CAPITOLO VENTI - city of fallen angels
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abbiamo anche una pagina tik tok, nel caso foste interessati e aveste l'app il nick è lo stesso del mio nome wattpad: wendygoesaway.
Buona lettura! 💘
spazio autrice:
ciao bellissimi angeli!
questo capitolo contiene molti feelings, soooo calm down mentre leggete e fatemi sapere cosa ne pensate con commenti e stelline!
mi rendo conto che la situazione si fa sempre più complessa, è difficile anche per me.
ilysm angels
alla prossima <3
ila
x
ps: scusatemi per gli errori di battitura, sicuramente immancabili.
CAPITOLO VENTI – city of fallen angels
Shout out to the old me and everything he showed me, glad you didn't listen when the world was tryna slow me.
benjamin
Estate 2010: 9 luglio, dreamteam.
Me ne stavo seduto a terra a fissare la mia tastiera come se fosse fatta d'oro. Sfioravo i tasti meravigliato, con le lacrime agli occhi, senza sapere cosa dire. Ryan stava suonando e cantando per augurarmi buon compleanno e sentivo l'eco delle risate di mia madre e mio padre che mi osservavano mentre io, a mia volta, ero incantato dalla mia nuova tastiera. C'era della magia nell'avere il proprio sogno stretto fra le mani, della poesia fra le note degli spartiti musicali, la gioia più grande nel mio cuore. Non avrei mai pensato che mamma e papà mi regalassero una tastiera: sapevo fosse un regalo costoso e già ero infinitamente grato per le lezioni di piano, ma così mi avevano reso il bambino più felice del mondo.
- Allora? - Domandò mio padre accucciandosi accanto a me. - Che mi dici, ti piace? -
Alzai la testa sotto gli sguardi curiosi di mio fratello e mia madre, e incontrai gli occhi scuri di papà. Quando vide la mia espressione meravigliata, mi arruffò i capelli, lasciando che i miei ricci ribelli ricadessero sulla mia fronte. - Non so che cosa dire – Risposi battendo le palpebre e tornando ad osservare il mio regalo. Mi tremava la voce per l'emozione, il mio cuore batteva fortissimo ed ero davvero senza parole. - Vi voglio bene, grazie, è il regalo più bello che mi potessero fare. - Sussurrai posandola sul pavimento.
A quelle parole, mia madre si posò una mano sul cuore, papà sorrise raggiante e mi baciò la testa, mentre Ryan, dopo aver posato la chitarra, mi rotolò addosso schiacciandomi a terra e sedendosi sulla mia pancia. Strillai a causa della sorpresa e tentai di scacciarlo con le mani, suscitando il suo divertimento e le risate di tutti, soprattutto quando mi tirò le orecchie. - Adesso il piccolo Ben può suonare la sua canzone per la piccola Jenny! - Esclamò divertito. - Ma quanto sei dolce? - Continuò divertito.
- Adesso ti tiro un calcio volante e ti atterro – Borbottai scacciandolo e sbuffando teatralmente. Me lo levai di dosso e gli rotolai sopra, dando vita così a una lotta costituita da risate, capriole e prese in giro.
- Ci suonate qualcosa? Stiamo aspettando! - S'intromise la mamma una volta che io e Ryan decidemmo di mettere fine al nostro momento di pazzia.
Ryan prese la chitarra e mi sorrise dolcemente, sedendosi accanto a me su una sedia, mentre io posavo la tastiera sul tavolo e accarezzavo, nuovamente, i tasti. Io e mio fratello provammo a suonare una canzone che avevamo composto con l'aiuto di papà, una ninna nanna che ci cantava sempre la mamma, noi tre l'avevamo trasformata in una musica.
Era come se tutti e quattro avessimo composto una canzone, un pezzo di cuore ciascuno, e vedere l'espressione sul viso dei nostri genitori quando capirono che canzone fosse, mi rese il bambino più felice del mondo. Non ero solito esprimere i miei sentimenti, ero abbastanza chiuso, loro lo sapevano, soprattutto quando mi sentivo estremamente pieno di emozioni come in quel momento, tanto che faticavo anche a parlare per quanto il mio cuore batteva forte. Avrei voluto rendere eterno quell'attimo pieno di felicità, perchè era stato il giorno più bello della mia vita.
- Buon compleanno, fratellino – Sussurrò Ryan lasciando andare la chitarra e osservandomi con orgoglio. Ero contento che fosse proprio lui mio fratello, per me era un punto di riferimento, e nonostante litigassimo ogni minuto del giorno, era comunque la persona più importante della mia vita. Quel giorno mi resi conto che avere un fratello era un dono, che avrei fatto qualsiasi cosa per lui, perchè prima o poi saremmo rimasti soltanto io e lui e avrei avuto bisogno di quella parte di me che mi avrebbe aiutato a non perdermi mai, e a rialzarmi o ritrovare la strada di casa, nel qual caso mi fossi allontanato troppo.
Credevo che fosse più semplice odiare una persona, piuttosto che ammettere quanto mi mancava.
C'erano giorni, come quello, in cui pensavo a quanto avrei desiderato ricordare ogni singola cosa che avevo vissuto. Con il tempo avevo imparato a dare più valore ai ricordi, perchè mi ero reso conto che tendevano a sbiadire, purtroppo. Era per quello che la fotografia, nella mia vita, era sempre stata fondamentale. Il ricordo era un po' come una fotografia: nel corso del tempo si sgualciva, si rovinava, si faceva sempre meno nitida. Ricordare era la mia ossessione, fin da bambino. Ed in quel momento, nel giorno dell'anniversario della morte di mio padre, la tristezza del non ricordare più la sua voce, non mi dava pace. Le vecchie fotografie mi aiutavano a dar vita ai miei ricordi, ero convinto che mantenessero l'amore di mio padre, tutto ciò che mi aveva insegnato, la nostra vera essenza. Papà mi aveva detto che le fotografie erano qualcosa di puro e genuino, che ognuno di noi faceva per se stesso, racchiudevano ciò che eravamo stati, e il percorso che avevamo fatto per arrivare fino a quel momento. Non cambiavano mai, la spontaneità dei momenti era l'essenza della vita stessa, dell'amore, del più genuino e spontaneo dei sorrisi, un momento incastrato in un limbo temporale dove la tristezza non esisteva, dove il cuore non si spezzava mai. Il dolore bussava alle porte del mio cuore mentre cercavo di sforzarmi di ricordare tutti i momenti con papà e andando avanti a sfogliare le vecchie polaroid, mi rendevo sempre più conto di quanto i miei ricordi stavano sbiadento, di quanti vuoti di memoria avevo. Alcune foto rimanevo a osservarle più del dovuto, spremendo le meningi e fissandole sperando di ricordare in quale momento fossero state scattate, ma a volte era inutile. Scoprii persino di aver scordato il volto di alcuni amici d'infanzia, di altri il nome, qualcuno, invece, era come se fosse uno sconosciuto, non lo ricordavo affatto.
M'imbattei casualmente in una fotografia di me e mio fratello: era una vecchia polaroid scattata nel salone della casa di Hamilton. L'aveva fatta papà e la mamma aveva girato un video, nel giorno del mio compleanno. Io e Ryan eravamo seduti a terra: mio fratello sorrideva e stringeva la sua chitarra fra le braccia, più grossa di lui a dire la verità, ed io avevo la mia prima tastiera posata sulle gambe. Me l'avevano regalata per il mio decimo compleanno: prendevo lezioni di piano dall'età di sei anni, menre Ryan stava imparando a suonare la chitarra con papà, da autodidatta. Ricordavo che mamma gli aveva proposto di prendere lezioni, ma lui aveva rifiutato, dicendo che non serviva, dato che papà era capacissimo di insegnarglielo. In realtà, mi aveva rivelato che non voleva far spendere ulteriori soldi a mamma e papà e che desiderava che continuassi a prendere io le lezioni di piano. Si era sacrificato per me, perchè io sapevo quanto tenesse alla sua chitarra, quanto gli piacesse, ma aveva comunque scelto di non prendere lezioni per rendere felice me. Ricordavo le ore che passava
a suonare, a canticchiare e creare melodie, a volte fino a quando non gli sanguinavano i polpastrelli. Aveva le dita piene di cerotti, che portava per continuare a pizzicare le corde, e suonava in continuazione, a volte anche per farmi addormentare.
Girai la foto e sul retro trovai una scritta, con la calligrafia di mio padre. Quella sola vista mi bastò per far sì che si stringesse il nodo in gola, e fui costretto a sfregarmi gli occhi e deglutire con forza, pur di non piangere. Sfiorai la foto e sorrisi, abbandonandomi al ricordo di quel giorno sdraiandomi sul letto e posando la polaroid sul mio cuore mi addormentai pensando a quanto desiderassi riavere quegli attimi di pura e inccocente felicità ancora una volta. Mi mancava mio padre, mi manca mia madre e mi mancava condividere le risate con mio fratello. Ero stato troppo occupato ad odiarlo per ciò che era successo e per le scelte che aveva fatto, senza pensare a quanto avessi bisogno di lui e a quanto mi mancasse, senza pensare che, forse, anche lui aveva bisogno di me.
Un rumore improvviso mi portò ad aprire gli occhi e scattare a sedermi come una molla, spaventato dal frastuono che avevo sentito. Mi sfregai il viso, soprattutto gli occhi, e misi a fuoco le immagini: ero ancora nella mia stanza, mi ero addormentato probabilmente, l'album delle vecchie fotografie era accanto a me aperto e capovolto, e davanti a me c'era mio fratello Arthur. Aveva posato un vassoio sulla scrivania, ma si era ribaltato il portapenne, cadendo a terra e rovescandone tutto il contenuto sul pavimento. Arthur era piegato sulla schiena a raccogliere le penne, quando io arricciai il naso e sorrisi lanciandogli un cuscino in testa e facendolo sbilanciare perdendo l'equilibrio. - Questo è per avermi svegliato. - Rettificai alzandomi e camminando verso di lui per aiutarlo.
Mio fratello, per tutta risposta, mi lanciò addosso una penna colpendomi in pieno sulla fronte e ridacchiando dopo aver visto la mia espressione interdetta e indignata. - Questo è per avermi fatto finire con il culo all'aria – Disse sollevando il dito medio e facendomi una linguaccia. - So che oggi è un giorno particolare e in cui di solito stai da solo, ma ho pensato che forse condividendo un toast all'avocado con il tuo fratellino preferito avrebbe fatto meno male. L'ho letto su internet: quando si soffre non bisogna mai stare da soli. -
Scoppiai inevitabilmente in una fragorosa e divertita risata, pensando a quanto grato fossi alla vita per avermi regalato una persona pura come lui proprio nel momento in cui più ne avevo bisogno. Lui, Elizabeth e Leonard erano stati il mio salvagente quando pensavo di aver perso tutti, non gli sarei mai stato abbastanza grato. - Avete messo i pomodorini? - Domandai raddrizzando la schiena per spiare sul vassoio.
- Mamma ha fatto il guacamole – Rispose osservandomi.
Balzai in piedi prendendo entrambi i toast e dando un morso al mio panino, senza però levare dalla mano l'altro e tornando subito dopo a sedermi per terra. - Allora li mangio tutti e due io. - Esclamai contento.
- Anche no? - Borbottò dandomi un calcio sullo stinco e rubandomi il panino mentre io, quasi, mi strozzavo. - Che stavi facendo? - Chiese poi dando un'occhiata alla stanza.
- Niente di particolare, pensavo ai miei genitori – Lo informai prima di addentare di nuovo il toast e osservando i suoi vispi occhi azzurri scrutarmi con estrema attenzione. - E a mio fratello Ryan. -
- Ma che schifo Benjamin! - Esclamò quando mi vide fargli una boccaccia mentre ancora stavo masticando. - Chiudi la bocca quando mangi, schifoso! - Fargli i dispetti era delle cose più divertenti da fare durante la giornata. - Ti manca? - Mi chiese poi tornando serio. - Tuo fratello dico. -
Sospirai scostando lo sguardo dai suoi occhi, a un punto fisso dinanzi a me. - Giorno e notte, a dire la verità. - Sospirai e abbassai gli occhi mordicchiandomi la guancia internamente, poi tornai a osservare Arthur. - Secondo te ho sbagliato l'approccio con lui? -
- Devo essere del tutto onesto? - Domandò passandosi una mano fra i capelli e scrocchiando la schiena. Annuii e lasciai che mi osservasse qualche istante, come se stesse valutando le parole giuste o quelle più indicate. A giudicare dalla sua espressione sembrava volesse essere delicato, ma dubitavo lo si potesse essere in una situazione come quella. - Sì. - Disse alla fine in un sospiro. - Da una parte capisco la tua reazione, Ben, davvero, ma dall'altra no. Io non me la sono sentita di mettermi in mezzo perchè Ryan non è mio fratello, ma tu sì. Tu sei la mia famiglia ormai, e ho imparato a conoscerti e a capirti: sapevo che prima o poi ti saresti pentito. Ha fatto degli errori, sono d'accordo con te, ma li abbiamo fatti tutti, tu compreso. Siamo umani, la vita è fatta anche per sbagliare e imparare dai propri errori. Nessuno è perfetto, ma le persone che ti amano veramente una seconda occasione te la danno. Io sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui avresti iniziato a ricrederti, e ci siamo proprio adesso. Invece che aggredirlo, prova a comprenderlo. Cerca di capire se dietro questa facciata che vediamo, c'è di più. Sono convinto che sia così, lo vedo nei suoi occhi che non è una persona cattiva e che ti vuole bene, c'è una luce nel suo sguardo, cercala anche tu e prova a comprenderlo. -
- Tu vedi la luce in chiunque – Ridacchiai scuotendo la testa. - Comunque, stavo pensando a quello che mi hanno detto lui e quell'imbecille di Gabriel, e vorrei saperne di più. - Arricciai il naso al ricordo di qualche giorno prima, infastidito da come aveva turbato Victoria.
- Che ha fatto ancora? - Mi domandò quasi impaurito per la mia espressione.
- Ha spaventato Victoria, all'upper queen's park ed è stata male, parecchio male. Non mi va di entrare nei dettagli, ma sappi che era pieno di gente che ovviamente ci guardava come se le stessimo facendo del male, quando in realtà io e Sam stavamo solo provando ad aiutarla. Non so come ci sia arrivato da lei, mi sono accorto per caso. - Gli spiegai tossicchiando e bevendo un sorso di aranciata. - Sam mi era venuto incontro per spiegarmi cosa fosse successo dal dottor Dustin, eravamo a venti metri da lei, forse neanche, ma ero così preso dalla conversazione che mi è sfuggito quel dettaglio biondo e fastidioso come la rucola in un panino. -
- Ma siete deficienti o che cosa? - Sbottò mio fratello. - Ma con quale testa lasciate Victoria da sola? - Esclamò sollevando le sopracciglia e battendo le palpebre confuso. - Va beh guarda, non vi commento neanche più, siete due stupidi. -
- E che doveva fare? Raccontarmi che era scappata dalla seduta psichiatrica perchè aveva avuto un'allucinazione mentre lei era accanto a noi? Non credo l'avrebbe presa bene, considerando che continua a ripetermi che si sente una pazza. - Risposi indignato dai suoi insulti.
- Questa parentesi a parte, hai provato a cercare informazioni su Vincent? - Mi chiese guardandomi negli occhi.
- E dove le cerco scusa? So poco e niente di lui, se non quello che voleva che io sapessi. - Lo informai sbuffando indispettito.
- Allora sei proprio un cretino – Affermò esasperato. - Dov'è che cercano informazioni tutti quanti? Usa il cervello una volta tanto santo cielo! - Continuò inginocchiandosi e prendendo il mio computer dalla scrivania. - Basta scrivere Vincent Turner su internet, qualcosa ti uscirà. - Borbottò qualcosa e poi si mise a battere le dita sulla tastiera, concentrato. Girò il pc verso di me e mi mostrò tutti i risultati che aveva trovato.
Passammo un'ora ad analizzare tutte le testate giornalistiche, tutti i risultati, ma senza trovare nulla che già non sapessi. Era ricercato da quasi tre anni, grande spacciatore, da alcune indagini della polizia sembrava che il suo grande progetto si fosse realizzato, e si ipotizzavano fin troppe cose. Pensavano che avesse aperto una casa di appuntamento, un luogo dove vivono le prostitute, e si pensava che uno dei possibili reati fosse il favoreggiamento alla prostituzione. - Okay basta – Esclamai allontanando il computer. - Mi fa male la testa e mi viene da vomitare per tutta la merda che sto leggendo. - Sbottai esasperato.
- Ma scusa un secondo – Disse mio fratello grattandosi la testa. - Ma non ne avranno parlato al telegiornale? Voglio dire, se un ricercato nazionale come lui muore, sicuramente finisce in tutte le testate giornalistiche televisive – Si voltò a fissarmi come se fosse una cosa ovvia, ma il problema era che io non ero convinto fosse così ovvio. Poteva anche aver cambiato nome, anzi, se era davvero furbo come pensavo lo aveva sicuramente fatto: essere latitante e scappare senza documenti falsi è da imbecilli, per cui aveva sicuramente cambiato nome. Vincent era furbo, magari il suo nome non era nemmeno quello.
- Non lo so – Replicai sospirando. - Senza contare che non guardo il telegiornale da quando la mia faccia e quella di Victoria sono finite in televisione. - Eravamo tutti al corrente di quella cosa: Leonard aveva fatto di tutto per manetenere il silenzio stampa dopo l'accaduto, ma purtroppo la sera della sparatoria era finita ovunque. Il processo era stato privato, la stampa aveva mantenuto il silenzio come richiesto dagli avvocati, ma restava il fatto che tutti sapevano che eravamo coinvolti in una sparatoria, infatti ci avevano espulsi dal college, entrambi, ma non Sam.
Arthur si lasciò sfuggire una risatina, più iserica che altro, poi si voltò ad osservarmi come se avesse avuto un'illuminazione improvvisa. Con l'immaginazione potevo anche vedere la lampadina sulla testa. - Ma Katherine? - Domandò osservandomi attentamente.
- Cosa ha Katherine? - Ero confuso: cosa c'entrava Kat in quel momento?
- Puoi provare a chiedere lei, capire cosa sa, se sa qualcosa... - Lasciò la frase in sospeso e poi si mise a fissare un punto indefinito davanti a se, distogliendo lo sguardo dal mio e passandosi la mano sul viso. - Ma poi scusa, suo padre non è mica il capo del dipartimento di polizia? -
- Cazzo – Esclamai spalancando gli occhi. - Ma cazzo! - Continuai fissando mio fratello sbalordito. - Ma perchè non ci ho pensato prima? - Mi avvicinai ad Arthur, gli presi il viso tra le mani e gli baciai la fronte, poi lo abbracciai. - Tu sei un genio! Sei un fottuto genio. Io ti amo Arthur, veramente, ti amo. -
- Non sono io un genio – Rispose ridendo e sistemandosi i ricciolini – Sei tu che sei stupido -
Feci una smorfia ma poi pensai che sotto sotto aveva ragione. Fino a prova contraria, fra tutte le opzioni che avevo valutato, parlare con Katherine e suo padre non l'avevo pensato. Senza contare che mi ero proprio dimenticato che il padre di Kat fosse il capo del dipartimento della polizia. Era arrivato il momento di fare due chiacchiere a tu per tu con una delle mie migliori amiche e con suo padre.
***
Scesi dalla macchina dopo aver parcheggiato di fronte a casa della mia amica. Sentii il telefono vibrare in tasca, e lo tirai fuori sorridendo e convinto si trattasse di Victoria, ma quando lessi il numero sconsosciuto sul display rimasi a fissarlo qualche istante, confuso. Arricciai il naso senza sapere bene cosa fare, tanto che alla fine non feci in tempo a ridere perchè avevano già interrotto la comunicazione. Non ero solito rispondere ai numeri sconosciuti e poi, se fosse stato qualcuno che conoscevo, avrei di certo salvato il numero. Non feci a tempo a rimettere il cellulare in tasca che mi richiamò lo stesso numero e, alla fine, risposi. - Pronto? - Borbottai confuso e appoggiandomi al cruscotto della macchina approfittandone per accendere una sigaretta.
- Ciao Benjamin, sono il dottor Dustin – Corrugai la fronte, impallidendo seduta stante e fissai l'asfalto scostandomi dalla macchina sentendo già il cuore pulsare intensamente. - Sei Benjamin, vero? -
Dopo la sua domanda mi resi conto di essere rimasto in silenzio e, dopo qualche istante, scossi il capo e annuii. - Sì, sì – Dissi. - Mi scusi dottore, sì sono io. È successo qualcosa a Victoria? - Domandai preoccupato e già con le chiavi dell'auto di nuovo alla mano.
- Sì – Replicò. - O meglio non proprio. - Deglutii profondamente attendendo la spiegazione e prendendo un respiro profondo provando a non andare nel panico ancora prima del tempo. - Senti nel tardo pomeriggio vado dagli Hastings a spiegare un paio di cose alla famiglia, ma avrei bisogno di parlare anche con te. La situazione è cambiata e ho bisogno del massimo aiuto esterno. Ho bisogno di parlare con tutti voi, raggiungimi verso le sei circa, così riesco a parlare con loro e poi anche con te. -
- Ah – Risposi battendo le palpebre e sospirando. - Certo, va bene, nessun problema. - Gli dissi agitandomi e con il cuore che batteva a mille.
- Perfetto, grazie per la tua disponibilità, ci vediamo stasera allora. - Non mi diede il tempo di rispondere, perchè mise fine alla chiamata e mi lasciò nell'assoluto e ansioso silenzio, mentre la mia mente iniziava a viaggiare e a fare le peggiori ipotesi.
Alla fine scossi il capo, arricciai il naso, presi un respiro profondo e mi recai a suonare il campanello della mia amica sperando fosse in casa.
- Benjamin, ciao – Esclamò sorpresa quando mi vide davanti al cancello. - Che ci fai qui? È successo qualcosa a Vic? - Mi chiese con aria preoccupata. - Vieni entra, non stare lì come un fesso. - Disse ridacchiando divertita.
- Se è successo qualcosa a Victoria ancora non lo so. - Le spiegai sospirando ed entrando in casa. Infilai le mani in tasca e deglutii con forza osservandola attentamente. Aveva i capelli color cenere legati in un cipollotto un po' disfatto, qualche ciocca le ricadeva sulle spalle in maniera molto delicata e la frangetta sbarazzina andava un po' ovunque. Indossava un pigiama rosa con la canotta e i pantaloncini, avvolta da una vestaglia. Era a piedi scalzi e stringeva gli occhiali fra le mani, facendomi dedurre che stesse studiando. - Te lo saprò dire stasera. Ma comunque non sono qui per lei. - Mi guardai un po' attorno sospirando e tornando a posare gli occhi nei suoi verdognoli solo dopo qualche istante. - Ti ho disturbata? Sei sola? -
- No, no nessun disturbo, stavo solo studiando per l'esame della prossima settimana. - Mi spiegò con un sorriso mentre ci spostavamo verso la cucina. - C'è papà di sopra, fra un'ora però se ne andrà. Dimmi tutto. Ti va un caffè nel frattempo? - Mi chiese gentilmente.
- Volentieri, grazie. - Percepivo un certo imbarazzo, ad essere onesto. L'ultima volta che io e lei eravamo rimasti da soli nella stessa stanza avevamo litigato per mio fratello, mentre in quel momento ero lì per chiederle aiuto per salvare il salvabile. - Sono qui per mio fratello Ryan. -
Soltando sentendolo nominare il sorriso luminoso che la caratterizzava sparì dalle sue labbra. Katherina era quel tipo di persona che possedeva una particolare luce, che avevo sempre pensato fosse in grado di illuminare anche chi le stava vicino. Da una parte mi faceva piacere che Ryan si fosse innamorato di lei, pensavo che fosse la persona giusta per riportarlo sulla retta via, ma dall'altra sospettavo che stesse accadendo il contrario, anche se non ne ero del tutto certo. Kat aveva la luce della luna nel cuore, la sua stessa purezza, lo stesso modo di illuminare la vita degli altri soltanto avendola vicina. - Ben ti prego, non mi va di litigare ancora per questo. -
- Sei fuori strada amica mia – Le risposi sorridendole e sedendomi quando mi allungò la tazza di caffè. - Sono qui perchè ho bisogno del tuo aiuto. - Attesi che mi guardasse negli occhi e si addolcisse nuovamente, in modo da riuscire a farle capire che ero sincero e soprattutto ero disperato. - Rivoglio mio fratello Kat, e ho bisogno di te. Sei la persona più vicina a lui, per favore, aiutami. -
A quel punto mi sorrise e strinse leggermente la mia mano, annuì e prese un profondo respiro. - Cosa posso fare per te? -
- Cosa sai di Vincent? - Le domandai deglutendo il groppo che avevo in gola. - Voglio dire, sai qualcosa riguardo quello che ha combinato e in cui ha coinvolto mio fratello? -
- In realtà non molto – M'informò grattandosi il mento pensierosa. - Mi ha parlato di lui, però non si è espresso più di tanto su quello che faceva. Cioè mi ha detto che c'entra con il suo arresto, nel senso che stava facendo una commiossione per lui quando lo hanno beccato. So che lo faceva spacciare e che era un trafficante di droga che a quanto pare, al momento, è ricercato. -
- Esattamente quello che so io – Sbuffai infastidito e prendendomi la testa fra le mani. - La sola differenza è che Ryan e Gabriel sono venuti a dirmi che è morto e che dovevo stare attento. -
- In che senso è morto? - Domandò scioccata. - Ma quando? E quando hai conosciuto Gabriel scusami? - Continuò battendo le palpebre sempre più sconvolta. Quindi conosceva Gabriel anche lei.
- In realtà mi è piombato in casa insieme a mio fratello, non è che avessi molta scelta. - Risposi tossicchiando. - Circa un mese fa, pensavo lo sapessi. Ti ha detto almeno della mamma? -
- Tipico di Gabriel – Disse scuotendo il capo. - Sì, di lei me lo ha detto. È corso qui piangendo, il giorno in cui lo ha scoperto. Anzi, mi dispiace. Avrei voluto dirtelo prima ma sai... - Mi scrutò attentamente e si morse leggermente il labbro. - Tra Victoria e il fatto che pensavo mi odiassi per la storia di Ryan, non sapevo bene cosa dire e come comportarmi. -
Le sorrisi facendo spallucce e la osservai nello stesso modo in cui lei stava osservando me. - Tranquilla, non c'è problema. - Distolsi lo sguardo e mi soffermai a fissare un punto indefinito nel vuoto. - Almeno lui te lo ha detto, io non ho ancora avuto il coraggio di dirlo a Victoria. Non voglio addossarle anche i miei problemi in questo momento, credo ne abbia abbastanza dei suoi. Aspetterò che stia un po' meglio, poi glielo dirò. -
- Avrei fatto lo stesso al tuo posto – Mi disse sospirando. - Anche se nei panni di Victoria mi sentirei un po'... Non so, forse esclusa. -
- Cercherò di fare il possibile per proteggerla, in questo momento ha bisogno di occuparsi di se stessa e ha bisogno di me al cento per cento. - Replicai piegando la testa di lato. - Voglio scoprire se Vincent è davvero morto e voglio scoprire una volta per tutte in cosa è stato coinvolto mio fratello, chi è Gabriel e quello che è successo a mia madre negli ultimi anni da quando se n'è andata con Vincent. Tu cerca di stare attenta Kat, questa storia non mi piace e non voglio che tu ti metta in pericolo per salvare mio fratello, è compito mio. -
- Ben... - Kat scosse il capo e mi guardò con aria arrendevole, come se sapesse che la mia testardaggine alla fine avrebbe vinto su tutto il resto. Kat mi conosceva abbastanza bene da sapere che non mi sarei dato per vinto e soprattutto da sapere che quando mi puntavo su qualcosa, quando volevo qualcosa, facevo di tutto per ottenerla. - Hai promesso di starne fuori. - Mi disse semplicemente. - Non hai pensato che forse te lo sta chiedendo semplicemente per proteggerti? -
- Katherine, è di mio fratello che si tratta. Dell'unica famiglia che mi resta. - Sussurrai guardandola negli occhi. - Io so che c'è qualcosa che non va, qualcosa che non mi torna in tutta questa storia e non mi interessa cosa mi hanno chiesto di fare. Se mi stanno proteggendo voglio sapere da cosa sentono il bisogno di farlo, è una mia scelta, non sua. Se invece mi sta mentendo, se è coinvolto in qualcosa di illegale, lo faccio arrestare di nuovo ma stavolta sarò presente in ogni passo che farà. Non sono stato un buon fratello, l'ho lasciato da solo ad affrontare qualsiasi cosa stia affrontando e mi sento uno schifo per questo. Voglio salvare ciò che resta della mia famiglia, cerca di capirlo e lasciami fare, ti prego Kat. Per favore, so che ti sto chiedendo molto e ti sto praticamente supplicando di fare il doppio gioco, ma aiutami. Lasciami parlare con tuo padre, gli spiegherò la situazione senza metterti in mezzo. -
Katherine, alla fine, si passò una mano sul viso e annuì, ancora titubante. - Va bene ti aiuterò. - Bisbigliò alla fine. - Ti chiedo solo un favore: lui non sa di Ryan. Ho paura che sapendo che stiamo insieme dia di matto, sai com'è mio padre: ogni volta che entra un ragazzo in casa nostra va a cercarlo nei database della polizia. - Roteò gli occhi e sbuffò, come se stesse cercando di dirmi che avere un padre poliziotto non sempre era una cosa buona.
- Io non ho la fedina penale pulita – Le dissi indicandomi e sorridendole.
- Credo che tu gli piaccia, infondo. - Rispose ridacchiando. - Ben un'ultima domanda. - Sapevo già cosa volesse chiedermi, me lo sentivo. Lei non era l'unica a conoscermi a fondo. Annuii e le intimai di chiedermi tutto ciò che desiderava, così lei lo fece. - Secondo te è possibile amarli entrambi? -
Rimasi ad osservarla a lungo, prima di risponderle. Non mi era mai successa una cosa del genere, per cui non sapevo se fosse possibile oppure no. Però conoscevo mio fratello, e avevo imparato a comprendere Sam. Entrambi amavano Katherine alla follia e dopo tutto il tempo che io e lei avevamo passato insieme, sapevo perfettamente che non stava prendendo in giro nessuno dei due. Sapevo anche che sia Sam che Ryan erano al corrente dei sentimenti di Katherine nei confronti di entrambi e che probabilmente erano troppo innamorati per chiederle di scegliere, oltre al fatto che lei era troppo coinvolta per poterlo fare. Era una persona troppo preziosa per ferirla in quel modo, ed era proprio per quello che nessuno dei due le aveva chiesto di scegliere. - Tutto ciò che so sull'amore l'ho imparato stando con Victoria. - Le dissi. - Mi hanno sempre detto che si può amare più di una volta nella vita, che si possono amare persone diverse anche, ma in modo del tutto diverso. Io non so se è possibile amare due persone nello stesso momento, ma posso dirti come la vedo io e quello che vedo io. Ti ho visto insieme a Sam, ti ho vista innamorarti di lui piano piano, come quando nasce un fiore, e poi profondamente. Lo vedo come lo guardi, come sorridi quando stai con lui, quella luce nei tuoi occhi, ed è la stessa che so di aver io quando sono accanto a Victoria. So anche che mio fratello ti ama e al contrario di quello che pensa Sam, non credo ti faccia del male. Io penso soltanto che tu sia legata a lui per motivi che non sappiamo, e che non sono nessuno per giudicare le tue scelte, o ciò che è meglio per te. Ti chiedo soltanto di provare a metterti nei loro panni e vederla come la vedono loro. Ti sei allontanata da Sam in un momento in cui lui aveva troppo bisogno di te e ti sei arresa, sbagliando. Non dovevi permettergli di respingerti, però lo hai fatto e nel frattemoi è arrivato Ryan. Non so cosa ci sia fra voi due, ma so che c'è stata una catena di eventi che ha spezzato il nostro equilibrio: se Paul non fosse scappato di prigione Victoria non avrebbe scoperto di avere un gemello, se quella sera non si fosse fatto vedere non avremmo scoperto che quel gemello è sempre stato Sam. Se Sam non lo avesse scoperto, se la sua vita non fosse stata distrutta in un nano secondo, con una semplice parola, non si sarebbe spezzato così tanto e non si sarebbe allontanato da te; se non si fosse allontanato da te, tu non avresti incontrato mio fratello e non staresti con lui adesso, e se non ti fossi avvicinata a lui io non avrei mai scoperto del suo ritorno. È una catena, se d'oro o di ferro quella che ti lega loro, devi essere tu a deciderlo. Lascia che il tuo cuore scelga per te, uno dei due soffrirà inevitabilmente, ma è meglio soffrire per la verità che vivere nella bugia, guarda come sta Sam, dopo aver vissuto in una bugia per tutta la vita. - Conclusi con amarezza.
Katherine aveva gli occhi lucidi e si stava trattenendo un sacco, ma alla fine mi prese la mano e mi ringraziò in silenzio, mentre suo padre entrava in cucina e osservava la scena confuso. - Mi era perso di sentire delle voci! - Esclamò con voce roca. - Ciao Benjamin, non sapevo venissi -
- Salve signor Wilson, nemmeno Kat sapeva sarei venuto. - Lo informai osservandolo. Il padre di Katherine, Joseph Wilson, era un uomo che, non conoscendolo, metteva una certa paura. Aveva semppre una pistola infilata nella cintura dei pantaloni, schiena dritta, sguardo freddo e attento ai minimi dettagli. Assomigliava incredibilmente alla figlia: stesso colore di occhi, stesso colore di capelli, la sola differenza era che Kat aveva una spruzzata di lentiggini che lui non aveva. Il leggero accenno di barba gli donava, ad essere onesto, e dopo il modo bizzarro in cui lo avevo conosciuto non mi faceva più paura come all'inizio, anzi a tratti era anche divertente. - Sono qui perchè ho bisogno del suo aiuto, signore. -
- In cosa posso aiutarti Benjamin? - Mi domandò versandosi una tazza di caffè e sedensi a tavola con noi dando un bacio sulla testa a sua figlia.
Lo fissai attentamente per diversi istanti, distogliendo lo sguardo solo per lanciare un'occhiata alla mia amica che mi sorrise e, poco dopo, annuì decisa. - Vorrei che mi dicesse tutto quello che riesce a scoprire sul mio patrigno: Vincent Turner. Sempre che si chiami realtà così. - Gli dissi trattenendo il respiro. - Soprattutto se è davvero morto e come. Credo abbia cambiato nome quando hanno arrestato mio fratello e ho un brutto presentimento, mi può aiutare? -
Ci fu silenzio, all'inizio, ma dopo che terminò la sua tazza di caffè scrocchiò la schiena e mi guardò intensamente. Pensavo si rifiutasse, che decidesse di non aiutarmi, ma poi incrociò le braccia al petto e fece una smorfia. - Inizia a dirmi tutto quello che sai su di lui. -
Feci un sospiro di sollievo e l'ora successiva le passai con lui che si appuntava su un foglio tutto ciò che gli raccontavo, annuendo e arricciando ogni tanto il naso. La storia si sarebbe presto chiusa, ne ero certo, se mio fratello non avesse spezzato il cerchio, lo avrei fatto io.
***
Stavo guidando verso casa di Victoria ascoltando la musica a tutto volume e con un braccio fuori dal finestrino. Stavo cercando in tutti i modi possibili di non pensare a ciò che avrebbe potuto dirmi il dottor Dustin per evitare di andare nel panico prima del previsto. Avevo valutato un sacco di opzioni, chiedendo anche a Carter, ma lui le aveva scartate quasi tutte, per il semplice fatto che non comprendevano le allucinazioni. Avevo pensato che fosse bipolare, ma lui aveva detto che non sembrava avere uno sdoppiamento di personalità e quindi l'aveva scartato; avevo pensato al disturbo borderlines, che derivava dalla sindrome dell'abbandono, ma aveva scartato pure quello; avevo pensato al disturbo post traumatico da stress, ma Carter aveva detto che quello era stato il suo mutismo selettivo, depressione non poteva essere, o almeno non solo quella, c'era qualcos'altro che andava oltre a tutto ciò che avessi mai visto in vita mia.
Fui distratto dai miei pensieri quando, lanciando un'occhiata allo specchietto retrovisore, mi resi conto di aver dietro la stessa macchina da quando ero partito da casa di Katherine. Battei le palpebre leggermente confuso e strinsi gli occhi a fessura provando a vedere se riuscivo a mettere a fuoco la persona al volante, ma non era possibile, era troppo lontano. Arricciai il naso indispettito, soprattutto perchè detestavo quando le macchine mi stavano alle calcagna e, dopo aver sbuffato teatralmente, schiacciai il piede sull'acceleratore. Tornai a guardare la strada accendendomi una sigaretta e tentando di apparire indifferente, ma notai perfettamente che nel momento in cui io avevo accelerato lo aveva fatto anche la persona dietro di me. In quel momento sentii l'adrenalina iniziare a scorrere nelle mie vene, il mio cuore prendere a battere più velocemente e la rabbia mi offuscò la vista qualche istante.
Allungai la strada, prendendo tutti i vicoli della città e, dopo qualche minuto, tirai fuori il telefono dalla tasca facendo partire una chiamata a Sam. Il ragazzo rispose dopo due squilli, teatrale come sempre. - Ehi Woods, non dirmi che sei in ritardo anche questa volta. - Sbottò sghignazzando e prendendomi in giro.
Tutto ciò era dovuto al fatto che otto volte su dieci ero in ritardo, ma ignorai il commentino sarcastico e roteai gli occhi agganciando il cellulare al porta telefono che pendeva dallo specchietto e posando entrambe le mani sul volante accelerando di nuovo. - Senti dimmi come posso allungare la strada per arrivare a casa Hastings, per favore -
- Allungarla? Ma sei scemo? - Domandò quasi inorridito.
- Samuel chiudi la bocca una volta nella tua vita – Dissi alzando la voce. - Mi stanno seguendo, perciò dimmi come allungare la strada e dove posso seminare chiunque questo stronzo sia. -
- Porca puttana – Esclamò sorpreso. - Ascolta ehm... - Immaginai il mio amico camminare per casa con le mani fra i capelli mentre pensava, pensava e pensava. - Da dove arrivi, casa tua? - Chiese poi.
- No, da casa di Katherine – Risposi. Se fossi stato accanto a lui mi avrebbe dato un cazzotto, sicuramente.
Sentii un verso roco provenire dalla sua gola, tanto mi sfuggì un sorriso. - Che cosa facevi a casa di Katherine? - Disse infastidito.
- Tradisco Victoria – Esclamai sarcastico e alzando gli occhi al cielo. - Non credo di aver tempo per spiegarti adesso, se tu mi aiuti invece posso spiegartelo, magari evito che mi vengano addosso. - Tuonai guardando il telefono con la coda dell'occhio.
- Dove sei? - Sbuffò. - Hai già preso le viette che ti portano in culo alla balena? -
- Sì, le ho prese – Lo informai. - Mi serve tipo un vicolo cieco non so, un incrocio, in modo che accelerando riesco a seminarlo. -
Sentivo l'adrenalina pompare sangue al cervello e spingermi ad accelerare ancora, ancora e ancora, mentre Sam mi spiegava brevemente il tratto di strada che potevo fare per levarmelo dai piedi. Finalmente, dopo aver girato mille vicoli, mille vie e almeno tre quartieri, riuscii a seminarlo, inchiodando in un parcheggio di un supermercato e fermandomi qualche istante per riprendere il controllo. Ero in ritardo, erano le sei passate, ma in quel momento sentivo tutti gli arti tremare a causa dello spavento e dell'ansia. - Okay Sam, grazie, ho fatto. Dammi un attimo che mi calmo un po' e arrivo, ok? -
- Sì, sì – Mi disse dopo aver fatto un sospiro di sollievo. - Chi diavolo era? -
Mi presi i riccioli nel pugno e, dopo aver appoggiato la testa al sedile, scossi il capo e sospirai. - Non lo so. -
Chiusi gli occhi e rimasi lì, incastrato in quel momento, fermo a pensare a cosa avevo fatto di male nella mia vita per essere circondato soltanto da un disastro dietro l'altro.
***
Sam mi accolse con uno sguardo preoccupato, completamente nel panico e con il respiro spezzato. Prima che io potessi domandare qualcosa scosse la testa e mi indicò Victoria, che stava ridendo accanto a Richie, seduti sul divano, mentre la guardava con aria incredula. Rimasi ad osservarla qualche istante prima di avvicinarmi, prendendomi del tempo per scattare una fotografia mentale alla sua risata angelica, all'incanto che regalava attraverso i suoi occhi azzurri. Victoria indossava gli occhiali, aveva i capelli neri sciolti e sbarazzini. Stava gesticolando mentre raccontava a Richie chissà che cosa e lui le faceva le linguacce ogni tanto, infastidendola e importunandola con qualche battuta giusto per farla ridere un po', come se non volesse che si fermasse a pensare. In casa l'aria era pesante e sospettavo che quella tensione si sarebbe presto riversata anche su di me, perchè quando tornai a guardare Sam stava osservando sua sorella nello stesso modo in cui la stava osservando Richie. Mi chiedevo per qualche motivo avessero tutti quell'espressione, che Victoria naturalmente non notava, oppure sì ma faceva finta di niente.
- Ti preparo una tazza di tè, è meglio. - Disse il mio amico. Dal tono che aveva, avevo la sensazione che fosse arrabbiato perchè ero andato da Katherine, ma gli avrei comunque spiegato e raccontato tutto, al momento giusto. Quello di certo non lo era: non era opportuno parlare di me e dei miei problemi proprio in quel momento, con lo psichiatra della mia ragazza al piano di sopra che stava parlando con noi a turno, per farci sapere cosa stava succedendo.
- Avete già parlato con il medico? - Chiesi seguendolo e camminando alle sue spalle. Sam aveva la testa bassa, l'espressione persa nel vuoto, completamente assorto dai suoi pensieri. Sembrava quasi che non mi avesse sentito, oppure mi stava semplicemente ignorando. Con movimenti meccanici e versandomi il tè caldo come se fosse un automa, si mise a sedere e tornò a guardare sua sorella. Il divano era visibile dalla cucina, per il semplice fatto che non aveva una vera e propria porta, ma un arco che permetteva di vedere il salone. Dall'atrio d'ingresso potevi andare direttamente in salone, oppure entrare in cucina. - Sam? - Lo richiamai dopo che rimase in silenzio per infiniti istanti.
Era chiaro che qualcosa non andava, anche a chi non lo poteva vedere, si percepiva nell'aria quel senso di perdizione totale, tanto che mi sfregai le mani sui jeans respirando profondamente e con le farfalle nello stomaco per l'ansia. - Cosa? - Sam si voltò finalmente verso di me ed i suoi occhi verdi mi trasmisero così tanta tristezza che sentii il mio cuore stringersi e perdere un battito, quando notai che aveva perso la sua luce. - Ah, sì. - Sussurrò poi. - Sì, ci abbiamo parlato. Nicole, Alexander e Juliette sono ancora con lui. -
- Okay e? - Domandai sentendo un nodo in gola stringere, farsi sempre più stretto, fino a farmi venire voglia di gridare.
- Ed è meglio che te lo dica lui, perchè io mi sono perso dopo tre parole. - Rispose scuotendo il capo e respirando profondamente.
- Lei lo sa? - Chiesi di nuovo. Mi sentivo come se lo stessi interrogando, ad essere onesto, ma stavo pensando al peggio da tempo, ormai. Il fatto era che per quanto mi volessi tenere pronto a ogni evenienza, non lo ero mai abbastanza, non quando si trattava di lei.
- No, ancora no. - Sentii il freddo glaciale delle sue risposte invadermi, tanto che rabbrividii.
Stavo per chiedergli altro ma non feci in tempo, perchè comparve il dottor Dustin sulla soglia accompagnato dai genitori di Victoria. Nicole si stava asciugando le lacrime con un fazzoletto di stoffa, Alexander aveva l'espressione incredula di chi aveva appena visto un fantasma, e Juliette sembrava completamente su un altro pianeta. Non avevo ancora avuto modo di parlarle, di presentarmi e dirle chi ero, ma ancora una volta pensai che non fosse un momento opportuno quello. Osservando tutti e quattro e Richie nell'altra stanza, mi sentii sempre peggio, sempre più nel panico, sempre più perso e confuso.
- Ciao Benjamin, grazie per essere venuto – Mi disse Alexander senza guardarmi negli occhi e versandosi una tazza di tè. - Mi sono permesso io di dare il tuo numero al dottore perché io e Nicole vorremo che parlassi anche tu con lui riguardo alla situazione, visto che siete sempre insieme ultimamente. Ti siamo grati per tutto ciò che stai facendo, veramente. Grazie di cuore. -
Annuii trattenendo il respiro e facendo scorrere lo sguardo fra tutti i presenti: avevano tutti quanti lo stesso vuoto negli occhi. - Non serve che mi ringraziate – Bisbigliai. - Lo faccio per lei, davvero. Grazie a voi per avermi permesso di essere presente, nonostante tutto. -
Juliette non mi rivolse la parola, continuava a fissare sua figlia scuotendo il capo. I capelli rossi ricadevano sulle spalle dritti come spaghetti e osservandola attentamente la somiglianza con Victoria era piuttosto evidente, avevo lo stesso colore di occhi, con sfumature differenti. Gli occhi di Victoria ricordavano tanto l'oceano, quelli di Juliette un cielo limpido, senza nuvole, azzurro brillante.
- Già sai quello che penso – Nicole si avvicinò a me e mi prese per mano. Rimasi ad osservarla a lungo, pensando di abbracciarla o regalarle un sorriso, ma prima che potessi farlo lei strinse gli occhi lasciando cadere altre lacrime, sentivo il suo cuore spezzarsi in quel momento. - Vieni con noi, il dottore ti spiegherà tutto. -
Annuii e lanciai un'ultima occhiata a tutti, Victoria compresa, prima di seguire Dustin al piano di sopra.
- Benjamin – Sentii la voce di Alexander richiamarmi prima che andassimo al piano di sopra, così mi voltai ad osservarlo battendo le palpebre e con il cuore che pulsava talmente forte da sentirlo nei timpani. Mi prese il polso e mi guardò intensamente. - Respira – Mi disse facendolo lui stesso. - E sii forte. -
A quelle parole il mio cuore fece una capriola, tanto che alzai il viso al cielo e, dopo essermi voltato pronto ad andare dal dottore che ci stava aspettando dopo essermi fermato, presi un respiro profondo e mi feci coraggio.
Eravamo tutti e tre nello studio di Alexander, dove io non avevo mai messo piede, onestamente. Dustin si trovava dietro alla scrivania con le sue cartelle in mano, e mi osservava mentre io prendevo lentamente posto, mentre mi guardavo attorno incuriosito. C'erano foto del matrimonio di Alexander e Nicole, foto di Richie da piccolo, un quadro con tutti e quattro insieme e delle piante ornamentali a rendere la stanza un po' vintage. C'erano cubotti con cartelle e numeri, lettere, annate: sembrava proprio lo studio di un professore.
Dopo qualche istante in cui Nicole e Alexander si accomodarono uno alla mia destra e uno alla mia sinistra, mi decisi a rivolgere il mio sguardo al dottore, che mi osservava con un sorriso dolceamaro e con gli occhiali stretti tra le dita. - Okay – Sospirai mordicchiandomi il labbro. - Può sferrare il colpo. -
Il dottore sorrise, in quel caso era un sorriso puro e sincero, e alla fine respirò profondamente e posò la schiena alla sedia, accavallando le gambe e piegando la testa di lato. - Partiamo con il dire che sono un po' più tranquillo sapendo che posso fare affidamento anche su di te, oltre che alla sua famiglia. - Mi disse scrutandomi. - I pazienti hanno sempre bisogno di più sostegno possibile, non solo da parte della famiglia, e sapere che ci sei anche tu mi tranquillizza almeno un pochino. -
- Mi state ringraziando tutti – Gli dissi un po' confuso e lanciando un'occhiata ai genitori di Victoria. - Ma non ne capisco il motivo: Victoria è la mia ragazza, farei qualsiasi cosa per lei, il mio sostegno mi sembra quasi scontato. - Feci spallucce osservandolo attentamente e per un istante mi sentii come se mi stesse psicoanalizzando.
- Ti stupirà allora sentirti dire che, purtroppo, non lo è. Soprattutto in situazioni come quella di Victoria. - Rispose facendosi avanti e posando le braccia sul tavolo. - Ma veniamo al dunque. Partiamo con il dire che non si tratta di disturbo psicotico breve e me ne sono reso conto dopo l'ultimo incontro con lei, qualche giorno fa. Avevo detto che le allucinazioni e i sintomi legati a questa patologia possono durare non più di un mese, ma siamo andati ben oltre e parlando con lei mi sono reso conto che la cosa va avanti da molto di più. Credo che Samuel ti abbia detto che durante l'ultima seduta è scappata, e ti posso assicurare che lo ha fatto a causa di un'allucinazione. Non so di preciso cosa abbia visto, ma avrai notato anche tu che in questo mese, anzi quasi un mese e mezzo, la situazione non è migliorata per niente. Non so se ne sei al corrente, ma qualche mese fa le ho fatto fare una tac alla testa per cercare di capire se fosse un fattore medico, più che a livello proprio psicologico, di patologia mentale intendo, ed è emerso che non si trattava di demenza fronto temporale, ma che anomalie c'erano lo stesso. - Prima di interromperlo, volevo ascoltare tutto ciò che aveva da dire, lasciando che parlasse a ruota libera senza che gli facessi domande, a meno che non fosse lui a pormele. Ero al corrente della tac, l'avevo accompagnata io all'ospedale a farla, quel giorno. - Rianalizzando la tac in questo momento, con ciò che so adesso e dopo quello che lei mi ha raccontato, mi sono permesso di indagare sulla storia psicologica della sua famiglia biologica, domandando alla madre se fosse presente qualche parente che avesse delle patologie. Non ti starò a spiegare cosa c'è che non va nella tac, probabilmente non capiresti, tutto ciò che devi sapere è che questa patologia ha una base biologica e che è permanente. Tu sai cosa è il DSM-5? - Mi chiese guardandomi negli occhi e attendendo la mia risposta.
- No – Replicai battendo le palpebre e osservandolo attentamente. - Mi scusi, ma non ne ho la più pallida idea. - Dissi poi scrocchiando le dita delle mani e tossicchiando.
Il dottore si schiarì la gola e posò gli occhiali sul tavolo scrollando le spalle e chiudendo gli occhi qualche istante, come se stesse riflettendo sul modo in cui mi avrebbe reso le cose più semplici. Dalla sua espressione ero convinto, però, che non ci fosse e di conseguenza, con lo sguardo, lo pregai di parlare e dirmi tutto, sperando che avrei retto il colpo senza disperarmi. - Il DSM-5 è in sostanza l'associazione americana di diagnosi, la numero 5. Si tratta di una delle scale diagnostiche che si possono utilizzare appunto nella diagnosi della malattia. Consiste nella suddivisione dei sintomi, che in questo caso possono essere positivi o negativi, ma prima che venga di fatto diagnosticata la malattia, il paziente deve aver parlato con il proprio psichiatra di questi sintomi, soprattutto quelli positivi. Il percorso che si fa, diciamo, per arrivare alla diagnosi effettiva della malattia prende il nome di DSM-5. - Nonostante stesse utilizzando parole abbastanza comprensibili per uno come me, lo leggevo nella sua espressione del viso che si trovasse un po' in difficoltà nella spiegazione. Desideravo chiedergli scusa per la mia ignoranza sull'argomento, ma prima volevo capire bene ciò di cui mi stava parlando. Per un momento sospettai che mi sarei messo a ridere in modo isterico, per l'assurdità della situazione.
Agitai le braccia un po' confuso e, nonostante mi fossi ripromesso di non farlo, lo interruppi bruscamente gesticolando. - Mi scusi se la interrompo... - Dissi avvicinandomi leggermente con la sedia. Capivo perfettamente che ciò che stava dicendo non fosse per niente semplice, soprattutto contando che io non capivo la psicologia, ma ero così nel panico che non avevo ancora capito di quale patologia mi stesse parlando. Mi domandai per un istante se fossi io quello stupido, se altri avrebbero capito al posto mio, oppure se me lo avesse già detto ma mi fossi perso un pezzo. - Probabilmente è una domanda stupida, ma io non ho ancora capito di quale malattia stiamo parlando. -
Il dottor Dustin, a quel punto fece una smorfia. Credetti fosse dolorosa, perchè a giudicare dal modo in cui mi stava osservando mi sentii come se stesse per arrivare il colpo di grazia. - Benjamin... - Sussurrò battendo le palpebre e inspirando profondamente. - Stiamo parlando di schizofrenia. -
Il mio mondo crollò in un istante. Mi sentii sbiancare nell'esatto momento in cui aveva pronunciato quelle parole: mi mancò l'aria e il mio cuore prese a battere così velocemente che pensai che se non mi fossi dato una calmata sarei andato in iperventilazione. Mi girava la testa, in tutta onestà, e in quel momento capii lo sguardo perso di Sam, quello incredulo di Richie, le lacrime di Nicole, le parole di Alexander e il silenzio della madre. Trattenni il respiro, scosso da ciò che aveva appena detto e lo osservai con le lacrime agli occhi. Per un momento avrei desiderato dirgli che mi aveva mentito, negando l'evidenza oltretutto, ma alla fine rimasi in silenzio ancora, stringendo i pugni e passandomi le mani tremanti sul viso, scuotendo la testa. Sorrisi amaramente, piegando la testa di lato e deglutendo con forza, ancora incredulo. - Sta scherzando... - Sussurrai distogliendo lo sguardo dai suoi occhi. - Sta scherzando, vero dottore? -
- No, purtroppo no, la nonna di Victoria era schizofrenica, la madre me lo ha detto, e questo aumenta la possibilità di sviluppare la malattia. Mi dispiace tanto, credimi – Mi disse scostandosi dalla sua posizione e avvicinandosi a me per poi appoggiarsi alla scrivania e piegare la testa in modo da cercare il mio sguardo, ormai perso nel vuoto. - Ascoltami bene e non andare nel panico: è vero che è una patologia permanente e incurabile, ma si può gestire. C'è anche il 15% dei pazienti che torna addirittura alla situazione premorbosa. Le sedute psichiatriche, il trattamento cognitivo e i farmaci la aiuteranno a gestirla. Non spaventarti così fin da subito, non darle modo di credere che hai paura, non la aiuterebbe. La tua vicinanza, il tuo sostegno sono importanti, averti con lei in questo momento è di fondamentale importanza, tu la puoi aiutare. Ci ho messo un po' per arrivare a questa conclusione, ma ho valutato i sintomi e il peggioramento che ha avuto. Le allucinazioni non sono iniziate un mese fa, è vero che è peggiorata drasticamente di recente ma lo so io e lo sai anche tu che anche mesi fa ha avuto delle allucinazioni, che ha visto cose che non c'erano. - Mentre parlava cominciai a collegare tutti i puntini e ripensai alla Victoria dei mesi precedenti, mentre ero travolto dai flashback. Ricordai quando al campo da calcio del campus si mise a gridare e a piangere e ricordai la sua espressione confusa, quando mi disse che ero ancora vivo; ricordai la notte di Natale, la chiamata che avevo ricevuto nel cuore della notte, quando mi aveva detto che non sapeva dove si trovava e che c'era qualcuno con lei che voleva farle del male. Ricordai il giorno del processo, quando mi disse che c'erano voci che gridavano nella sua testa e mi ricordai anche che avevo pensato che fosse in senso figurativo, ma dopo ciò che aveva detto il dottore capii che non lo era. Il modo in cui era scappata da mio fratello, il modo in cui era così convinta dell'esistenza dei cavalieri della caccia selvaggia, tutta la paranoia, l'ansia, il fatto che l'avessi vista parlare e ridere con qualcuno che in realtà non esisteva. Pensai al mutismo che aveva avuto e a ciò che mi aveva detto quando aveva ripreso a parlare, quando mi aveva spiegato che c'era troppo nella sua testa, così tanto che non riusciva più a parlare. Mi sentii uno stupido per non averlo nemmeno pensato, per aver addirittura immaginato che si trattasse di disturbo post traumatico da stress. Tornai a guardare il dottore, sempre più nel panico, e una volta accertatosi che avevo capito, tornò a spiegarsi. - Sono sicuro quasi al cento per cento che si tratti di schizofrenia paranoide. - Continuò poi. - Le farò fare un altro screening cerebrale, ma dopo aver analizzato i sintomi sono praticamente certo che sia quella, si tratta soltanto di un'ulteriore conferma. I traumi che ha subito, oltretutto, hanno contribuito al peggioramento dei sintomi positivi, e quando questi si presentano in maniera così tanto significativa e così persistente la diagnosi è ancora più veloce. La cosa positiva è che prima la si trova, prima si può intervenire e lei può iniziare a stare meglio. -
- A cosa andrò incontro per la precisione, dottore? - Gli chiesi totalmente spento e risucchiato da ogni emozione. C'erano solo Victoria, un angelo ormai caduto, la sua fragilità e la sua sofferenza, al centro del mio mondo.
- Allucinazioni, illusioni e paranoia sono i sintomi positivi, si chiamano così, e lei li ha già tutti. - Disse respirando profondamente. - Negli stadi più avanzati c'è l'abulia, quando proprio non ha voglia nemmeno di prendersi cura di se stessa, come se nulla fosse importante, di pari passo con la catatonia e la difficoltà nel parlare. Lei potrebbe avere difficoltà a tenere una conversazione di senso compiuto, volendo. Però ripeto, ora sappiamo cosa ha, interveniamo subito, vedrai che tornerà a stare bene e con il tempo riuscirà a gestire la malattia. Le prescriverò il risperidone, il farmaco antipsicotico apposito per la schizofrenia, tu accertati che lo prenda ma che non ne abusi. Non deve bere alcol, non deve assumere sostanze stupefacenti ma soprattutto, non deve sentirsi come se fosse pazza. Si affida molto a te, e sono sicuro che fa bene, mi raccomando Benjamin tu sei un tassello fondamentale, cerca di tamponare il più possibile ma senza esagerare e senza farle capire che sta dicendo cose assurde. Riportala sulla sua strada come puoi, distraila e porta i suoi pensieri altrove quando vedi che iniziano i deliri, solo così potremmo aiutarla. So che non è una situazione semplice, è e sarà tutto molto pesante, anche perché per Victoria non è una malattia, è realtà. Non si rende conto che ciò che vede non è reale, penso tu abbia visto con i tuoi occhi con cosa abbiamo a che fare. Sei una persona forte, lo vedo dai tuoi occhi e già il fatto che tu sia qui significa tanto, mi hanno detto che sei una persona meravigliosa e sono convinto che restando uniti lei possa uscirne. Può tornare a stare bene Benjamin, credimi, si può gestire tutto, ma devi crederci tu per primo insieme alla sua famiglia, fai in modo che ci creda anche lei. Non sei solo ad affrontare la situazione, per quanto struggente possa essere, ed io sarò a vostra disposizione per qualsiasi dubbio o qualsiasi emergenza. Cerca di non focalizzarti sul fatto che è uno stato mentale permanente perché, ripeto, si può gestire. -
- La ringrazio dottore, grazie di cuore. - Gli dissi sospirando e sotto shock.
Sentii Nicole, per la prima volta da quando eravamo nella stanza, stringermi la mano e annuire con gli occhi lucidi, intimandomi di respirare profondamente. - Posso andare da lei? -
- Certo, vai pure. - Sorrise, il dottore, come meglio poteva.
Uscii dalla stanza diretto da lei, dove sentivo le sue risate divertite, probabilmente non curante di ciò che le avrebbe detto il medico di lì a poco.
Mi soffermai sulla soglia della porta, appoggiandomi allo stipite, ad osservarla da lontano. Era sempre stata meravigliosa, ma in quel momento mi sembrava ancora più bella. Mi ritrovai a pensare a quanto la fragilità e la lotta per la felicità, per la pace e contro noi stessi, potessero rendere una persona ancora più bella e più luminosa. In quel momento la vedevo, la sua luce, un'aurea che catturava l'attenzione di chiunque la osservasse e portava a sorridere, pensando a quanta forza fosse nascosta in un sorriso così doloroso, in quegli occhi così freddi.
Sospirai pensando a tutto ciò che era accaduto, che stava accadendo e che, con molta probabilità, sarebbe accaduto e mi resi conto che forse la rottura del nostro equilibrio, la nostra caduta, era dolorosa tanto quanto la caduta degli angeli dai giardini dell'eden. Nonostante ciò, però, la cosa importante era che eravamo tutti insieme e che avevamo la forza necessaria a superare ogni cosa, se restavamo uniti, nonostante nessuno di noi avesse le ali come gli angeli. Infondo papà me lo diceva sempre: non sono necessarie le ali per volare.
Non sapevo cosa sarebbe successo da quel momento in poi, probabilmente avremmo sofferto ancora, avremmo dovuto lottare fino a perdere le forze, ma avevamo tutto ciò che serviva accanto: l'amore che provavamo l'uno per l'altro.
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