CAPITOLO TRENTA - loner
"Everyone you meet is fighting a battle you know nothing about. Be kind. Always."
Ci tengo a ricordarvi che qualsiasi sia la vostra battaglia, non dovete per forza affrontarla da soli. Se avete bisogno di parlare con qualcuno potete tranquillamente scrivermi in privato, vi ascolto sempre. <3
vi lascio qui sotto dei numeri verdi da contattare nel caso sentiste di non farcela. sappiate che vi rialzerete, c'è sempre una luce che vi guida, sempre.
TELEFONO AMICO: 02 2327 2327
TELEFONO AZZURRO: 1969
NUMERO PREVENZIONE SUICIDIO: 800 334 343
NUMERO PREVENZIONE DISTURBI ALIMENTARI: 800 180 969
NUMERO VIOLENZA DOMESTICA: 1522
SUPPORTO PSICOLOGICO: 800 833 833
SUPPORTO PSICHIATRICO: 800 274 274
TELEFONO ROSA: 06 375 18282
SUPPORTO PER AUTISMO: 800 031 819
-> spazio autrice: scusatemi il ritardo, non è un bellissimo periodo. scrivo quando posso e riesco, perciò scusatemi in anticipo per il tempo ci metterò anche a pubblicare i capitoli successivi a questo.
love u all, i hope that you're ok
ila
x
CAPITOLO TRENTA – loner
Credevo che morire fosse tutto ciò che avevo sempre desiderato, ma mi sbagliavo.
Avevo sempre sbagliato, fin dal momento in cui avevo creduto che morire fosse più semplice che vivere. Era stato tutto un grosso errore: pensavo che avrei trovato del conforto nel chiudere gli occhi e farmi abbracciare dalle tenebre ma, in realtà, avevo avuto paura. Il mio cuore di tenebra si era spaventato e, ad essere del tutto onesta, non avrei mai pensato potesse accadere una cosa del genere. Avevo visto la morte in faccia, mi aveva sorriso, mi aveva quasi abbracciata e portata via e, solo dopo essermi resa conto di aver toccato il fondo veramente, avevo capito quanto avere aperto gli occhi e aver sentito il mio cuore scandire un forte battito fosse stato un immenso regalo e non l'ennesimo incubo come inizialmente avevo pensato. Credevo che la morte potesse portarmi un po' di pace ma, purtroppo, non c'era nulla di tranquillo o bello in ciò che avevo visto quando aveva teso la mano verso di me. Sentivo quella paura cucita addosso, da un mese a quella parte, da quando mi ero resa conto che in realtà tutto ciò che avevo sempre voluto fosse stare bene per davvero, vivere: vivere a colori e senza pensieri, senza preoccupazioni, senza il peso del dolore sulle spalle e senza dovermi rifugiare nelle tenebre ogni volta. Il fatto era che, nonostante io ci stessi provando, trovare la luce non era così semplice, soprattutto dopo aver vissuto nel buio così tanto tempo. C'erano giorni in cui, ancora, credevo non ci fosse posto per me sotto ai raggi del sole e in quei giorni rimanevo reclusa ancora, nella confortevole notte, ad abbracciare me stessa e piangere fino a esaurire ogni singola lacrima. Perché era stato un solo istante: un misero ed eterno istante che sarebbe rimasto incastrato nei miei ricordi per tutta la vita, quell'istante che mi aveva dato il coraggio di mettere fine alla mia vita, l'istante in cui non avevo pensato ad altro che a quanto fossi disperata, a quanto bramassi zittire ogni voce, ogni cosa attorno a me, perché ero sicura che non ce l'avrei mai fatta. Tutto pesava gravemente per me, ogni voce nella mia testa aveva urlato dicendomi che non era il mio posto quello e io non ce l'avevo più fatta. Sapevo di aver promesso che avrei respirato a fondo prima di abbandonarmi all'oblio, ma la sensazione di cadere nel vuoto non mi piaceva per nulla al mondo, la sensazione di buttarmi senza sapere se ci sarebbe stato qualcuno a salvarmi, perché la verità era che se avessi dovuto salvarmi da sola non ce l'avrei fatta. Per quel motivo avevo chiuso gli occhi e avevo inghiottito quelle pillole, per quel motivo mi ero accasciata al suolo accecata dal dolore: nel mio buio, nella mia solitudine, dove ero realmente me stessa.
Io, in quel momento, desideravo davvero prendermi per mano e portarmi fuori dall'inferno, perché sapevo ci fosse una vita in mezzo a tutto quel buio, una vita che meritava di essere vissuta, una vita a cui io non avevo mai dato nessuna importanza, ma una vita che mi stava aspettando, e lo avevo capito solo adesso. C'erano delle persone sempre pronte ad aiutarmi, che mi amavano, che mi avevano dimostrato più volte che la mia presenza significava qualcosa per qualcuno, che non ero un fantasma e non lo sarei mai stata, che avevo qualcosa per cui lottare, qualcuno che mi aspettava e un luogo sicuro in cui stare se le cose si fossero messe male. Forse era perché ero stata abituata ad affrontare tutto da sola, forse perché la mia sofferenza aveva offuscato tutto il resto e non vedevo altro al di là di quella, o forse dovevo toccare il fondo per rendermi effettivamente conto che non era vero che tutto ciò che desideravo era abbracciare la morte.
Era passato un mese da quel giorno: un mese da quando avevo ingurgitato quelle pillole con la vodka, un mese da quando Benjamin e Sam mi avevano salvato la vita. Un'infermiera mi aveva detto che io ero stata molto fortunata perché non avevo soltanto un angelo custode, ma ne avevo ben due. Quando avevo aperto gli occhi non avevo la più pallida idea di chi fosse stato a salvarmi, sapevo soltanto che non volevo ritrovarmi a respirare di nuovo, che avevo odiato il mio angelo custode perché pensavo che dovesse lasciarmi morire, che non mi dovesse salvare, perché non lo meritavo. Ma poi, dopo aver visto i miei amici e la mia famiglia piangere perché li avevo guardati di nuovo negli occhi, dopo che avevo scelto di firmare quelle carte e avevo deciso di farmi aiutare, dopo che mi avevano abbracciata e mi avevano detto quanto fossero fieri di me nonostante l'attimo di debolezza che avevo avuto, avevo respirato ancora e lo avevo fatto con le lacrime agli occhi, perché guardandoli e stringendo le loro mani avevo scelto di salvarmi, perché lì avevo capito quanto desiderare la morte si trattasse semplicemente di un solo attimo.
Perciò mi trovavo in quel posto, circondata da qualcuno che poteva indicarmi la strada per ritrovare me stessa e accettare ciò che ero, accettare che io non ero la mia malattia: il dottor Dustin continuava a ripeterlo. Mi aveva consigliato di scriverlo quando avevo i momenti di buio totale in cui desideravo lasciare andare tutto di nuovo, in cui volevo morire ancora, diceva che forse mi avrebbe aiutata a razionalizzare i miei pensieri negativi. Lo avevo fatto: avevo la stanza tappezzata di post it in cui avevo scritto continuamente che io non ero la mia malattia, oppure che non dovevo morire.
Vinci la guerra, dicevano alcuni. Continua a lottare, recitavano altri.
Morire non è la soluzione, ripetevo.
Io non sono la mia malattia, mi ricordavano.
Respira, continua a respirare. E ci provavo: stringevo i denti, serravo i pugni, chiudevo gli occhi e respiravo. Era successo più volte che desiderassi arrendermi di nuovo, mi era successo di prendere a pugni il muro, di urlare contro il cuscino, e a volte anche contro il cielo, perché volevo strapparmi il cuore, e gridavo per smorzare le voci e zittirle, per respirare di nuovo dopo.
Non era facile, era la cosa più dolorosa e faticosa che avessi mai fatto, ma si trattava di piccoli passi avanti, mi aveva detto il dottore. Si trattava di vivere minuto per minuto, una cosa per volta, razionalizzare, accettare e respirare minuto per minuto.
Stavo lentamente comprendendo quanto fossi stata fortunata ad avere una seconda occasione. Per la prima volta nella mia vita ero grata di essere ancora viva, di svegliarmi la mattina e di sentire battere il mio cuore. Era così strano, mi sentivo così strana, e non capivo se fosse un bene oppure un male.
- Victoria – La voce del dottor Dustin mi portò a scostare lo sguardo dai fiocchi di neve che volteggiavano nel vento, illuminati dai timidi raggi solari dell'ultimo giorno dell'anno. – Come ti senti oggi? – Domandò sorridendomi e scrutandomi a fondo.
- Sta nevicando. – Sospirai scrocchiando le dita e tornando a guardare la neve. Ricordai la danza di fiocchi di neve a cui avevo assistito prima di prendere quelle pasticche, la stessa danza di cui avevo sognato di far parte, una volta chiuso gli occhi per sempre. I fiocchi di neve erano puri e genuini, delicati quanto era effimera e preziosa la vita, ed erano bellissimi. Mi sarebbe piaciuto essere un fiocco di neve: danzare libera nel vento e divenire poi parte di qualcosa di grande, di immenso, qualcosa di tanto incantevole da lasciare senza fiato chiunque l'osservasse. La cosa che più mi affascinava, della neve, era la sua fragilità, perché era proprio la sua forza. – Il giorno in cui ho preso quelle pasticche nevicava, sono rimasta a guardare la neve mentre aspettavo di chiudere gli occhi per sempre. Speravo di poter far parte di quella danza elegante, un giorno, credevo che la mia fragilità potesse essere una grande bellezza se fossi stata un fiocco di neve. – Gli dissi tornando ad osservarlo, completamente inespressiva.
A dire la verità non avrei saputo dire come mi sentivo quel giorno. Era passato un mese esatto dal momento in cui ero crollata a terra ubriaca di dolore mentre bramavo e aspettavo che l'angelo della morte mi richiamasse fra le sue braccia, e da quando mi ero svegliata non riuscivo a smettere di pensare alle sensazioni che mi si erano appiccicate addosso quando mi ero lasciata andare e avevo deciso che andare alla deriva sarebbe stata la mia sola salvezza. Cercare di razionalizzare che ero ancora viva non era stato per niente facile, era stata molto più dura di quanto si potesse immaginare, soprattutto perché avevo scelto di utilizzare le mie stesse forze per farlo, di rialzarmi in piedi stringendo i denti, anche se non sapevo per quanto tempo sarei riuscita a reggere. – Ti va di raccontarmi un po' perché hai pensato una cosa del genere? -
A quel punto arricciai il naso e chiusi gli occhi, sollevai il viso al cielo e mi mordicchiai il labbro deglutendo con forza. Mi presi qualche istante prima di rispondergli: mi era già stato chiesto perché lo avessi fatto e perché avessi deciso di mettere fine alla mia vita, era stata una delle prime cose che mi aveva chiesto il dottore. Gli avevo spiegato cosa mi avevano detto tutti quei sussurri, gli avevo detto che continuavano a ripetermi che sarei dovuta andare con loro e seguirli nelle tenebre, dove sarebbero rimaste con me per sempre. Me lo avevano detto loro e io le avevo ascoltate, avevo ceduto e soprattutto credevo avessero ragione, ma in quel momento, dopo trenta giorni, ero più convinta del fatto che dovevo uscire da quelle tenebre, e non tanto perché pensavo non fosse quello il mio posto, ma perché io non ci volevo più stare. Volevo tatuarmi sulla pelle il significato della vita, volevo cucirmi addosso le emozioni che vivere senza pensieri potesse regalare, ma per farlo dovevo uscire allo scoperto, anche se non avevo la più pallida idea di come fare. – Credo che la vera forza sia racchiusa nella fragilità. – Risposi qualche minuto dopo. – O meglio, credo che una persona si possa definire forte solamente dopo aver imparato ad essere fragile, dopo aver accettato che non è vero che essere fragili significa essere deboli. Ci ho messo un po' a capirlo, perché quando mi è stato detto la prima volta non ci credevo. Come può una cosa così delicata essere tanto forte? Credevo fosse preziosa, la delicatezza, che venisse custodita con più cura proprio perché delicata e fragile, e credevo fosse così proprio perché in realtà si trattava di una debolezza. Ma poi ho pensato ai fiocchi di neve: ho pensato a quanto sono affascinanti, quanto sono eleganti, a quanto la loro delicatezza sia il loro più grande pregio, nonché la loro più grande bellezza. Uno solo è in grado di donare una piccola luce a chi vive nel buio, è delicato sì, ma pensi a quanto quel piccolo puntino bianco possa essere importante per qualcuno che ha sempre vissuto in una stanza dove non c'era altro che il nero delle tenebre. Ci vuole forza per donare la speranza a qualcuno che non l'ha mai avuta. Quel piccolo fiocco di neve sa di essere fragile, ci vuole coraggio ad accettare di esserlo e credo ci voglia forza per avere quel tanto di coraggio che basta per ammettere di essere fragile. -
Il dottor Dustin mi osservò con aria seria e analizzando, o almeno così credevo, ciò che gli avevo appena detto rimanendo in silenzio qualche istante. Qualche minuto dopo annuì sospirando e, proprio come avevo fatto io poco prima, si voltò verso la finestra per osservare a sua volta la danza dell'ultima neve dell'anno. A quel punto si alzò in piedi, tolse gli occhiali e prese a giocare con l'asticella con fare pensieroso, infilandoli poi nel taschino della camicia e mettendo le mani in tasca voltandosi di nuovo verso di me. Incontrai il suo sguardo inespressivo, in attesa della sua risposta, e domandandomi se lui fosse d'accordo con me. Non riuscivo a capire ciò che pensava attraverso le espressioni del suo viso, perché la maggior parte delle volte, come in quel momento, non lasciava trasparire alcun tipo di emozione. – Ognuno di noi, Victoria, prima o poi si trova costretto ad affrontare la propria realtà e fare i conti con le proprie debolezze. Onestamente, anche se proviamo ad evitare di farlo, anche se viviamo nel rifiuto per qualche tempo, non c'è via di scampo. In qualche modo alla fine si crolla, ma è proprio da quel crollo che possiamo ricominciare. È da una caduta che inizia la rinascita. Funziona esattamente così, come quando da bambina hai imparato ad andare in bicicletta. Ovviamente è successo gradualmente, piano piano e con i tuoi tempi, sei riuscita ad imparare a pedalare da sola, ma sono sicuro che sei caduta qualche volta. Sicuramente, dopo essere caduta, ti sarai fatta male. E poi ti sei di certo rialzata in piedi, magari piangendo e soffrendo un po' per le ginocchia sbucciate, ma ti sei comunque rialzata, sono certo che tu non sia rimasta seduta a terra per tanto tempo. In questo caso, il concetto è lo stesso: se tu sei consapevole di essere caduta, allora devi anche renderti conto che puoi rialzarti. Avrai qualche cicatrice, avrai le ginocchia sbucciate, ma tu rialzati lo stesso. So che fa paura, che sei spaventata, ma il segreto sta proprio nel riuscire a rialzarsi. Una volta che tu riesci a farlo, allora ti renderai conto di quanto sei forte. Tu hai detto che ci vuole coraggio per ridare la speranza a qualcuno che l'ha persa, io invece dico che ci vuole coraggio a trovare la forza di rialzarsi perché, come dicevo poco fa, fa male e tu lo sai. Ma affronta questo dolore, rendilo il tuo scudo, la tua forza. Probabilmente la chiave di tutto non è cercare la nostra fragilità o la nostra debolezza, forse sta nel riparare quel punto debole, cucire quella ferita e renderla una cicatrice. Ovviamente il segno rimane, non se ne andrà via, ma sarà ciò che ti ricorderà sempre quanto tu sei stata forte, quanta forza hai dentro di te, quanto coraggio hai avuto quando hai deciso di prenderti per mano e salvarti la vita. Tu mi hai detto che vuoi vincere la guerra, ma non puoi farlo stando seduta a terra e pensando a ciò che vorresti essere. Per vincere una guerra ti devi rialzare, devi partire da te, quella è la chiave. Tu sei la chiave: sei già come un fiocco di neve, Victoria, ma per renderti conto di ciò devi guardare dentro di te. È lì che troverai le risposte che cerchi. –
Rimasi in silenzio ad osservarlo diversi minuti, senza sapere cosa rispondere. Era da quando avevo iniziato la terapia che tutti mi ripetevano che non dovevo avere paura e non dovevo temere la sofferenza perché affrontandola mi sarei salvata, era da tempo che mi ripetevano che piangere non mi rendeva una persona debole, che mettere in mostra ciò che provavo era un segno di forza. Osservando il dottor Dustin mi soffermai a riflettere su tutto ciò che mi era stato detto in quegli anni, in quelle sedute, in quel periodo che non era mai migliorato ed era arrivato a una rinuncia alla vita da parte mia e dopo le sue parole, a tutti gli incoraggiamenti che mi davano le persone che amavo, sospirai pensando che forse era arrivato il momento di iniziare a credere alle loro parole, e un po' anche in me stessa. Come aveva detto il dottore, dovevo ricominciare da me, dovevo provarci io per prima e dovevo smetterla di avere paura. Passo dopo passo, minuto per minuto, continuando a respirare, con calma e senza fretta mi sarei potuta rialzare. Sospirai rumorosamente, chiusi gli occhi e portai il viso al cielo, senza dargli una vera risposta. Il fatto che stessi respirando a pieni polmoni, per me era già una risposta.
Sentii il dottore muoversi per la stanza, e quando riaprii gli occhi lo trovai seduto sulla scrivania, ad osservarmi con la testa piegata di lato in attesa, probabilmente, di una mia reazione. – Prima hai sottolineato che è passato un mese da quel giorno, giusto? – Domandò battendo le palpebre e posando le mani sulla scrivania al suo fianco. Chiusi i pugni e strinsi anche gli occhi fino a ridurli a fessura, confusa, perché non sapevo dove volesse andare a parare. – Ora ti faccio la stessa domanda che ti ho fatto un mese fa alla quale tu, però, hai risposto di aver fallito. Perciò ora voglio rifarti questa domanda: come vedi il fatto di essere ancora viva? -
Inspirai di scatto e mi mordicchiai le unghie roteando gli occhi pensierosa. In quel momento ero diversa, sentivo che qualcosa fosse cambiato in me, quasi come se si fosse acceso un interruttore all'improvviso. – Quando ho riaperto gli occhi, quel giorno, mi sono maledetta per averlo fatto. Non volevo assolutamente che succedesse, il mio intento era proprio quello di cercare la pace nella morte ma avevo fallito. Io veramente non volevo più vivere perché non ce la facevo più, perché queste mille voci erano una tortura e solo morendo me ne sarei definitivamente liberata, perché avevo le allucinazioni così frequenti che non riuscivo più a distinguere ciò che era reale e ciò che non lo era. Ero terrorizzata: mi domandavo in continuazione se Benjamin fosse davvero davanti a me, se stessimo davvero parlando, o se fosse un'allucinazione e basta, e mi succedeva continuamente, con qualsiasi persona io fossi. Ero così spaventata che chiudevo gli occhi e pensavo: ma è reale? Per questo motivo non volevo più riaprirli, perché i miei incubi camminavano al mio fianco e mi tenevano per mano. – Gli dissi in tutta onestà e distogliendo lo sguardo dai suoi occhi vispi e attenti a ogni mio gesto, ogni mia singola parola. Non si perdeva mai nulla di ciò che facevo o dicevo, mi ascoltava così attentamente che, a volte, mi faceva sorridere. – Ora però sento che qualcosa è cambiato, anche se non so esattamente cosa. Mi sento strana, ma credo sia in senso positivo. Giusto ieri ho ringraziato Benjamin e Sam, quando sono venuti a trovarmi, per avermi salvato la vita: non lo avevo ancora fatto. Forse perché non sarebbe stato del tutto sincero quel grazie e volevo che venisse dal profondo del mio cuore prima di dirlo a voce alta. Ora credo di essere grata, per questa seconda occasione. Mi rendo conto che le allucinazioni non se ne andranno mai, ma sono così stanca di scappare da qualcosa che è dentro la mia testa e non può andarsene nemmeno se lo volesse. Penso che sia arrivato il momento di imparare ad accettare chi sono davvero, forse c'è una possibilità per me, forse posso condurre una vita pseudo normale se mi convinco che ho la forza necessaria per farlo. Perciò ora le dico che sono viva, che sto respirando, che sento il mio cuore battere e che sì, va bene così. -
Era la verità: per la prima volta mi sentivo davvero viva. Non mi sembrava più di essere gabbia, al contrario ero convinta di volerne uscire. Era un piccolo passo avanti, per me, dovevo solo trovare il modo per rialzarmi da terra e uscire da lì senza crollare esausta di nuovo. In quel momento non mi ritrovai a chiedermi se avessi le forze di farlo, come invece facevo prima, ma mi ripetevo che dovevo trovarle le forze, perché le ombre mi avevano davvero stancata.
La vita al centro psichiatrico era così monotona e abitudinaria che, a volte, mi girava la testa. All'inizio era stato molto faticoso abituarsi: all'ingresso al centro, per le prime settantadue ore, era vietato qualsiasi tipo di contatto con famigliari e amici. Non avevo parlato con i miei genitori e con i ragazzi per tre giorni, ero rimasta completamente sola a riflettere su ciò che era accaduto, sulla scelta che avevo fatto, domandandomi se avessi fatto la cosa giusta oppure no. Inoltre in quell'ala dell'edificio dove stavo io, sembrava si trattasse di quella dedicata ai pazienti con gravi disturbi di personalità e a rischio suicidio, era previsto un appello ogni due ore, circa, per controllare la presenza. In realtà le dottoresse cercavano un po' tutti in giro, se non ci trovavano nella sala comune e in nessun laboratorio venivano a controllare la camera. Io, per lo più, rimanevo sempre da sola. Frequentavo le attività da svolgere secondo il mio piano: seguivo i corsi di rilassamento, talvolta facevo yoga anche, frequentavo la sala comune per bere un tè caldo o guardare la televisione, andavo nel laboratorio da disegno per scarabocchiare su qualche foglio e guadagnarmi dei post it da appendere nella mia stanza, frequentavo la stanza della musica e talvolta mi mettevo pure a cantare sulle note delle canzoni per trascorrere il tempo. Nonostante, però, fossero stanze frequentate da parecchie persone e sempre affollate, nonostante avessi una compagna di stanza, restavo quasi sempre per conto mio, perché preferivo così. Volevo concentrarmi su me stessa, ero lì per quel motivo, non per stringere amicizia con le persone, anche se il dottor Dustin aveva detto che sarebbe stato carino avere qualcuno con cui passare il tempo per combattere la noia. Però, a mia discolpa, io avevo già degli amici che per me avrebbero fatto di tutto e che ogni singolo giorno venivano a trovarmi per non lasciarmi sola. Lo facevano a turno: Ben e Sam spesse volte venivano insieme, anche se era già capitato che venissero soli. Un paio di volte Vanessa era venuta in compagnia di Ben, qualche volta con Carter, a volte venivano tutti insieme e altre invece veniva solo Benjamin. Nicole e Alexander venivano ogni giorno, parlavano con i dottori, o guardavano dei film insieme a me mentre Nicole mi intrecciava i capelli. Nonostante comunque non avessi stretto nessun particolare rapporto di amicizia con nessuno, nemmeno con la mia compagna di stanza, io non stavo affrontando quell'inferno da sola. Anna era una ragazza che soffriva di un disturbo del comportamento alimentare e, a quanto avevo capito, si trattava di anoressia. A differenza di ciò che aveva fatto lei, io non le avevo fatto alcun tipo di domanda sul suo disturbo, semplicemente ero a conoscenza della sua situazione in generale perché era, appunto, nella mia stessa stanza. In tutta onestà mi ero domandata cosa ci facesse lì data la sua anoressia, ma mi aveva detto di sua spontanea volontà per giunta, che aveva tentato il suicidio mesi prima e che quindi era finita lì. La cosa che mi rincuorava di quel posto era che nessuno giudicava mai nessuno: se qualcuno mi vedeva dare di matto o avere una crisi durante un'allucinazione, non mi guardavano come se fossi pazza, anzi cercavano anche di aiutarmi. Anna era molto carina, ma ogni giorno la situazione mi sembrava peggiorare: aveva dei lunghi capelli color mogano, gli occhi color nocciola ed era veramente magrissima, credevo perdesse peso sempre di più. Le si potevano vedere le ossa persino sul viso scavato dall'anoressia e, con la sua carnagione color ceramica, le occhiaie sembravano scavare il suo sguardo molto di più di quello che era in realtà. Era capitato spesse volte che la sentissi alzarsi in piena notte a vomitare: le prime volte non sapevo esattamente come comportarmi e cosa fare, tanto che restavo a letto e aspettavo sveglia che tornasse a dormire, ma dopo che lei aveva aiutato me in una notte in cui, preda delle allucinazioni, avevo iniziato a urlare e stringere le ciocche dei miei capelli fra le mani minacciando di strapparmeli, quando succedeva mi alzavo e la seguivo, mi sedevo accanto a lei e le accarezzavo la schiena, non aveva bisogno che dicessi qualcosa, però io ero lì, così come lei era lì quando stavo male io. Non ci parlavamo molto nel resto del tempo, anche perché fuori dalle attività che dovevo svolgere raramente uscivo dalla mia stanza.
Poi c'era il momento della pastiglie: c'era un orario prestabilito mattina e sera, in cui ci mettevamo tutti in fila indiana e i dottori ci passavamo le medicine controllando che le prendessimo veramente. Inizialmente pensavo di dover prendere il mio bicchierino e spostarmi, a un'infermiera mi aveva fermata chiedendomi di prenderle davanti a lei e tirare fuori successivamente la lingua, aprendo la bocca per guardare se non le avessi nascoste da qualche parte.
Sentivo, per la maggior parte del tempo trascorso lì dentro, un peso sul petto: era una lama che mi trafiggeva da parte a parte, ricordandomi costantemente che la distanza dal mio gemello, dalla mia famiglia e da Benjamin e i ragazzi mi stava distruggendo. Passavo il tempo a pensare a cosa stessero facendo, a ricordare che fuori di lì c'era una vita che mi stava aspettando e, in quel momento, stavo proprio pensando che esattamente un anno prima, alla mezzanotte, avevo detto a Benjamin che lo amavo per la prima volta in assoluto. Era passato un anno da quando avevamo iniziato ad avere anche Vanessa tra di noi, dalla festa di capodanno, dagli orsetti di gomma intrisi di LSD, dalla danza della finestra di Carter e da quando io e Katherine avevamo ballato insieme su un tavolo ubriache di risate e divertimento. Quanto avrei dato per sentirmi ancora così, cosa avrei dato per avere Katherine ancora con me: mi mancava lei come se mi mancasse un pezzo di cuore.
Mi chiesi cosa avrebbero fatto quella sera i ragazzi, contando che non avevo ancora visto o sentito nessuno di loro quel giorno ed erano già le tre del pomeriggio. Solitamente, per una chiamata, chiamavano nell'orario in cui sapevano avessi il mio cellulare per un'ora, ovviamente sotto controllo, oppure se avevo bisogno di parlare con loro anche prima utilizzavo il telefono del reparto.
Stavo ancora guardando la neve mentre pensavo a tutto ciò che mi stavo perdendo e che mi ero già persa, quando la porta della mia stanza si spalancò e il viso della dottoressa Sabrina mi sorrise stringendo la sua solita cartellina tra le mani. Indossava il classico camice bianco, portava gli occhiali e una spruzzata di lentiggini decorava allegramente il suo viso: aveva i capelli biondo cenere legati in una coda di cavallo, la frangetta copriva la sua fronte e i suoi occhi marroni scrutavano la mia figura intensamente. – Victoria tesoro – Esordì entrando nella stanza e posando la cartella sul tavolino alla sua sinistra. – Che ci fai qui tutta sola, di nuovo? Ci sono i ragazzi di là che stanno preparando la cena per stasera, non ti va di aiutarci? – Domandò speranzosa e avvicinandosi sedendosi di fronte a me.
Scossi il capo e distolsi lo sguardo posandolo fuori dalla finestra nuovamente, deglutendo il groppo che avevo in gola e scrocchiando le dita nervosamente. – No grazie – Risposi sussurrando. – Voglio stare un po' da sola, preferisco così. – Le dissi mordicchiandomi il labbro. – Credo proprio che stasera cenerò in camera, posso chiamare i miei amici? Posso avere il mio telefono a mezzanotte? – Le chiesi tirando su con il naso e cercando di trattenere le lacrime il più possibile.
Sabrina arricciò il naso e roteo le spalle osservandomi con aria curiosa. – Posso provare a chiedere – Sospirò battendo le palpebre. – Ma purtroppo non ti posso promettere nulla tesoro, lo sai che teoricamente non sarebbe possibile. Forse per il fatto che è capodanno potrebbero fare un'eccezione, ma non te lo assicuro. – Mi sorrise leggermente e poi, con un gesto del capo, indicò la porta. – Comunque, a parte per chiederti di venire a cucinare con noi, sono venuta a comunicarti che hai una visita. -
Corrugai la fronte e battei le palpebre confusa: nessuno dei ragazzi sarebbe dovuto venire quel giorno, Nicole e Alexander li avevo già visti, per cui non avevo la più pallida idea di chi potesse essere. Forse Vanessa aveva deciso di venire a trovarmi ugualmente infrangendo la promessa che mi aveva fatto con i ragazzi solo per stare un'ora scarsa insieme a me. – Io non aspettavo nessuno oggi. – Replicai pensierosa.
- Io non l'ho mai vista qui lei, credo sia la prima volta che viene. – Mi disse alzandosi in piedi e prendendo la cartelletta pronta a uscire di nuovo. Non ci fu bisogno di descrivermi la donna perché avevo già capito di chi si trattasse: Juliette. – Bene, ti lascio, è qui fuori. – Mi fece l'occhiolino e spalancò la porta mostrandomi, come avevo immaginato, il volto della mia madre biologica.
I suoi capelli color mogano svolazzarono nella sua camminata al suo ingresso in stanza: Juliette era una donna così composta da far saltare i nervi. Ogni singola cosa di lei mi irritava, persino il fatto che avessimo lo stesso colore di occhi e la stessa spruzzata di lentiggini. Quando ero bambina mio padre mi diceva che gli sembrava il cielo in inverno, quando nevicava, il mio viso decorato da quei puntini. Io odiavo le mie lentiggini, però avevo sempre amato la neve, perciò lui mi diceva che dovevo pensare che quei puntini leggeri sul mio viso fossero in realtà dei bellissimi fiocchi di neve: era forse la cosa più bella, se non l'unica, che mi avesse mai detto. Sammy, invece, non faceva altro che ripetere che invece si trattava di un cielo stellato: avevo la notte dipinta in viso, secondo lui. Mia madre indossava un elegante tubino nero, era truccata dello stesso colore per risaltare la luce nei suoi occhi e indossava un paio di tacchi a spillo, il quale rumore m'infastidiva, mentre si avvicinava a me dopo aver chiuso la porta alle sue spalle. L'unica che apprezzavo di lei era che non si arrendeva al fatto che non volessi più averci niente a che fare: nonostante l'avessi cacciata diverse volte, compreso il mese precedente, lei continuava a tornare. Avrei voluto che si arrendesse, onestamente, perché mi faceva pena vederla in continuazione correre da me, quando io continuavo a ignorarla e non l'avrei mai perdonata. - Tu non ti arrendi mai, non c'è verso - Le dissi scrutandola da capo a piedi e osservandola con aria di sufficienza, incrociando le braccia al petto. - Ti caccio mille volte, ma torni mille e uno. Perché? - Domandai arricciando il naso e provando, sinceramente, un po' pena per lei.
Avrei voluto lasciare che tutto ciò che era successo con lei mi scovolasse via di dosso, avrei voluto avere un vero rapporto, ma non potevo. Avevo provato a vederla con gli occhi della Victoria che fin da bambina aveva desiderato trovare sua madre, abbracciarla e guardarla negli occhi, ma ora che l'avevo davvero davanti, dopo vent'anni di assenza, ogni volta che il mio sguardo incrociava il suo tutto ciò che vedevo erano i momenti in cui io avevo bisogno di lei, ma non c'era. Ed era stata una sua scelta: non c'era perché non ci voleva essere, perché non aveva mai voluto esserci, perché lei non mi voleva e non mi aveva scelta, mi aveva solamente abbandonata. Non esisteva giustificazione a ciò che aveva fatto, a ciò che la sua assenza e la sua mancanza avevano causato, mi aveva semplicemente abbandonata con un mostro, per colpa sua le tenebre mi avevano preso in custodia e mi avevano cresciuta facendomi credere che non esistesse altro al di fuori del buio, quindi non la potevo perdonare, non ce l'avrei mai fatta, sarebbe stato surreale e ipocrita da parte mia se lo avessi fatto, sarebbe stato fingere che tutto era al suo posto, che stavo bene con lei e che avevo superato ogni cosa e ogni ferita che mi aveva inflitto, ma non era così. Non volevo più fingere che fosse tutto okay e dovevo partire da lei per rialzarmi da terra.
- Continuo a tornare perché sei mia figlia e perché ho estremo bisogno che tu mi ascolti. Io so di avere sbagliato, credimi lo so benissimo, so perfettamente che non ci sono giustificazioni a ciò che ho fatto. Però vorrei che mi ascoltassi, prima di dirti addio per sempre, vorrei che tu sentissi la mia versione e spiegarti cosa è successo, poi ti prometto che ti lascerò in pace. Voglio essere sincera con te al cento per cento, prima di arrendermi. Sento di averne bisogno e sento che anche tu necessiti di ascoltarmi, per cui ti prego Victoria, ascoltami. Ascolta ciò che ho da dire, poi mi arrenderò e non ci proverò mai più, se sarà davvero ciò che vorrai. - Mi pregò con lo sguardo e le lacrime agli occhi, così fragile e vulnerabile sotto al mio sguardo distante e privo di empatia, nei suoi confronti.
Ad essere del tutto onesta, credevo davvero di doverla almeno ascoltare per chiudere il capitolo, ma il solo fatto di guardarla negli occhi e pensare a ciò che aveva combinato mi faceva passare la voglia. Sospirai e la scrutai attentamente prima di risponderle, prendendomi anche qualche istante rimanendo in silenzio a riflettere sul da farsi, ma alla fine feci un cenno del capo e le indicai di sedersi su una sedia, di fronte a me, mentre io mi rannicchiavo in me stessa e posavo la testa posata sulle ginocchia. - Voglio che ti sia chiaro che lo faccio esclusivamente per me, non per te o per farti stare meglio. Voglio chiudere questo capitolo una volta per tutte e ricominciare da me. Sono sempre della stessa idea e, a prescindere da ciò che dirai, dubito fortemente che cambierà qualcosa. - Esordii quando lei fece un timido sorriso e si accomodò esattamente come le avevo indicato io. Sembrava rasserenata dal fatto che, finalmente, fosse riuscita a rimanere in una stanza con me per più di due minuti, ma al suo posto dubitavo fortemente che io lo sarei stata.
- Quando ho conosciuto tuo padre non ero consapevole di ciò a cui andavo incontro, naturalmente. - Esclamò accavallando le gambe e distogliendo lo sguardo dalla mia figura, probabilmente sentendosi a disagio a causa del modo in cui la osservavo, per poi posarlo sui fiocchi di neve che volteggiavano ancora nel vento. - Era una persona così dolce e premurosa, mi trasmetteva così tanto amore, non avrei mai pensato che sarebbe potuto diventare così. Inizialmente sapevo ben poco di lui, cominciai ad avere seri dubbi su ciò che stava affrontando quando una sera da ubriaco aveva cominciato a lanciare oggetti contro il muro, mentre eravamo a cena dai suoi genitori: i tuoi nonni. Devi sapere che a tua nonna paterna è stata diagnosticata la schizofrenia all'età di diciotto anni circa, quindi tuo padre ha sempre vissuto con sua madre in condizioni discutibili, soprattutto contando il tipo di personaggio che era tuo nonno. Avevo scoperto, sempre quella sera, che tuo nonno incolpava Paul della malattia della moglie, affermando che era stata la sua nascita a farla impazzire e farle perdere il controllo: disse che era così indesiderato che l'aveva fatta impazzire. Avevamo solo diciotto anni all'epoca, come sai avevamo la stessa età, eppure quella sera non la potrei mai dimenticare. Io e tuo padre ci siamo conosciuti al liceo e siamo stati insieme per anni, dai sedici per la precisione. Credimi quando ti dico che lo amavo più di quanto amassi me stessa e ho sempre fatto tutto ciò che era in mio potere per aiutarlo, almeno fin quando lui me lo ha permesso. Era la sera del suo compleanno, tua nonna aveva avuto un'altra delle sue allucinazioni e tuo padre aveva chiesto a tuo nonno se le stesse facendo seguire le sue cure e se stesse andando dallo psichiatra: lo tagliava sempre fuori, non era mai al corrente di nulla riguardo la famiglia e soprattutto riguardo la salute di sua madre. Tuo nonno disse che aveva interrotto la terapia e le cure dei farmaci perché avevano un costo troppo elevato e quando gli avevano proposto di metterla in una struttura che potesse aiutarla, lui aveva liquidato il consiglio dicendo che non c'era bisogno e che bastava liberarsi del figlio per farla tornare sana, perché il motivo per cui lei era impazzita del tutto era Paul. Non sapevo perché lei continuasse a ripetere che la sua nascita non era prevista, finché tuo padre scoprì, durante una crisi della nonna in cui aveva parlato e, probabilmente, ricordato, che il nonno aveva abusato della moglie e lei era rimasta incinta. Non aveva voluto abortire, voleva crescere il suo bambino, ma restava il fatto che era frutto di tutto ciò che di cattivo esiste al mondo. Quella sera, ad ogni modo, tuo padre esplose come un vulcano: scoprii che suo padre lo aveva sempre picchiato e che in certe occasioni gli aveva fatto molto male, spaccandogli bottiglie di vetro sulla schiena, lasciando cicatrici in ogni dove, segni ai quali prima di quel momento non avevo mai potuto attribuire un significato perché lui si rifiutava categoricamente di parlare e ogni qualvolta tentassi un approccio era fonte di litigio. Purtroppo Paul non era un uomo di tante parole, odiava chi lo tempestava di domande quando non voleva parlare, gli dava così fastidio che alla fine ignorava chiunque quella persona fosse e, se troppo insistente, chiudeva addirittura ogni rapporto. Paul era molto molto particolare come persona, era difficile stargli accanto e comprenderlo, ma per questa sfumatura del suo carattere non lo potevo biasimare. Sono dell'idea che forzare una persona a parlare continuando a fare domande quando questa è chiaramente contraria a farlo porti solo a un ulteriore e più forte distacco, per quanto riguardava tua padre era anche definitivo. Ad ogni modo, non mi aveva mai parlato di ciò che succedeva in casa sua, sapevo solamente che sua madre era molto malata, fino a quella sera in cui poi scoprii tutto e ovviamente fu costretto a parlarmi. - Fece una breve pausa e sospirò lanciandomi un'occhiata: dai racconti di papà sapevo soltanto che il nonno e la nonna non lo avevo mai amato, non sapevo le motivazioni e cosa ci fosse dietro, sapevo soltanto che lui mi diceva in continuazione che mi avrebbe dato tutto l'amore che i suoi genitori non gli avevano mai dato, lui voleva amarmi davvero, non fingere di farlo, il problema stava proprio nel fatto che il suo modo di amare era sbagliato. Non avevo mai saputo dare una spiegazione a quel modo morboso e ossessivo da malato con cui mi trattava, ma dopo le parole di Juliette tutto cominciava ad avere un senso. Nessuno gli aveva mai insegnato ad amare, per lui l'amore era una malattia. - Quella sera mi chiese di fuggire insieme e io ero troppo innamorata per rifiutare. Da quel momento abbiamo vissuto da una città all'altra, spostandoci in continuazione: io ho lasciato la mia famiglia per lui, la mia casa, la mia vita, ho sacrificato ogni cosa per il suo amore e per salvarlo, ma nonostante ciò non ci sono riuscita. Il mio lavoro, per guadagnare il denaro necessario ad andare avanti e pagare gli affitti delle case in cui vivevamo, era alquanto discutibile. Avevo scelto di vendere me stessa e il mio corpo, per amore. Lavoravo giorno e notte, da un motel a un altro, portando a casa soldi illegali e umiliando me stessa solo per un briciolo di speranza di poter salvare la persona che più amavo al mondo. Tuo padre non sapeva nulla, finché una sera mi seguì e scoprì ogni cosa dando di matto. Litigammo pesantemente, non parlandoci per giorni, pensai che volesse lasciarmi. Circa una settimana più tardi, però, scoprii di essere incinta. Per essere certa della paternità durante la gravidanza feci il test del DNA, nonostante i ripetuti avvisi sul fatto che fosse pericoloso per il feto. Lui mi aveva accompagnata e, se da una parte scoprire di essere il padre lo rincuorava, dall'altra non riusciva più a guardarmi negli occhi sapendo ciò che facevo e non accettava il fatto che per salvare la nostra vita io avessi scelto di averne una seconda, nascosta da lui, dalla nostra storia e da ciò che con tanti sacrifici avevamo costruito. Pensai che mi stesse per lasciare, che fosse finita del tutto, oltretutto io ero molto giovane e non mi sentivo pronta a fare la madre, ero così in ansia e preoccupata e avevo bisogno di lui, tremendamente disperata da pensare di non poter affrontare una cosa simile senza il suo aiuto e il suo supporto. Lui rimase al mio fianco, ma purtroppo le cose cambiarono, la nostra relazione cambiò. Non parlavamo, non interagiva più con me, non mi toccava o sfiorava nemmeno per sbaglio: era disgustato da me. Beveva in continuazione, diventava aggressivo, dava di matto lanciando piatti o riempiendomi di parole poco carine durante i litigi e, un giorno, era così ubriaco, così perso, che durante una discussione mi lasciò le cinque dita stampate sul viso, senza nemmeno rendersene conto. Il giorno seguente aveva dimenticato di avermi fatto del male, non lo ricordava, non ricordava nulla, ed io non sapevo cosa fare. La gravidanza era quasi al termine, mancava pochissimo al parto, perciò alla fine scelsi di restare con lui, sperando che le due vite che portavo dentro di me potessero salvarci da ciò che eravamo diventati, portandoci di nuovo sulla retta via. Però mi sbagliavo. - Fece una pausa e sospirò rumorosamente. Le tremava la voce, aveva i brividi a causa dei ricordi ed io sentivo lo stomaco contorcersi ascoltandola parlare. Avrei voluto chiederle di smetterla, dirle che non volevo più ascoltare, tapparmi le orecchie e fingere di non aver sentito nulla, però non potevo. Avevo le lacrime agli occhi, ma non tanto perché mi dispiaceva per lei, ma perché nei suoi occhi rivedevo me stessa, la parte di me marchiata a fuoco dai ricordi oscuri nascosti nei cassetti della mia mente, quelli che con tanta disperazione provavo a tenere sigillati e non far uscire nemmeno per errore, sperando che rimanendo lì, non parlandone, chiudendo quei cassetti a chiave e lasciando che si facesse la polvere pensando che magari potessero diventare delle cicatrici e fare sempre meno male con il tempo. Vedevo nei suoi occhi gli stessi sforzi e, se fosse stata un'altra persona, probabilmente l'avrei abbracciata, ma il fatto che fosse proprio mia madre, il fatto che ci fosse proprio quello spillo a causarmi così tanto dolore ogni volta che la guardavo, mi impediva di farlo. Non riuscivo, non ce la facevo ad andare oltre, era più forte di me. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo e voltarmi verso la finestra, trattenendo le lacrime a stento perché non volevo mettermi in mostra in quel modo con lei. Le feci cenno con la mano di continuare a parlare, perché se si fosse fermata e se solo le avessi detto di smettere non sarei mai riuscita a portare alla fine la storia, e io avevo bisogno di ascoltare il resto. Non ci sarebbero mai state altre occasioni, per cui devo deglutire il groppo in gola e andare avanti.
- Quando tu e Edward siete nati, la speranza sembrò rinascere in lui, all'inizio. Sembrò disposto a tornare ciò che eravamo, formare la famiglia che sognavamo fin da ragazzini e darmi una seconda occasione, ma anche qui mi ero sbagliata. Non aveva mai smesso di bere, con il passare del tempo lo trovavo ubriaco sempre più spesso e diventava sempre più violento, anche con me. Io ero così stanca, Victoria, e lo so che ho sbagliato. Mi dispiace essermene andata solo con Sam, non era mia intenzione rovinarti ulteriormente la vita, ma lui era così possessivo nei tuoi confronti. Stava sempre e solo con te, non voleva starti troppo lontano, eri la sua bellissima bambina e sorrideva così tanto quanto ti prendeva in braccio e ti guardava sorridergli che pensai che se fosse rimasto almeno con te qualcosa di buono sarebbe tornato a scintillare nei suoi occhi. È stato stupido da parte mia pensarlo, credere davvero che potesse semplicemente amare ed essere il padre che doveva essere e che meritavi di avere. Ti ho rovinato la vita e non mi perdonerò mai per questo, ma ti ho sempre pensata, Victoria. Credimi. Non passava giorno in cui non ti pensassi o ti mandassi un pensiero, in cui desideravo venire a prenderti e portarti con me, farti crescere con tuo fratello... -
La interruppi voltandomi di scatto a guardarla e non riuscendo più a nascondere, ormai, il dolore che mi portavo nel cuore. Piangevo così disperatamente, singhiozzavo e mi sfregavo gli occhi con i palmi delle mani, maledicendomi perché non volevo dimostrarle che nonostante tutto di lei mi importava, che ero arrabbiata perché mi aveva ferita così tanto da farmi desiderare di sparire, esattamente come aveva fatto mio padre. Non era diversa da lui, era un mostro tanto quanto lo era lui, la sola differenza era che cercava il perdono e che, forse, era davvero pentita. Però non bastava: il pentimento non bastava a far sì che la perdonassi, non mi fidavo di lei, non mi sarei mai fidata, avrei sempre avuto il terrore di svegliarmi una mattina e non trovarla più, perché lo aveva già fatto e non era mai tornata a riprendermi in vent'anni. Non volevo vivere con quella paura, non me lo potevo permettere, ed era anche per quel motivo che non riuscivo a lasciarmi la questione alle spalle. – E allora perché non sei mai tornata? Se desideravi così tanto farmi crescere con Sam e avermi con te, perché non sei tornata da me? Perché non sei venuta a salvarmi? Io avevo bisogno di te, avevo bisogno che tu mi portassi via di lì, però tu non c'eri. Io ti aspettavo: ti ho aspettata giorno e notte, pregando e sperando che entrassi da quella porta dicendomi che eri venuta a salvarmi, a portarmi via da quell'incubo, ma non sei mai arrivata. Te ne sei sempre fregata di me. Non puoi venire qui adesso a pregare e inginocchiarti per avere il mio perdono, io non te lo posso dare, lo capisci questo vero? Mi hai distrutta, sei stata sua complice per tutto quel tempo e non puoi lavarti la coscienza semplicemente dicendo che ti dispiace e chiedendomi scusa, perché non è così che funziona. Le cicatrici non se andranno e non cambierà mai il fatto che tu hai lasciato che tutto questo accadesse. Cosa me ne faccio delle tue scuse? Mi hai dato solo anni di terapia e un cuore di tenebra, non basta chiedere scusa, mi dispiace. – Le dissi semplicemente senza riuscire a respirare a causa dei singhiozzi.
Mi alzai in piedi, posando una mano sul petto e annaspando in cerca di aria, come una disperata, mentre lei mi osservava dopo essersi alzata a sua volta e cercando di avvicinarsi a me. Scattai all'indietro, alzando il braccio e scacciando la sua mano con un gesto fin troppo burbero, ma avevo bisogno di non essere toccata, non in quel momento. – Ho solo un'ultima domanda – Dissi dopo essermi calmata qualche istante. – Cosa è successo quella notte? Come hai fatto ad arrivare in tribunale e perché sei arrivata solo in quel momento? -
- Sono scappata quella notte – Rispose. – Sono corsa via dopo aver visto tuo padre che sparava a Benjamin, nascondendomi. Mi sono accertata che qualcuno chiamasse i soccorsi e poi sono venuta via, sapendo che il detective mi avrebbe cercata e chissà cosa mi avrebbe fatto per far sì che rimanessi zitta. Ho contattato il mio avvocato e la polizia, non quel distretto naturalmente, e questo mi ha aiutata a stare dietro ai progressi delle indagini passo dopo passo. Non potevo farmi vedere proprio quella sera, tu eri sotto shock per troppe cose, se fossi venuta da te in quel momento probabilmente ti avrei soltanto causato un ulteriore danno. – Spiegò sospirando. – Sono entrata così in tribunale soltanto perché sono arrivata in ritardo, ma il giudice e il procuratore sapevano che sarei dovuta intervenire e testimoniare. Non ho fatto le cose di nascosto dalla polizia, non avrei mai potuto, stavo collaborando con le indagini fin da quando ti sei consegnata a Paul. Ti stavo dietro anche prima, visto che Alexander e Nicole mi hanno contattata insieme a Sean spiegandomi la situazione immediatamente dopo aver scoperto che Paul era riuscito a scappare di prigione. Victoria credimi che mi dispiace da morire, ti ho aiutata per tutti questi anni da dietro le quinte e so che avrei dovuto dirti la verità, che avrei dovuto dirti chi ero e non lasciare che la paura che ti allontanassi da me dopo averti avuta finalmente con me mi aveva accecata. Avrei dovuto dirti di Sam e so anche che se fosse stato un rapporto diverso sarebbe stato un disastro e sarebbe stata soltanto colpa mia. Non ho giustificazioni, nessuna, non esistono, ma adesso sono qui e spero che prima o poi tu riesca a perdonarmi quel tanto sufficiente per poterci sedere a tavola tutti insieme una volta ogni tanto. -
Scossi il capo prendendomi la testa tra le mani e dandole le spalle e stringendomi in me stessa: non volevo più ascoltarla. Non volevo più sentire niente, avevo solo bisogno di stare da sola. – Vattene – Sussurrai chiudendo gli occhi e abbracciandomi da sola.
- Se solo potessi... - Tentò di dire.
- Ma non puoi. – Sibilai voltandomi a guardarla. – Senti mi dispiace per ciò che ti è successo e per quello che ti ha fatto papà, dico davvero, dal profondo del mio cuore. Non c'è persona che comprenda la tua sofferenza più di me, ma nonostante questo io non ti posso perdonare. Non ce la faccio. Non riesco a vederti come la persona che ha sofferto per tutto questo, riesco solo a vederti come la madre che per me non sei mai stata, la persona che mi ha abbandonata, quella che non mi ha scelta e non è mai tornata a riprendermi. E mi dispiace, mi dispiace soprattutto per me, perché vorrei perdonarti, ma non posso. Non ci riesco. Posso tentare di tollerare la tua presenza per Sam, per i miei genitori e per Sean. Ma il mio perdono non lo puoi e non lo potrai mai avere. È questa la mia risposta, ora vattene per favore. -
- Victoria io... - Si avvicinò nuovamente, allungando la mano, piangendo guardandomi e battendo le palpebre freneticamente.
- Ho un disperato bisogno di stare da sola adesso. – La interruppi alzando la voce e passando le dita sotto gli occhi. – Per piacere, vattene. Lasciami sola, ti prego. -
A quel punto Juliette lasciò cadere il braccio lungo il fianco, fece un passo indietro e lasciò la stanza.
Rimasi sola, accompagnata solo dalla mia solitudine e dal suono infestante dei miei pensieri, crollando a terra e piangendo tutte le lacrime che sentivo di avere nel corpo.
Non ero più uscita dalla mia stanza da quando Juliette se n'era andata. Ero distrutta dalle sue parole, da ciò che mi aveva raccontato, da tutti i ricordi che mi avevano assalita come un'alta marea, cancellando i progressi che avevo fatto in quel mese. Desideravo strapparmi il cuore dal petto e lanciarlo dalla finestra: credevo che ripensando a mio padre e ciò che era successo avrei sofferto un po' meno, speravo che le ferite si fossero rimarginate almeno un po', ma mi sbagliavo. Continuavo costantemente a piangere e temevo che ciò che avevo ascoltato quel giorno potesse riportarmi indietro di nuovo di qualche passo. Non sapevo cosa sarebbe accaduto, sapevo solamente che ero stanca di sentirmi male, stanca di vivere in quel modo e passare le giornate a piangere.
Guardavo ancora la neve attecchire al suolo, nel giardino dell'edificio, e portavo i miei pensieri ai miei amici che mi mancavano da morire, con i quali avrei desiderato essere alla mezzanotte, per stappare una bottiglia in onore del nuovo anno e per abbracciarli e stringerci ricordando il vecchio.
Mancavano quindici minuti e regnava il caos da quando erano scattate le ventitré, là fuori. Anna era entrata un paio di volte a chiedermi di uscire e andare con loro, mi aveva anche portato un vassoio con la cena, ma io avevo gentilmente rifiutato sia il cibo che la compagnia, pensando che avrei preferito restare da sola. Prima di cena la dottoressa sabrina era venuta a comunicarmi che non potevo avere il mio cellulare e non potevano essere fatte eccezioni, nemmeno per la notte di capodanno, perciò l'unico modo che avevo per stare con i ragazzi allo scattare della mezzanotte era regalare loro il mio pensiero e sperare che gli arrivasse.
Mi portai una mano sul cuore, quando una lacrima bagnò timidamente il mio viso, e strizzai gli occhi posando la testa sulla finestra, sollevando la mano sinistra e sperando che Benjamin sentisse che, nel mio cuore, desideravo ancora ripetergli quanto lo amassi come quella notte di un anno prima. In quel momento, quel gesto, era tutto ciò che avevo.
Sperai che Sam lo sentisse che lo stavo pensando e che Vanessa sorridesse nonostante non ci fossimo ne io ne Katherine con lei, ma che ballasse un po' anche per noi, come se entrambe fossimo al suo fianco. Sperai che Carter sollevasse un calice al cielo sia per me che per Kat, che Ryan la ricordasse quella notte, che Arthur fosse felice al fianco di Amy e che Richie baciasse la fronte di Grace, stringendola come aveva sempre voluto fare alla mezzanotte dell'ultimo giorno dell'anno: mi aveva rivelato che desiderava soltanto avere una persona a cui dedicare l'ultimo, ma anche il primo, bacio dell'anno. Sperai che la mia famiglia fosse unita, nella speranza di poter avere un anno migliore.
Fu quando vidi un gruppo di persone introdursi illegalmente nel giardino dell'edificio che balzai in piedi e rimasi ad osservare la scena battendo le palpebre con la testa contro il vetro della finestra. Barcollavano tutti quanti, qualcuno più di altri, e scoppiai a ridere quando uno dei ragazzi cadde con il sedere a terra, come un sacco di patate. La mia risata si bloccò nell'istante in cui il cappuccio del ragazzo scese, facendomi perdere un battito: era Sam, era mio fratello, ne ero del tutto certa.
Strinsi gli occhi a fessura cercando di mettere a fuoco ogni persona: Ryan aveva una chitarra stretta in mano, Benjamin era impegnato a regalare stelline a tutti quanti, Vanessa stringeva la bottiglia di spumante, almeno così credevo, tra le mani, sollevata al cielo e con un sorriso dipinto in viso. Carter batteva le mani senza fare nulla, come se stesse dirigendo qualche strano tipo di operazione, tanto che vidi Sam imprecare e scuotere il capo allungando la mano verso di lui per farsi aiutare ad alzarsi. Richie, invece, aiutava Benjamin cercando accendini come un disperato nelle sue tasche, Ben gesticolava e gli indicava di muoversi probabilmente e Richie, dal canto suo, si tastava nelle tasche sbuffando scocciato. Ryan, invece, agitava la sua chitarra arricciando il naso e cercando di capire, almeno così pensavo, se fosse accordata, e sorrise quando si accorse che io ero alla finestra, e li stavo guardando. Sorrisi anche io, raggiante, sollevando la mano e salutandolo esattamente come lui aveva fatto con me e, nel momento in cui Ben alzò la testa e posò gli occhi nei miei, lo sentii tremare, sentii il mio cuore perdere un battito e mi allontanai definitivamente dalla finestra, facendo qualche passo indietro e correndo fuori dalla porta.
Scesi lungo le scale, con il cuore che batteva all'impazzata e consapevole che se mi avessero vista sarebbe stato un problema ma sperando che, con il fatto che fossero tutti impegnati a festeggiare, non badassero a chi faceva avanti e indietro nei corridoi o su e giù per le scale. Naturalmente non erano deserte: c'era chi era seduto e appoggiato al muro leggendo libri, chi camminava canticchiando, chi chiacchierava stringendo un succo tra le mani e chi, invece, attendeva la mezzanotte e basta.
Quando arrivai in giardino mancavano cinque minuti allo scattare del nuovo anno e, nel momento in cui mi ritrovai tutti i ragazzi davanti ad osservarmi con un bellissimo sorriso, fui costretta e posarmi una mano sul petto e alzare il viso al cielo, nel tentativo di nascondere le lacrime. - Siete dei pazzi - Esordii con il respiro pesante e la voce tremante, chiudendo gli occhi asciugando le lacrime.
Sam fu il primo a farsi avanti, saltellando verso di me, prendendo il mio viso fra le mani posando la fronte sulla mia abbracciandomi con forza, facendomi volteggiare e inspirando il mio profumo come se non mi abbracciasse da mesi. - Pensavi davvero che ti avremmo lasciata da sola la notte di capodanno? - Domandò sollevando le sopracciglia dopo avermi posata a terra nuovamente.
Scossi il capo e ridacchiai, piegando la testa di lato quando scorsi Benjamin osservarmi con un timido sorriso e una rosa stretta tra le dita. Sollevò l'altra, quella libera, facendo il nostro gesto, il nostro piccolo segreto, e lasciando che sollevassi anche io la mia, con le lacrime agli occhi e andandogli incontro facendo combaciare esattamente le nostre dita l'una sull'altra. - Ti amo - Sussurrò avvicinandosi fino a posare la fronte sulla mia e sfiorare il mio naso con il suo, a un millimetro dalle mie labbra, oltre che a un millimetro dal mio cuore. - E mi manchi immensamente, ti aspetto qui fuori, ti aspetterò per tutto il tempo che ti sarà necessario. -
Chiusi gli occhi e singhiozzai alzandomi in punta di piedi e stringendo le braccia dietro al suo collo, aggrappandomi alla sua vita con tutte le forze che avevo, con la disperazione in quel gesto, chiedendogli di salvarmi e non lasciarmi mai da sola, anche se lo faceva senza nemmeno che fossero necessarie parole da parte mia. - Mi manchi anche tu - Risposi accarezzando il suo viso e baciando l'angolo della sua bocca. - Arrivo, aspettami ti prego -
- Sempre - Mi baciò delicatamente mentre Ryan strimpellava la sua chitarra a due minuti dalla mezzanotte.
Vanessa posò una mano sulla mia spalla, sollevando la bottiglia al cielo anche per me e liberandosi lanciando un grido al cielo, un braccio stretti attorno alla mia vita e un dolce abbraccio a scaldare il mio cuore. - È già difficile senza una di noi, non volevo passare il capodanno anche senza di te, dovevo vederti per forza - Esclamò ciondolando mentre mi abbracciava.
Richie mi abbracciò in silenzio e sorridendo teneramente. - E Grace? - Domandai ricambiando l'abbraccio.
- Tu sei mia sorella, Grace può aspettare - Rispose abbracciandomi di nuovo.
Carter mi offrì una stellina mentre agitava la sua al cielo, a cuor leggero, gli occhi arrossati dal fumo e lo scarso equilibrio dovuto alla grande quantità di alcol assunto. - Boadicea - Mi disse soltanto baciandomi la guancia.
Sentii Ben rispondere al telefono, Ryan fischiare quando ci mostrò il volto di Arthur che cronometrava i secondi alla mezzanotte, e l'espressione libera e gioiosa, accanto ad Amy. - Ti voglio bene Vic, ci vediamo presto - Esclamò mandandomi un bacio volante. - Ragazzi trenta secondi! - Disse poi sfregandosi le mani. - Che ansia, wow. -
- La vedete quella piccola stella? Quella che brilla più delle altre - Esclamò Ryan scoccando un'occhiata a tutti. - Quella è Katherine, lei è qui con noi, io la sento -
Vanessa si appoggiò alla mia spalla stringendo la sua mano, Carter alzò la stellina al cielo. - Questa è per te - Disse sorridendo. - E per te - Guardò me, in quel momento, mandandomi un bacio volante e sorridendomi dolcemente.
Benjamin mi abbracciò da dietro, mostrandomi suo fratello sullo schermo del cellulare. Ryan e Richie uno di fianco all'altro che battevano i tempi della canzone ridendo assieme e Sam, con il viso alzato al cielo e una mano stretta alla mia, aveva le lacrime agli occhi e annuiva, in silenzio. - Dieci, nove, otto - Sussurrò alzando la mano libera e lasciando che un fiocco di neve si posasse sul suo palmo.
- Sette, sei, cinque, quattro - Era un conto alla rovescia fatto da persone che speravano in un anno migliore, in qualcosa di grande, qualcosa che avrebbe potuto donare l'arcobaleno dopo tutta la pioggia a cui avevamo assistito.
- Tre, due, uno... -
Ci furono boati e grida. Ci incastrammo gli uni agli altri, abbracciati e con il viso rivolto al cielo, agitando stelline e guardando fuochi d'artificio fatti da altre persone.
Loro non potevano stare lì, ma erano venuti per me, per non lasciarmi sola. Abbracciai Benjamin così forte che mi tolse il respiro, Sam asciugava le mie lacrime baciando le mie palpebre come aveva sempre fatto.
Vanessa urlava e agitava le braccia al cielo, Richie mi prese per mano e mi fece fare una piroetta tra i fiocchi di neve, ballando con me anche se faceva freddo, davvero troppo freddo: Non importava a nessuno sentire il freddo fin dentro le ossa, contava solo essere insieme, augurarci buon anno e iniziarlo uniti più che mai, nonostante il dolore, la nostalgia, la mancanza, tutte le sofferenze e le tempeste a cui avevamo assistito.
I brividi che avevamo non erano causati dal freddo, ma dal fatto che eravamo una grande famiglia, tutti uniti nonostante il pessimo momento che ognuno di noi stava affrontando. Ryan saltava in mezzo alla neve, suonando la sua chitarra e cantando una canzone a cuore aperto, dicendo che ancora c'era speranza, anche per persone come noi.
Anche se alla fine furono costretti a scappare per via della sicurezza che ci aveva trovati, anche se il mio cuore si spezzò vedendoli correre via e salutarmi allontanando le loro mani dalle mie e sciogliendo gli abbracci, mi avevano regalato una piccola luce in quel momento buio in cui ero rinchiusa sola con me stessa ad accettare le mie fragilità.
Erano la mia famiglia, tutto ciò che avevo, e auguravo a loro il meglio della vita. Saremmo stati insieme per sempre, ne ero certa, e la fiamma della nostra candela non si sarebbe mai e poi mai spenta.
Ero abituata a stare sola nella mia vita, ma loro sarebbero stati soli insieme a me, a qualunque costo.
___
hope u like it
ilysm guys
see u soon<3
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro