Prologo
La nebbia si dissolse, lasciando spazio al dolore e alla confusione. Il fischio nelle orecchie era costante, quanto il sapore del metallo in bocca.
Il cielo le stava cadendo addosso e la luce di un lampione, alla sua destra, la costrinse a tenere le palpebre a mezz'asta.
Il terreno era freddo. Così freddo. Lo sfiorò con due dita, era roccioso.
C'era un tanfo. Era tossico. Fumo.
Tossì, facendo scuotere il suo corpo dal busto in su. Inspirare faceva male, ma mai quanto la testa. Cos'era successo? E perché vedeva il mondo a metà?
Urlò. Aveva tentato di mettersi seduta e ciò le aveva causato una scossa dal bacino fino alle spalle.
Allungò l'unico braccio che riusciva a muovere e tastò l'oggetto che le stava schiacciando la gamba. Sollevò piano il viso.
Una moto. Era su una strada. La moto le stava addosso.
Ecco spiegato il peso sulla testa. Slacciò il casco e lo levò. Si strozzò con la sua stessa saliva. Si girò e sputò sull'asfalto, trovando sangue.
Una scura e interminabile scia di sangue. Andava da lei a... un corpo. Capelli biondi, scarpe da tennis, jeans sbiaditi...
«Avery!», riconobbe il suo migliore amico. «Avery!»
Era a faccia in giù, le gambe incrociate, il cranio spaccato.
Gridò il suo nome, difficilmente, raschiandosi la gola, mentre l'odore di fumo aumentava.
Le tornò in mente. Erano andati a fare un giro sulla moto di Avery. All'insaputa della madre di lei, la quale disapprovava quei loro giretti in notturna. Anzi, disapprovava lui e basta.
Perché aveva dato l'unico casco che c'era a lei?
Com'erano finiti lì, poi? Un animale? Un guidatore ubriaco?
La pioggia. Era stata la pioggia.
Il braccio sinistro le pulsava, lo sentiva bollente. Un vulcano pronto a eruttare. Ma non doveva emettere lava. Era semplicemente rotto.
Gemette, sofferente e frustrata. Tutto di lei era in fiamme, doveva essersi graffiata sulla strada nella caduta. Non poteva spostarsi, né andare da lui. Dio, quant’erano forti le fitte alla gamba. Almeno la sentiva, era un buon segno.
Le narici le si dilatarono, correggendole il pensiero. Non era fumo, era benzina.
«Avery, rispondimi!»
Doveva risponderle. Aveva bisogno che le rispondesse.
È solo svenuto. È solo svenuto. Ti prego, fa’ che sia solo svenuto.
Però la quantità di sangue che si trovava in mezzo a loro, come un torrente…
Dei lampi, rossi e gialli, seguiti dal suono delle sirene, le fecero realizzare che era tutto vero. Che non se lo stava immaginando.
«No…», singhiozzò.
I vigili del fuoco si occuparono della moto. I paramedici si divisero, alcuni tiravano fuori lei dalle macerie, mentre altri controllavano il suo amico.
Mantenne gli occhi su di loro, i lunghi capelli biondi intrisi di fango e sangue. Il sentiero rosso che li legava venne calpestato da uomini e donne del primo soccorso. Intanto che preparavano lei per il viaggio in ambulanza – dando la priorità alla gamba e al braccio –, il resto della squadra confermò i timori della ragazza e portarono un sacco nero.
«Che state facendo?» Lottò per sollevarsi, ma delle mani guantate la tennero giù. Fu inutile agitarsi, ma rese faticoso ai paramedici il compito di trasportarla sulla barella. «Gli servono le compressioni, fermi!»
Gli spasimi erano dilanianti, un coltello che la percorreva meticolosamente seguendo il percorso dei suoi nervi. Erano niente in confronto al morboso spettacolo che le si presentava davanti.
Avery aveva gli occhi chiusi, la pelle colma di segni.
Sua madre aveva avuto ragione. Perché non l’aveva ascoltata? Se non ci avesse litigato, se non si fosse ribellata…
Il sacco per cadaveri venne chiuso, la zip tirata fino all’orlo. E così si chiusero anche i polmoni di lei.
«No, è ancora vivo! Mi sentite? È ancora vivo! Avery! Avery!»
L’ora successiva fu un susseguirsi di urla, lacrime, termini medici e rassicurazioni da parte dei chirurghi. Tutti le dicevano che si sarebbe ripresa. Cazzate.
Quando poi arrivò sua madre, imperturbabile nella sua fredda compostezza, passò lo sguardo su di lei come a esaminare la gravità della situazione. Sua figlia, stesa su un letto d’ospedale, con un braccio ingessato e metà gamba ricucita.
Le accarezzò a testa, un gesto meticolosamente calcolato, nel tentativo di darle conforto. La ragazza si sentiva come un cane che veniva rassicurato dalla padrona.
«Una nottata tremenda, non c’è che dire». Ansimò. «C’è però da ammettere che il suo è stato un gesto da stupidi. Usare la moto mentre piove, povero ragazzo. Almeno tu sei viva, è questo l’importante. Vado a chiedere quando posso portarti a casa. Dovrai prepararti ad affrontare le conseguenze delle tue scelte, cara». Le baciò la fronte e uscì dalla stanza.
Nathalie esalò un respiro tremolante. Adesso che se n’era andata, si permise di singhiozzare.
Sapeva cosa aspettarsi da lei. Era uno dei vantaggi dell’avere una madre anaffettiva. Lo svantaggio era che faceva male lo stesso, sempre.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro