando con lo sguardo era inspiegabile a parole, eppure non riuscivo a capacitarmi del perché fosse così grata. Ero io quello che doveva loro la vita perché tutto ciò che avevo in quel momento, la mia famiglia, lo avevo soltanto grazie a loro.
- Sono fiero di te, immensamente – Disse soltanto Leonard.
Lo osservai attentamente, ancora seduto. Aveva le gambe accavallate e reggeva un calice di vino fra le dita, rivolto verso di me, con un sorriso a dipingergli il volto. Ero così confuso, che non riuscii nemmeno a ricambiare l'abbraccio di Elizabeth e non perché non volessi farlo, non era la prima volta che mi abbracciava. Forse era perché per la prima volta, dopo tanto, mi sentivo vivo. Sentivo di provare qualcosa che non fosse dolore, un'emozione pura, inspiegabile.
Fu quando sentii gli occhi pizzicare per la gratitudine che avevo nei loro confronti che ricambiai la stretta, sorridendo, in quel tramonto di mezza estate dove avevo compiuto un altro passo avanti, verso il momento in cui finalmente sarei stato libero dalle mie catene. Avevo iniziato la terapia da qualche mese e, finalmente, lo sentivo che c'era qualcosa di diverso in me. Sentivo di stare facendo la cosa giusta per me stesso e per le persone che mi amavano e sostenevano da tutta la vita.
Quando mi era stato diagnosticato un forte disturbo da stress post traumatico non mi ero per nulla stupito. Eppure quando avevo scoperto di avere un disturbo depressivo, il mondo mi era crollato addosso. Avevo sempre saputo che qualcosa in me fosse più fragile di ciò che tutti quanti potessero anche solo lontanamente immaginare. Nonostante io stesso mi fossi ostinato a credere che andasse tutto bene e che sarei riuscito a sentirmi meglio soltanto con l'aiuto delle mie forze, con il tempo. Ma quando la verità mi era stata sputata in faccia, avevo sentito il mondo sgretolarsi sotto ai miei piedi e lì, proprio in quel momento, ero crollato davvero. Fu in quell'istante che iniziai a sentirla, a sentirla davvero: pura tristezza, puro dolore, non c'era altro e non vedevo altro.
Mi ero guardato allo specchio e non ero più riuscito a riconoscere la persona davanti a me: cercavo nei miei occhi qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse spingermi ad andare avanti, una luce in fondo a quel tunnel. Avevo pensato così tanto di non essere forte abbastanza per uscirne, di non poterla superare, di non riuscire ad alzarmi da terra e ricominciare a camminare. Mi ero sentito come un bambino e forse un po' lo ero. Era come se dovessi ripartire da zero, seduto a terra, mentre tutti attorno a me guardavano e pretendevano che io mi alzassi perché in fondo era soltanto quello che dovevo fare: alzarmi. Per loro era così facile, come bere un bicchiere di acqua. Ti alzi in piedi, ti guardi un po' intorno e cerchi di capire dove sei e cosa stai facendo. Respiri, scavalchi il recinto in cui ti senti prigioniero e continui a camminare. Eppure io non ci riuscivo. Io ero schiavo della depressione in quel recinto abbandonato nel buio, circondato dal nulla, disperso chissà dove. Ero succube di tutta quella tristezza che mi si era cucita addosso, perché era stato proprio quello il momento in cui avevo compreso ciò che realmente mi stava accadendo, quello nel quale avevo faticato di più. C'era stata la fase di rifiuto, in cui persistevo a negare, a non credere. Poi c'era stata la fase in cui l'avevo sentita più forte che mai, una volta accettato che faceva parte di me, che era un frammento di me che dovevo accettare e che se non lo avessi fatto non sarei mai riuscito a lasciarlo andare.
Fu in quel momento che pensai di mollare.
Avevo valutato tutte le ipotesi possibili, pur di smettere di sentirmi in quel modo. Quanto poco ne sapevano le persone, di tutte quelle domande che mi tempestavano la mente, domande per cui non esisteva una risposta e che mi avevano portato a gridare fino a non avere più la voce. Quanto poco ne sapevano dei momenti in cui nella mia testa io urlavo, urlavo perché non c'è la facevo più, perché il dolore era troppo e io urlavo, ma nessuno mi sentiva. Ero solo con me stesso durante quelle notti che sembravano non finire mai, non sapevo quanto odiassi sentirmi solo, quanto mi sforzassi di pensare che dovevo solo aprire gli occhi per scoprire di non esserlo mai stato. E quanto poco ne sapeva il mondo di quanto fosse faticoso per me alzarmi dal letto, lavarmi il viso e guardarmi allo specchio ogni mattina. Quanto poco ne sapevano di quanto mi sentissi spento e senza vita ogni volta che aprivo gli occhi, quanto fossi morto dentro. C'erano stati dei giorni in cui avevo creduto di essere morto. A volte mi era capitato di pregare. Pregavo perché qualche angelo guardasse giù e venisse a prendermi per farmi smettere di soffrire. Quanto poco ne sapevano le persone di quanto disperato fosse il mio desiderio di morire nei momenti in cui la tristezza toccava il suo apice. Di quante volte avevo pensato di mettere fine alla mia vita in infiniti modi, perché tanto mi sentivo già morto dentro e non c'era nulla, assolutamente nulla, che mi regalasse un barlume di speranza. Le mie energie erano state consumate dal dolore, ero stato prosciugato. Quanto poco comprendevano quanto dolore causasse al mio cuore guardare Victoria piangere per me e con me, stringere la mia mano quando nessuno se ne accorgeva perché lei lo vedeva. Lei vedeva quanto perso fossi e quanto solo mi sentissi, ma non aveva mai lasciato la mia mano, nemmeno una volta. E quanto mi ero maledetto in quei giorni in cui ero anestetizzato da tutto, da qualsiasi emozione. Quando la guardavo senza sentire tutto l'amore che, in realtà, sapevo di provare per lei. E quante lacrime aveva versato lei quando se lo era sentito dire.
– Io so che ti amo più della mia stessa vita – Le avevo detto fissando il vuoto e ascoltando il suono del suo respiro che spezzava il silenzio. – Ma non riesco a sentirlo. – Probabilmente non avrei dovuto dirlo, probabilmente sarebbe dovuto rimanere nella mia testa, ma non ero mai stato capace di mentirle. Non se lo meritava.
Victoria aveva stretto la mia mano, mi aveva lasciato un delicato bacio sulla guancia, causandomi un brivido lungo tutta spina dorsale e aveva sorriso fra le lacrime. – Senti ancora la mia mano che stringe la tua e senti ancora i miei baci. Va bene così, per adesso. - Quanta forza c'era in lei, nemmeno lo sapeva. Era come una farfalla: non poteva vedere le sue ali. Non poteva vedere quanto realmente bella e forte fosse, ma il resto del mondo invece sì. Lei era così: una forza della natura, la bellezza pura e delicata e non se ne rendeva nemmeno conto.
Perciò l'avevo baciata, per asciugarle lacrime, e avevo rivissuto l'istante in cui i miei occhi si erano posati su di lei: era stato come se avesse aperto i cancelli del paradiso soltanto guardandomi e, in un attimo, non mi sentivo più perso, in un attimo solo tutto aveva di nuovo senso.
In quel momento la guardai ancora e la vidi ridere accanto a Sam e, mentre ripensavo all'inferno che avevo vissuto, a tutte le ceneri di noi che avevamo sparso, la sua risata mi permise di respirare. Come l'ossigeno quando stai per soffocare, come una ventata d'aria fresca durante un'estate torrida e afosa.
- Terra chiama Woods – Arthur schioccò le dita richiamando la mia attenzione e piazzandosi fra me ed Elizabeth che si stava ancora asciugando le lacrime, ridendo di se stessa mentre Leonard la prendeva in giro allegramente. – Dovremmo essere noi a farti i regali visto che è il tuo compleanno, smettila di fare il Benjamin per una volta nella tua vita -
- E dai Arturito, non prenderlo in giro. – Esclamò il mio migliore amico incrociando le braccia dietro la nuca e osservandomi con un ghigno divertito a dipingergli il viso. – La principessa voleva solo assicurarsi che tutte le nostre attenzioni venissero dedicate a lei. -
Per tutta risposta sollevai il dito medio sbuffando e posando le bottiglie sul tavolo mentre Gabriel e Sam le rubarono subito cominciando a bisticciare su quale delle due dovessimo aprire per prima. Guardai i due ragazzi sollevare le bottiglie e lanciarsi pezzi di carta appallottolati come se fossero stati due bambini e non ce la feci proprio a non ridere. Non riuscii nemmeno a rispondere a Carter, perché vedere Gabriel lì fra di noi e le nostre famiglie, con una bottiglia di vino in mano che litigava con uno dei miei migliori amici per capire quale fosse da aprire prima, mi fece così ridere che mi mancò il respiro.
- Lo trovi divertente, Woods? – Sbottò Gabriel voltandosi ad osservarmi stringendo la bottiglia così forte da far diventare le sue nocche bianche. – Con tutti i soldi che ho speso per regalarti questa bottiglia e visto che ho salvato il vostro adorabile culo da adolescenti combina guai, il minimo che tu possa fare per ringraziarmi è dedicarmi un brindisi con la mia bottiglia, ingrato. – Affermò indispettito con le sopracciglia corrugate.
- Salvarci il culo, che è meraviglioso oserei dire, è il tuo lavoro agente. Scendi un po' da questo piedistallo e non rompermi le palle – Intervenne Sam fissandolo abbracciando la sua di bottiglia.
- Vic hai mai pensato di portare Sam a fare un test sull'età celebrale? – Chiese Vanessa sorseggiando la birra dal boccale dinanzi a lei e fissando il nostro amico come se si stesse facendo calcoli mentali sul suo ipotetico quoziente intellettivo.
- Carter, hai mai pensato di portare Vanessa da un chirurgo plastico e farle rifare le tette? – Domandò Sam osservandola e sollevando le sopracciglia maliziosamente.
Da quando eravamo tornati dalle vacanze, dopo aver trascorso qualche giorno a New Orleans con quei ragazzi e dopo esserci tatuati in piena notte, dopo chiacchierate al chiaro di luna e un matrimonio celebrato da ubriachi, l'umore di tutti noi sembrava essersi alleggerito. Era come se ognuno di noi avesse trovato il suo modo di vivere in pace, una ragione per sorridere e andare avanti. Pensai che quelle sere ci avessero regalato l'essenza della vita e di tutto ciò che ci eravamo persi fino a quel momento, perché era tanto tempo che non ci sentivamo così. Un'eternità che non ridevamo in quel modo. Era tanto tempo che non avevamo l'occasione di poter vedere la felicità scintillare nei nostri occhi: la gioia dei momenti vissuti senza pensieri, di ridere fino alle lacrime e fino a non respirare, di brindare alla vita. Era bella la felicità incastrata fra le ciglia di Victoria, la sua espressione spensierata, quel sorriso di chi riusciva finalmente a sentire la libertà e la gioia sulla sua pelle. Ed era stato bello vedere Vanessa piangere di gioia dopo aver sposato Carter e aver detto che finalmente la solitudine non sarebbe più stata la sua unica compagnia. Mi aveva scaldato il cuore vedere Carter alzare un calice al cielo e cercare la stella più luminosa, quella che attribuiva a sua sorella. Mi aveva fatto commuovere sentire Sam brindare a noi e dirci che sarebbe tornato a casa, nel suo posto con le sue persone, che avrebbe afferrato le nostre mani e si sarebbe fatto aiutare. Era vita quella, la vita che meritavamo tutti di avere. La vita che avevamo cucita sulla pelle da quei momenti e che nessuno di noi voleva più abbandonare.
- Suvvia bambini – Ryan batté le mani cercando di farli stare zitti e farli smettere di bisticciare. – Sembrate una coppia di novelli sposi. -
Guardai mio fratello e mi si strinse il cuore osservandolo in quel momento. Utilizzava ancora le stampelle, la convalescenza si era rivelata piuttosto lunga e stava ancora andando in ospedale a fare visite di controllo. Ryan sembrava molto più tranquillo e, naturalmente, anche lui stava seguendo una terapia per un disturbo da stress post traumatico. A differenza mia, lui aveva deciso di affrontare la situazione fin da subito: stava meglio, molto meglio rispetto a qualche mese prima. Capitava che talvolta lo sorprendessi a guardare la luna e sorridere: non lo faceva dalla notte in cui Katherine se n'era andata. Speravo sapesse quanto fossi fiero di lui, quanto fossi orgoglioso nel vedere che stava finalmente lottando per se stesso e per salvarsi. Ryan aveva vinto la sua battaglia nel momento esatto in cui aveva sorriso dicendo che avrebbe seguito una terapia ed era proprio quello l'istante in cui si era rialzato in piedi con le sue forze. Proprio come me, anche lui stava assumendo dei farmaci: i suoi erano per lo più calmanti, i miei antidepressivi veri e propri. Cercavano di stabilizzarmi l'umore, di bloccare le crisi di depressione maggiore e mi regalavano ore di sonno che prima non mi erano concesse.
Incrociai lo sguardo di mio fratello proprio mentre quei pensieri attraversavano la mia mente e lo vidi sorridermi, sollevare il suo bicchiere verso di me e sussurrare quanto fiero di me fosse. Gli sorrisi di rimando, sollevai la mano mostrando una V di vittoria, suscitando una risata sia in lui che nella mia ragazza, al mio fianco, con l'altra mano stretta alla sua.
- Quel ruolo spetta a me e Jack Frost, non rubatecelo – S'intromise nuovamente Vanessa alzandosi in piedi, avvicinandosi a Victoria e lasciandole, senza un preciso motivo, un bacio fra i capelli.
Richie si alzò improvvisamente in piedi, sotto lo sguardo incuriosito di tutti noi. Lanciò un'occhiata a Sam e Gabriel, prese una bottiglia di champagne totalmente a caso, sbuffò scuotendo il capo e la stappò facendo volare in aria il tappo, che cadde in testa a Carter e lo fece brontolare infastidito, maledicendo Richie e sollevando il dito medio. – Domani vi accompagno tutti all'asilo – Affermò versandosi il vino nel bicchiere e bevendone un lungo sorso sotto lo sguardo sbigottito di Sam e Gabriel.
Victoria scoppiò a ridere così forte che sentii le sue dita stringere il mio braccio e l'osservai aggrapparsi a me mentre si asciugava delle timide lacrime di gioia sotto agli occhi scintillanti. Era talmente bella quando sorrideva, quanto poco ne sapeva di quanta bellezza era racchiusa nel suo sguardo da guerriera, nello sguardo di chi sapeva che la sua battaglia non sarebbe mai finita, ma che comunque non si sarebbe mai arresa.
- Questo è il regalo migliore che poteste farmi – Dissi guardandoli ridere, assaporare la vita e i momenti come mai avevamo fatto prima. Mi guardarono tutti confusi, sorpresi dal modo in cui avevo interrotto il mio silenzio improvvisamente. – Vedervi tutti felici, sentirvi ridere. Questo è il mio regalo di compleanno: grazie, dal profondo del mio cuore. -
Victoria posò la testa sulla mia spalla e ci lasciò un bacio e Vanessa rimase ad osservarmi con quel sorriso in volto, dolce come mai lo era stato, mentre si sedeva in braccio a Carter e infilava le dita fra i suoi biondi capelli sbarazzini. Il mio migliore amico scosse la testa, dedicandomi un brindisi e i miei fratelli rimasero in silenzio, semplicemente ad osservarmi come se non riconoscessero la persona che avevano davanti. Richie si occupò di riempirmi un bicchiere e portarmelo, guardando prima Victoria e poi me. – Io ringrazio te, per aver salvato mia sorella – Fece scontrare i nostri bicchieri e arruffò i capelli di Victoria.
Sam fu l'unico a rimanere inespressivo: nemmeno un sorriso. Annuì leggermente, abbassò lo sguardo e arricciò il naso, quasi fosse quel suo piccolo gesto il ringraziamento che voleva darmi.
- Ho già il diabete – Esclamò Gabriel. – Meglio che mi faccia un goccio e vada a dare una mano in cucina alle vostre madri. – Disse alzandosi dalla sedia e rientrando in casa tentando di aiutare come possibile. Richie, Ryan e Sam andarono a vedere il barbecue con Alexander e Leonard mentre Carter e Vanessa, invece, aiutarono Arthur a sistemare la tavola per la cena.
Erano tutti lì per me. Avevo deciso di festeggiare il mio compleanno così: con un semplice barbecue nel giardino di casa, insieme alle mie persone e la mia famiglia.
Mi voltai verso Victoria, sollevando la sua mano e facendole fare una giravolta, mentre lei mi sorrise e allargò le braccia cingendomi il collo e alzandosi in punta di piedi. Mi regalò uno sguardo talmente dolce da farmi girare la testa e sentire il mio cuore perdere un battito. Con quei suoi occhi che sembravano gocce d'oceano, persino i suoi silenzi m'incantavano, da sempre.
- Ti va di scappare con me per un po'? – Le chiesi guardandola mentre mi accarezzava il viso a un millimetro da me e dal mio cuore.
- Mi porti sulle stelle? – Rispose con un sorrisetto malizioso e infilando le dita fra i miei ricci scompigliandoli un po'.
Feci spallucce e sollevai le mani e gli occhi al cielo, ciondolando un po' fra me e me sotto lo sguardo incuriosito di Victoria. – Chi lo sa – Le dissi sollevando le sopracciglia. – Vieni con me e lo scoprirai -
Allungai la mano verso di lei che, senza esitare nemmeno per un istante, l'afferrò con decisione. Si soffermò sulle nostre dita intrecciate qualche istante, come se fosse incantata, pensando a Dio solo sapeva cosa. Quanto mi sarebbe piaciuto poter leggerle la mente in momenti come quelli, quando si perdeva nel mondo e i suoi pensieri si disperdevano chissà dove, chissà su quale pianeta, forse sulla luna. La feci salire a spalle e, mentre gli altri si immergevano in chiacchiere avvolte dalle risate, io e lei ricavammo una bolla in cui poter stare da soli per un po'. Magari sarei riuscito a portarla sulle stelle come desiderava.
Victoria tornò con i piedi per terra solamente quando raggiunsi l'ultima stanza del corridoio del piano superiore di casa Woods. Mi guardava confusa, con una strana espressione in viso, soprattutto quando mi vide estrarre dalla tasca posteriore dei pantaloni una chiave in ottone che non aveva mai visto. Non era esageratamente grossa, anzi, in realtà era una normalissima chiave, solo che era quella della famosa stanza che i Woods mi avevano regalato e riservato. Avevo di recente scoperto che i miei fratelli avevano trovato il mio nascondiglio sotto al materasso e ne avevano fatto fare una copia ma, nonostante ciò, quando entrai dopo averlo scoperto mi resi conto che in realtà non ci avevano messo piede.
Victoria mi osservò infilare la chiave nella toppa e aprire la porta con una delicatezza estrema, tanto che mi sembrò di vederla tremare per l'agitazione. Le allungai la mano e, insieme a lei, entrai nella stanza, richiudendola a chiave nell'istante in cui ci misi piede.
Non sapevo dire per quale motivo preciso considerassi quella stanza così intima, forse perché sulle mie tele e sui miei taccuini c'era la mia storia, la storia della mia vita con tutti i miei ricordi, belli e brutti che fossero. Forse perché le pareti erano tappezzate di disegni fatti con il carboncino, scritte che parlavano per tutte le volte in cui non lo facevo. In alcuni angoli, un po' più bui rispetto al resto della stanza, regnavano i miei incubi, le mie paure più grandi, il terrore cucito sulla mia pelle che avevo sempre tenuto chiuso in cassetto.
Dopo aver appoggiato la chiave sul tavolino accanto alla porta, tappezzato di bozzetti e tele scarabocchiate, tornai a guardare Victoria che, nel frattempo, girava su stessa al centro della stanza, osservando i disegni in religioso silenzio. Aveva le lacrime agli occhi e il respiro incastrato in gola. Osservò le varie tele, lasciandosi sfuggire delle timide lacrime quando riconobbe il suo viso e le espressioni che più amavo vederle dipinte sul volto. Lei con le guance arrossate, lei sorridente, lei con il viso rivolto al cielo mentre guardava la luna. Lei ad occhi chiusi mentre piangeva ma, più di tutti, si soffermò sulla tela al centro della stanza, illuminata dalla luce della luna. Sfiorò i contorni del dipinto, con una mano posata sul cuore, e mi lanciò un'occhiata mordicchiandosi il labbro e tirando su con il naso.
– "C'è l'oceano nei tuoi occhi" – Sussurrò guardandolo e asciugandosi le lacrime. Glielo dicevo da sempre, fin da quando l'avevo incontrata. Era la pura verità: le sue iridi azzurre racchiudevano un oceano di emozioni. Sembrava quasi che le ombre del suo passato la rincorressero, immergendosi in quegli occhi blu. Vedevo il dolore e le sue cicatrici, le sue paure più profonde, spezzarsi in quel mare infinito come le onde si spezzavano in riva alla spiaggia. Ma quando mi guardava, quando guardava Sam. Quando sorrideva a Alexander e Nicole, quando abbracciava Richie, quando stringeva la mano di Vanessa. Quando sollevava il calice al cielo con Carter, quando scompigliava i capelli ad Arthur e quando Ryan suonava la chitarra e cantavamo tutti insieme al chiaro di Luna. In quei momenti, i suoi occhi prendevano vita. Arrivava la luce, la gioia, la libertà, l'essenza di tutto ciò che era, della guerriera che le permetteva di lottare giorno dopo giorno, della persona che ogni giorno provava ad amarsi un po' di più. Stava imparando a comprendere, sorridendo a se stessa ogni secondo un po' di più, che il mare dona la pace quando si riposa, che è solo quando è calmo che assapori la sua vera essenza. E io amavo la tempesta da cui cercava riparo ogni giorno esattamente come amavo la calma che regnava ogni volta che l'ascoltavo ridere. – È questo ciò che vedi quando mi guardi? -
Annuii e le sorrisi scrutandola attentamente e pensando che mai in vita mia avrei voluto smettere di guardarla, soprattutto in momenti come quello. – Una volta mi hai detto che non riuscivi a capire cosa trovassi in te di tanto speciale. – Dissi rompendo il mio silenzio e facendo un passo avanti osservando i dipinti come se non ne conoscessi ogni singolo tratto a memoria. – E hai detto che ti sarebbe piaciuto poter vedere come le altre persone ti vedono, ricordi? – Quando fui abbastanza vicino, le scostai una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio, accarezzando il suo viso. Catturai la timida lacrima che solcò la sua guancia mentre mi ascoltava parlare, ad occhi chiusi e trattenendo il respiro, come se solo in quel modo potesse sigillare nel suo cuore ciò che le stavo dicendo. – Non posso regalarti i miei occhi per farti vedere come ti vedo io, ma posso mostrartelo così. – Baciai la sua fronte quando mi si gettò fra le braccia in lacrime, stringendomi con forza e strofinando la testa sul mio petto. – Selene aveva ragione: tu sei il petrolio fra la sabbia. Non smettere mai di credere a quelle parole, nemmeno per un secondo. -
Victoria non rispose, rimase in silenzio ad ascoltare il battito del mio cuore, fino a quando non mi regalò un bacio delicato tanto quanto lo era una farfalla che si posava su un fiore. Ogni volta che mi baciava mi sembrava come la prima e in quel momento, quando si allontanò leggermente, abbassò lo sguardo e sollevò la mano destra, immersa fra le lacrime e completamente incantata da me. Ricordai la notte in cui le dissi che, nel caso volesse dire che mi amava ma non riuscisse a farlo, avrebbe potuto sollevare la mano destra e a me sarebbe bastato per capire. E lei lo fece anche lì, immersa nei miei ricordi, nell'immagine di lei che dipingeva il mio cuore fin da quando l'avevo incontrata, trovando anche la mia mano. Non ci fu bisogno di dirlo, era bastato quel gesto per spogliarci di ogni paura, ogni incubo, ogni cosa che non fossimo noi.
Io e lei, affogando in quell'oceano di emozioni che ci aveva portati fino a lì, ad amarci incondizionatamente e per tutta la vita.
Era strano sentire tutta quella gioia cucita addosso. Era strano percepire la felicità nell'aria, fra le risate dei miei amici, negli occhi delle persone che mi avevano salvata e ridato la vita.
Guardavo Alexander e Nicole, con la testa posata sulla spalla del mio gemello, ripensando a tutto ciò che mi avevano dato fino a quel momento, senza mai chiedere nulla in cambio. Non avevo mai avuto una famiglia, l'infanzia mi era stata strappata brutalmente via, da un mostro senza cuore che non aveva fatto altro che portarmi alla deriva, fino a spingermi a guardarmi allo specchio e chiedermi chi fosse la persona che avevo davanti. Non avevo avuto una madre, non sapevo cosa volesse dire averne una, non fino a quando Nicole mi aveva donato la sua dolcezza, il suo animo buono, i suoi occhi sempre colmi di speranza. Avevo sentito di avere una madre quando avevo posato la testa sulle sue gambe, immersa fra le lacrime, addormentandomi mentre le sue dita accarezzavano i miei capelli e le sue carezze scacciavano gli incubi. La osservai ridere accanto ad Alexander e sorrisi anche io, grata dal profondo del mio cuore, così grata che le parole non sarebbero mai state sufficienti ad esprimere quanto fossi felice del fatto che loro, proprio loro, mi avevano accolta fra le loro braccia, mi avevano dato un tetto, un letto caldo e due fratelli su cui poter sempre contare. Avevano portato carezze dove erano stati lasciati lividi, mi avevano fatta sentire amata e avevano sempre cercato di restituirmi l'infanzia che non avevo mai vissuto. Erano state le favole della buonanotte raccontate da Alexander a farmi addormentare, il suo profumo alla lavanda a farmi capire che quella era la mia casa, ciò che loro mi avevano donato. Erano state le litigate con Richie a far sì che mi rendessi conto di cosa significasse avere un fratello, specchiarmi negli occhi di Sam e ritrovare me stessa, a farmi comprendere che nel qual caso mi fossi persa nuovamente mi sarebbe bastato il suo sorriso, i suoi splendidi occhi verdi, per ritrovarmi.
Era stata Nicole che mi ripeteva che nella vita sarebbe stato un continuo perdersi per ritrovarsi e Alexander che tentava, ogni giorno, di cucinare i pancakes nonostante continuasse a bruciarli, a dirmi che non c'era nulla di male nel non sapere più chi fossimo, perché non era mai troppo tardi per ritornare a casa. Era stato anche Richie a salvarmi, la sua gelosia, il suo strano modo di proteggermi dal mondo come se credesse che non fosse giusto, come se pensasse che fosse troppo crudele per me.
Erano stati loro a insegnarmi a camminare, a tenere con me i pezzettini del cuore che ogni persona che incontravo mi donava.
Erano stati loro a farmi capire che sì, avevo il cuore spezzato in frammenti così piccoli e minuscoli da non sapere nemmeno da quale parte iniziare a raccogliere i cocci che cadevano a terra, ma mi avevano anche insegnato che non importava da quale pezzo sarei partita, bastava iniziare da qualche parte. E io lo avevo fatto: avevo ricominciato da me.
Erano stati loro a insegnarmi a vivere la mia vita, a perdermi nelle meraviglie del mondo.
E anche in quel momento, seduta in quel prato e circondata dai miei amici, con i miei genitori in quell'angolo di casa Woods, riuscii a sentire il torpore di casa. La mia casa era ovunque ci fossero loro, tutti quanti loro, nessuno escluso. Ognuno di loro mi aveva donato una parte di sé per aiutarmi a ricominciare e le custodivo tutte quante con estrema cura.
Guardai Benjamin, lo osservai sorridere e scontrare la bottiglia con quella di Carter, arruffare i capelli a Vanessa e lasciare che lei gli saltasse sulle spalle e gli tirasse le orecchie, cantandogli tanti auguri. Cercò di levarsela di dosso ma alla fine roteò gli occhi e quando lei gli stritolò le guance scoppiò a ridere, senza riuscire a trattenersi più. Si era aperto con me, mi aveva mostrato una parte del suo cuore che nessuno aveva visto. Quando avevo messo piede in quella stanza, mentre osservavo i suoi disegni sulla carta da parati, le tele con i dipinti, i taccuini scarabocchiati colmi di bozzetti, avevo avuto la sensazione di essere riuscita a entrare nella sua mente. In quell'angolino così intimo di lui, la parte più fragile, quella che aveva racchiuso nella torre più alta del castello. Mi aveva mostrato tutto, la sua storia, i suoi ricordi, le sue paure e i suoi incubi. Non ce l'avevo più fatta: avevo trattenuto il respiro per diversi istanti ma poi lo avevo guardato e lui se ne stava lì, fermo davanti a me. Teneva le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, i ricci scuri fissati dalla sua bandana nera con cui mi faceva una tenerezza inspiegabile a parole, e lo sguardo fisso su di me. Mi osservava incuriosito, con quei suoi occhi scuri che in quel momento racchiudevano l'innocenza dei bambini, con i ricordi incastrati fra le sue folte ciglia. L'unica cosa che riuscii a fare fu sorridergli, accarezzargli il viso e piangere, grata alla vita e a chiunque mi avesse concesso l'onore di incontrarlo perché senza di lui non sarei me stessa. Senza quel folle amore, non sarei stata viva in quel momento, non sarei riuscita ad apprezzare la vita.
Guardarli tutti scaldava il cuore, mi regalava una gioia infinita, tanta da sentire gli occhi pizzicare e stringermi nelle spalle. Mi sentii un po' come una bambina: così sensibile da farmi sopraffare da momenti come quello, ma ne fui felice, grata soprattutto.
- Cosa vedete nel vostro futuro? – Domandò all'improvviso Vanessa, bevendo un sorso di birra con le braccia appoggiate alle ginocchia. Fissava un punto indefinito davanti a lei, mentre stava appollaiata al petto di Carter, che fumava una sigaretta nel silenzio dei suoi sguardi. Sembrava quasi che fossimo tutti quanti assorti e persi in quella felicità che ci circondava, che ce la stessimo godendo spensierati.
- Mi vedo primario dell'ospedale e capo del reparto di neurochirurgia. Affiancato da Grace, sempre che lei riesca a sopportarmi ancora per un po' – Le rispose subito Richie ridacchiando. La medicina era sempre stato il suo grande sogno: ero fiera di lui, di quello che stava facendo, speravo lo sapesse. Speravo sapesse quanto apprezzavo un suo sorriso al mattino, quando magari la notte era stata un vero incubo. Speravo fosse consapevole di quanto trovassi confortante saperlo al mio fianco, poterlo considerare finalmente come un fratello. Quante cose erano cambiate in quegli ultimi anni, quanto eravamo cambiati noi due. Ero di poterlo guardare con un sorriso e poterlo chiamare fratello.
- Io voglio viaggiare – Spiegò Arthur giocando con il suo elastico con le dita delle mani. – Voglio conoscere ogni angolo del mondo. Voglio vedere l'aurora boreale, dormire in igloo, passare una notte sul gran Canyon e visitare la prigione di Alcatraz a San Francisco. Mi piacerebbe andare in Europa e apprendere la cultura di ogni stato; andare a Tokyo durante la fioritura dei ciliegi e poi andare in Cina per vedere quanto simili ma al contempo diversi siano le loro culture. Voglio andare in India, in Nepal, in Africa, in Australia... - Sognava ad occhi aperti, era così assorto da quel suo grande sogno che non si era nemmeno accorto di avere alzato il viso al cielo e stare sorridendo. – Voglio girare il mondo e basta, magari con qualcuno di voi come compagno di viaggio qualche volta. -
Ryan si lasciò sfuggire una risata e scosse la testa divertito dalla sua aria trasognante. Arthur aveva quel modo di parlare dei suoi sogni che ti trasportava con delicatezza nel suo mondo ogni qualvolta ti ritrovassi ad ascoltarlo. – Io ancora non lo so. Continuerò a scrivere canzoni probabilmente, per ora mi basta questo -
- Pensavo ti candidassi presidente degli Stati Uniti in realtà – Intervenne Carter rompendo il suo silenzio. – Hai la faccia da uno che sarebbe un buon presidente. E comunque il mio futuro ve lo racconterò per ultimo, così, giusto per creare un po' di sana suspance – Affermò bevendo la sua birra e facendomi l'occhiolino.
Tutti guardammo Carter confusi per ciò che aveva detto riguardo Ryan, tanto che Ben aggrottò le sopracciglia quasi disturbato. – Esiste una faccia da presidente degli Stati Uniti? Ma che cazzo dici? – Domandò prendendolo in giro e ridendo scuotendo la testa. – Sarebbe come se io guardassi in faccia una persona e dicessi: tu hai la faccia da cameriere. Prendi Gabriel, ha sempre avuto la faccia da cazzo e pensavo facesse lo spacciatore, mentre in realtà è nei servizi segreti e li arresta. -
- Io cambierò il pannolino a Benjamin – Esclamò Gabriel incrociando le gambe e sorridendo maliziosamente stuzzicandolo. I suoi capelli biondi fluttuavano nel vento estivo, permettendomi di ammirare la scintilla nei suoi occhi.
In quel momento Ryan scoppiò a ridere talmente forte da fare sobbalzare Sam, che era seduto al suo fianco ed era impegnato a chiudere uno spinello. Era rimasto così concentrato che non aveva risposto nemmeno a Carter e Ryan scoppiando a ridere, lo aveva spaventato e aveva fatto sì che il tabacco e l'erba cadessero a terra, suscitando la rabbia del mio gemello che stava trattenendo il respiro con la mascella serrata. – Io prima di fine serata ti ammazzo Gabriel, non so se ci siamo capiti -
- Questa si chiama minaccia a pubblico ufficiale – Lo rimbeccò Carter. – Senza contare che stai fumando erba davanti a lui. Gabriel, io lo arresterei fossi in te -
- La cannabis è legale razza di stupido – Borbottò Vanessa dandogli una gomitata.
Mi lasciai sfuggire una risatina, osservandoli, perché erano talmente diversi che sembrava quasi stonassero uno di fianco all'altro eppure, quando erano insieme e le loro risate si mescolavano, ti rendevi conto che in realtà creavano una melodia perfetta.
- Io entrerò nel corpo di polizia e più avanti, quando ne avrò la possibilità, proverò a entrare nei servizi segreti. Gabriel mi sta aiutando da diversi mesi – Benjamin parlò fissando un punto indistinto, come se volesse vedere le nostre reazioni dopo ciò che aveva detto. In tutta onestà mi aspettavo una scelta di quel tipo da parte sua e credevo che i motivi fossero abbastanza ovvi, ma a giudicare dalle espressioni degli altri deducevo che per loro non fosse così ovvio. Ben non parlava mai di se stesso, del suo futuro o dei suoi sogni. Si teneva tutto per se, quasi credesse che dicendolo a voce alta la vita potesse prendersi nuovamente gioco di lui. Ero felice che stesse iniziando a parlare con me, che attraverso piccoli gesti si stesse aprendo, ma molte volte mi ritrovavo ad osservarlo e pensare che fosse assente, completamente assorto nel suo mondo. Da quando aveva iniziato la terapia stava molto meglio, ma capitava ancora che andasse in crisi e, quando accadeva, rimaneva in silenzio, perso nelle sue tenebre.
Mi aveva detto che gli era stata diagnosticata la depressione senza nemmeno guardarmi negli occhi, come se se ne vergognasse. Io gli avevo accarezzato il viso e avevo sorriso, un po' amaramente, promettendogli con un bacio che sarei stata la sua speranza quando lui l'avrebbe persa, la sua piccola luce nel buio e che non sarebbe stato mai solo. Ce l'avrebbe fatta e io lo sapevo, ne ero sicura. Era un guerriero, avrebbe vinto lui.
- Non credi di aver rischiato la vita troppe volte? – Domandò Arthur. - Ryan? Non gli dici nulla? Victoria? Carter? Vanessa? Fate qualcosa, fermatelo. Non può farlo – Si rannicchiò in se stesso, tirandosi qualche ciocca di capelli con le dita e chiudendo gli occhi dondolando avanti e indietro in continuazione, sull'orlo del panico.
- Sono orgoglioso di te, fratello – Sussurrò Ryan sorridendogli.
Ben si alzò e andò da Arthur, come se Ryan non avesse nemmeno parlato, lo prese per le mani e lo guardò dritto negli occhi, gli sorrise dolcemente e gli arruffò i capelli. – Questo è quello che voglio. – Disse scrutandolo attentamente e cercando di tranquillizzarlo come meglio poteva. – Sento di stare facendo la cosa giusta. -
Arthur sospirò e alla fine, con le lacrime agli occhi, abbracciò il fratello come se valesse la sua vita. Aveva sempre visto Benjamin come un esempio da seguire, come un punto di riferimento. Il legame che avevano creato scaldava il cuore. Avevano scelto di essere fratelli per la vita, nella buona e nella cattiva sorte, fino alla fine. – Non farti ammazzare -
- Almeno morirà da eroe, nel caso – Esclamò all'improvviso Carter, che osservava il suo migliore amico impassibile, con le mani dietro la nuca e l'espressione indecifrabile in volto. Benjamin alzò la testa e i loro sguardi s'incrociarono. Sorrise dolcemente a Carter, facendogli l'occhiolino e scuotendo il capo. – Ma tanto non ci libereremo di lui tanto facilmente. Non ci darà mai questa soddisfazione. -
- Devo dire però che è un bravo apprendista– Intervenne Gabriel indicandolo. – Un po' rompi scatole, però se la cava. – Alzò la bottiglia di birra verso di lui, gli dedico un brindisi con un mezzo sorriso e bevve un lungo sorso ad occhi chiusi.
Vivevo nella convinzione che Gabriel avesse costanti sensi di colpa per ciò che era accaduto. Ogni tanto mi capitava di osservarlo quando non poteva vedermi e nei suoi occhi brillava un senso di malinconia inspiegabile a parole, soprattutto quando guardava Ryan. Nei suoi occhi verdi vagava quella timida speranza che si rendesse conto di ciò che provava per lui, del motivo per cui fosse così dispiaciuto per le conseguenze che aveva avuto su di lui e su tutti noi ciò da cui lui aveva sempre voluto proteggerci. Mi era capitato di scambiarci qualche parola riguardo la faccenda e avevo capito che lui aveva sempre voluto evitare che perdessimo una parte di noi lungo il cammino e che si colpevolizzava per aver lasciato che accadesse. Il fatto era che non poteva impedirlo, nessuno avrebbe potuto perché non avremmo potuto prevedere che proprio Katherine perdesse la vita quella tragica notte di Halloween. Era quasi passato un anno da quella notte e ancora speravo, a volte, che quando il campanello di casa suonava lei comparisse con il suo luminoso sorriso a rallegrarmi le giornate. E quando accadeva sorridevo, salivo sul tetto a guardare le stelle e raccontavo loro storie, come se lei fosse fra di loro e mi potesse ascoltare. Mi mancava giorno e notte, ma la portavo nel cuore e sotto pelle. Ogni tanto mi perdevo vagando fra i ricordi che avevamo racchiuso in quegli scatti dove il suo sorriso brillava più di qualsiasi stella.
- Io riprenderò a studiare e vorrei aprire un centro in futuro, volto ad aiutare le persone in difficoltà. Vorrei che sapessero che nessuno è solo al mondo, che ci sono persone che si trovano nella loro stessa situazione. Quella persona potrei essere semplicemente io, oppure ognuno di noi. Guardateci: nonostante tutto quello che abbiamo passato siamo qui, a raccontarci storie nel cuore della notte e quando arriva la tristezza, la malinconia, il dolore, possiamo sempre contare gli uni sugli altri. Mi piacerebbe che sapessero che ci sono persone che li amano, che nessuno di noi nasce per vivere nel buio, che lo possiamo comandare e possiamo lasciare entrare la luce senza averne paura. Vorrei che sapessero che andrà tutto bene e che prima o poi troveranno la felicità, nonostante possa sembrare non arrivare mai. – Dissi facendo calare il silenzio mentre gli sguardi di tutti erano posati su di me. – Carter mi aiuterà, farà parte di questo progetto. Vorremmo che fosse una cosa nostra, di ognuno di noi, perché tutti abbiamo una storia da raccontare. -
Carter sollevò la mano e mi diede il cinque, mentre Vanessa gattonò verso di me e posò la testa sulla mia spalla, annuendo con un sorriso a dipingerle le labbra, stringendo la mia mano in silenzio. Era al mio fianco, come sempre. – Non mi sono mai sentita amata nel modo in cui voi mi amate ogni giorno della vostra vita da quando ci siamo incontrati. Vi sarò sempre grata per questo, per tutta la vita. – Sussurrò mentre regnava il silenzio.
Nessuno parlò per diversi minuti, restammo a guardarci illuminati dalla luce della luna, come se non ci fosse bisogno di parole e come se ci fossimo resi conto di quanto solida fosse la famiglia che avevamo creato, che avevamo scelto.
- Mi piacerebbe solo dire che siamo stati all'inferno, tutti noi. Qualcuno ne è uscito, qualcuno ci sta ancora provando e ne uscirà, ne sono assolutamente certo di questo. Una persona molto importante, che ora non è qui con noi, una volta mi ha detto che ognuno di noi è un punto di riferimento per qualcuno e non lo sappiamo nemmeno. A me non importa del futuro. Non importa che strada ognuno di noi prenderà, io neanche lo so. Voglio solo che qualunque cosa accada, sapeste che io sono qui per voi esattamente come io so che voi siete qui per me. Che potremmo sempre riunirci ovunque voi siate e raccontarci storie, anche inventate al momento, non importa. Non smetterò mai di dirvi quanto vi amo e non mi arrenderò mai se si tratta di voi. Non mi avete lasciato solo nemmeno quando io volevo andarmene convinto che solo così avrei potuto superare la morte di Katherine, avete accettato la mia scelta e l'avete appoggiata. Avevo respinto tutti, tutto l'aiuto che mi davate ogni giorno, perché vivevo nella triste convinzione che mi sarei dovuto rialzare da solo. Ma poi ho capito che mi sbagliavo e che senza di voi mi sarei perso. Tutto ciò che avete fatto è stato ripetermi che non ero solo, non vi siete arresi nemmeno per un secondo. E ha funzionato. Ci è solo voluto un po' di tempo, ma ha funzionato. Perciò non importa cosa succederà, non importa cosa ci sarà nel mio o nel vostro futuro, mi basta avervi accanto. –Sam parlò senza nemmeno guardarci negli occhi. Aveva la testa bassa, i ricci scuri coprivano il suo viso illuminato dalla Luna. La sua voce era rotta dall'emozione e quando gli accarezzai il viso catturai una timida lacrima che stava rigando la sua guancia. Solo in quell'istante mi guardò e il suo sguardo s'illuminò nuovamente regalandomi infinito e incondizionato amore, come era sempre stato. Com'era bello vedere di nuovo quella luce nei suoi occhi, la luce che mi aveva guidata sempre e che lo avrebbe fatto per tutta la vita. Amavo il modo in cui riuscivo sempre a specchiarmi nel verde speranza che caratterizzava le sue iridi e il modo in cui a volte mi sembrava che il sole non sorgesse finché lui non mi regalava un sorriso.
Poco dopo, stringendo la mia mano con gli occhi arrossati dalla commozione, estrasse il telefono dalla tasca e ci chiese qualche istante di silenzio per far sì che ascoltassimo una registrazione che aveva trovato qualche settimana prima nel suo telefono, una registrazione che non ricordava nemmeno di avere. La voce di Katherine spezzò il silenzio e il mio cuore smise di battere all'improvviso quando la sua risata rimbombò nell'aria, unita a quella di Sam. Era lei che lo prendeva in giro perché era ubriaco e rideva, rideva così tanto che sentii la sua risata sulla mia pelle, come se lei fosse seduta al mio fianco e stesse ridendo accanto a me. Lacrime salate cominciarono a piovere dall'oceano di malinconia che viveva nei miei occhi ogni qualvolta parlassimo di Katherine, la nostalgia che mi faceva venire i brividi ad ogni nostra foto. E poi sorrisi, una mano sulle labbra, incredula. Avevo dimenticato il suono dolce della sua risata, di quanto sapesse scaldarmi il cuore. Cantavano una canzone insieme, ridendo follemente. Cercai di immaginarli in quel frangente, loro due soli e il resto del mondo fuori. Nessuno aveva mai capito la loro relazione, eppure c'era un legame così profondo che proprio in quel momento lo sentivo sulla mia pelle. Lo vedevo negli occhi di mio fratello tutto quell'amore che non era mai riuscito a esprimere a parole. E lei ripeteva quanto amava la risata di Sam, lui le chiedeva se ricordava i loro momenti insieme, se li avrebbe ricordati.
"Certo che me li ricordo, tutti quanti", aveva risposto Katherine. Guardai Sam, gli occhi verdi colmi di lacrime, mentre tratteneva il respiro. Si stava spogliando dei suoi sentimenti come mai aveva fatto e fu facile comprendere ciò che stava cercando di dirle.
"Ogni momento vissuto con te..." La voce di Sam si spezzò, sembrava stesse trattenendo le lacrime, nonostante fosse registrata. Si sentì Kat ridacchiare e poi lo schiocco di un bacio. Ero pronta a giurare che Sam le avesse accarezzato il viso, che l'avesse guardata con gli occhi lucidi, colmi di amore e dei sorrisi di lei. "Non posso credere di averti incontrata, io non ti merito" Sussurrò lui. "Però per te ruberei la luna, lo sai vero?"
"Lo so Sammy. E io non mi sono mai sentita così viva come quando stiamo insieme. Respirala un po' questa vita che mi regali senza nemmeno saperlo. E guarda che bella la luna" Gli disse.
Sam, mentre ascoltavamo, aveva le mani posate sugli occhi e singhiozzava in silenzio, mentre nessuno di noi osava parlare. C'erano solo le loro voci e lui che sembrava quasi dirle che voleva amarla fino alla fine dei suoi giorni, nonostante credesse di non essere capace di farlo. Ma come si sbagliava, quanto si sbagliava e non lo sapeva. Sam sapeva amare in un modo inspiegabile a parole, per quello non lo riusciva mai a dire, perché lo diceva guardandoti, arruffandoti i capelli, abbracciandoti e guardando il cielo insieme a te, in silenzio.
"Non voglio dover vivere la mia vita pensando che tu non sia più con me" Bisbigliò alla fine Sam.
"Nemmeno io." Calò di nuovo il silenzio.
La registrazione si fermò.
Si sentivano solo le lacrime di Vanessa, in quel momento, abbracciata a Carter che piangeva con il viso basso. Mi ero avvicinata a Sam e avevo stretto la sua mano, lo tenevo stretto a me mentre attutivo i suoi singhiozzi con le mie braccia e con le mie carezze. Non riuscivamo a smettere di piangere, anche Ben era rimasto fermo e immobile a fissare il vuoto, gli occhi riempiti dalle lacrime e probabilmente dai ricordi. Era inginocchiato a terra, i ricci smossi dalla brezza estiva, le labbra dischiuse.
Nessuno di noi osava dire una parola, nessuno di noi muoveva un muscolo.
Fu il suono di una chitarra a rompere il silenzio e quando alzai lo sguardo vidi Ryan, seduto a terra, la chitarra fra le braccia e lo sguardo al cielo. Aveva le guance rigate dalle lacrime e gli occhi chiusi, suonava le note di quella canzone che era incisa sulla nostra pelle, dedicata a lei e un po' a tutti noi. - Lei non faceva altro che raccontarci storie e voleva che noi le dicessimo che l'indomani ci avrebbe trovati al suo fianco, a me lo diceva sempre - Sussurrò con la voce rotta dal pianto mentre suonava. - Cantate, ci sentirà -
Sam alzò la testa, incrociò lo sguardo di Ryan e gli sorrise. Con mia grande sorpresa fu lui il primo a unire la sua voce a quella di Ryan, seguito poi da ognuno di noi.
Gabriel si era avvicinato al suo migliore amico, inginocchio al suo fianco gli scompigliò i capelli e gli fece un dolce sorriso, di quelli che spezzavano il cuore per quanta tenerezza ci fosse racchiusa. Persino Richie e Arthur si unirono a quel canto disperato, con le parole urlate a voce alta come se volessimo essere certi che ci avrebbe sentiti.
La immaginai ballare in mezzo a noi, cantare con quel sorriso da angelo e quell'animo da uragano che portava sempre allegria, ovunque andasse.
Benjamin si alzò e si avvicinò a me, tese la mano e m'invitò ad alzarmi in piedi. Mi asciugò le lacrime e mi abbracciò in silenzio, cullandomi sulle note che suo fratello stava suonando.
Improvvisamente la malinconia si trasformò in qualcosa di più e sembrò che ognuno di noi fosse sommerso dai ricordi vissuti insieme, dalle notti trascorse a correre sotto la pioggia e a ballare sui tavoli dei locali.
Katherine fu la persona che eliminò ogni traccia di tristezza dai nostri volti e la trasformò in risate, solo attraverso i ricordi. Era incredibile.
Stretta a Benjamin, mentre le sue labbra accarezzarono lentamente le mie e si posarono delicatamente sulla mia pelle, ripensai a tutto ciò che avevamo vissuto, che avevo vissuto. A quanto l'amore, di ogni forma e colore, mi avesse salvata.
Mi era stato chiesto quale fosse per me il significato della vita e io non avevo saputo rispondere.
Mi era stato chiesto se sentissi la vita scorrere nelle mie vene, il mio cuore battere. Avevo risposto di no, perché non mi sentivo viva. Non lo sentivo il brivido della libertà, la voglia di ridere e assaporare i momenti uno ad uno.
Fu solo in quel momento che capii che vivere per me significava specchiarmi negli occhi del mio gemello e appoggiare la testa sul petto di Benjamin. Significava vedere Vanessa ridere, ascoltare Carter che mi raccontava i miti e le leggende che più lo appassionavano. Significava organizzare i viaggi con Arthur e litigare con Richie per cose senza senso.
Cantare a squarciagola mentre Ryan suonava la chitarra, guardare il cielo e osservarlo cambiare secondo dopo secondo. Vivere era pensare che Katherine fosse ancora al mio fianco e sorridere, immaginando che mi potesse vedere.
Significava ballare sotto la pioggia anche senza la musica, urlare in piedi su un pick up con degli sconosciuti e ridere, ridere di cuore.
Vivere era raccontare storie, scattare fotografie dei momenti più belli e riguardarle consapevoli che erano la mia storia, la nostra storia.
Vivere era potersi riflettere negli occhi delle persone a cui vuoi più bene al mondo e sentire finalmente di non essere più una storia triste, ma una con un lieto fine. Era provare dolore, cadere e rialzarsi. Era contare le stelle. Era correre a piedi nudi sulla sabbia, sentire il brivido di quel bacio dato al chiaro di luna, vedere l'oceano per la prima volta e sentirsi vicino all'orizzonte.
Era tatuarsi sulla pelle quella canzone che ti aveva rapito il cuore, quella che non smetteva mai di farti piangere.
Era dipingere gli attimi e racchiuderli nel suono di un pianoforte.
Vivere era immaginare di poter rubare la luna, su quella strada deserta, in completa solitudine.
E poi vivere era guardarsi indietro e vedere le persone che ami con la mano tesa verso di te, pronti a prendersi un po' del tuo dolore per farlo pesare di meno, per aiutarti a rialzarti.
Era aver capito che io le ombre le potevo comandare, perché ero la regina delle tenebre ed ero il petrolio fra la sabbia.
E in quel momento lo sentivo sul serio.
Saltavamo e ballavamo a piedi nudi nell'erba, al chiaro di luna in quella notte di mezza estate, urlando a squarciagola le parole di quella canzone che era diventata il nostro salvagente. Abbracciati l'uno all'altro, felici di essere vivi. Eravamo un gruppo di persone che, in qualche modo, si erano sempre sentite escluse e senza un posto nel mondo. Ci aveva unito il dolore, la vita che aveva spezzato ognuno di noi in qualche modo. Ma in quel momento, stavamo ridendo a squarciagola e cantando come se non ci fosse niente che potesse ferirci, mai più. - Tell me about tomorrow, tell me about tomorrow - Alzai il viso al cielo e sorrisi. Sorrisi alla mia vita, a cuor leggero.
Incrociai lo sguardo di Benjamin che ora rideva con suo fratello, mentre Sam mi avvolgeva in un caldo abbraccio e poggiava la testa sulla mia spalla, ripetendomi ancora una volta quanto mi amasse. Sentii la risata di Vanessa e Carter, quella di Richie e Arthur e gli occhi mi pizzicarono per la commozione, per la gioia.
Perché la sentivo quella felicità, perché lo sentivo nelle ossa il brivido della vita.
FINE.
Spazio autrice:
Non credo siano necessarie molte parole.
Voglio solo ringraziare tutti voi dal profondo del mio cuore per il tempo che avete dedicato a me, alla storia, a questi personaggi. Avete dato tanto amore, a tutti loro.
Spero di potervi regalare presto il cartaceo, ma nel frattempo quando più vi sentite soli, persi, quando avete voglia di mollare tutto, tornate a rileggere queste righe e fate un sorriso.
Si può uscire dal tunnel, non esiste solo il buio, non scordatevelo mai.
Volevo che vi rendeste conto di non essere soli, che la forza dell'amore può fare qualsiasi cosa sì, ma a volte non basta.
So che l'ho ripetuto mille volte, ma lo farò ancora una volta. Ve lo dico con il cuore in mano, da persona che sa perfettamente di cosa sta parlando, molto più simile ai suoi personaggi di ciò che si possa anche solo lontanamente immaginare, CHIEDETE AIUTO.
Fatevi aiutare, non arrendetevi, mai.
Spero che Benjamin, Victoria, Katherine, Sam, Vanessa, Carter, Ryan, Arthur e tutti gli altri in qualche modo vi abbiano insegnato qualcosa. Spero che nel loro piccolo loro vi abbiano aiutato, nel mio piccolo di avervi lasciato qualcosa di importante che porterete sempre con voi.
Ancora non posso credere che sia finita.
Un viaggio di quasi tre anni è giunto al termine e sono qui con le lacrime agli occhi e con il cuore in mano a salutare le mie persone insieme a voi.
Dal profondo del mio cuore, io ringrazio per tutto.
Ci sentiamo presto con le novità del momento.
Se aveste bisogno, in qualsiasi momento, non esitate a scrivermi.
Vi voglio bene, grazie di tutto
ila
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