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Capitolo 16 - Debolezze

Riprendendo aria in una boccata, Nathalie spaccò la superficie piatta dell'acqua e si passò le mani tra i capelli. Le bolle del bagnoschiuma le coprivano il corpo nudo come una veste, l'acqua calda le aveva fatto rilassare i muscoli.

Uscì dalla vasca, si asciugò, usò l'asciugacapelli e mise il pigiama. Più che pigiama era una canotta con pantaloncini.

Per la cena, Sean aveva deciso di sorprenderla. A quanto pare, il piantagrane di Milton sapeva cucinare il sushi fatto in casa. Guardarlo mettersi all'opera era stato come assistere alla realizzazione di un capolavoro. I loro piatti, oltre che squisiti, erano stati anche belli da vedere.

Allacciò l'orologio di Avery al polso e percorse il corridoio, tornando nella camera di Sean per rimettere nel beauty-case l'occorrente che le serviva per la notte.

Il suo cuore saltò un battito e le creme le caddero di mano. In mezzo alla stanza, creato con coperte e cuscini, c'era un fortino.

Sean, steso a pancia in giù, mostrò la testa per sorriderle.

«E questo cos'è?»

«Il tuo angolino nel mondo».

Il suo angolino.

Quel traditore del suo stomaco fece le capriole.

Sean allungò una mano invitante. Nat, perplessa, si lasciò tentare da lui, come al solito. Venne trascinata nel rifugio, finì addosso a Sean e lui le fece il solletico sul pavimento coperto da una trapunta.

Il fortino era addobbato da lucette colorate, come se un arcobaleno fosse esploso nel cielo notturno e avesse macchiato le stelle.

Era piccolo, confortevole, morbido e caloroso. Un luogo dove ricaricarsi e starsene in pace. Sean l'aveva costruito per lei.

«Allora...» Sean, sdraiato di fianco a lei e intento anche lui a fissare le lucine, prese parola. «Quale scuola frequentavi prima?»

«No».

«Che?»

«Non faremo il gioco delle venti domande, Foster».

Lui ruotò gli occhi. «Dio, come sei acida».

Nathalie gli rifilò una gomitata. «Limiti, signorino. Non superarli».

Spavaldo, ridacchiò. «Che c'entra la tua vecchia scuola con i tuoi segreti?»

Tutto.

«Si chiama "Privacy"».

Sean la sovrastò, incastrandosi nuovamente tra le sue gambe e ostruendo la sua visuale sulle luci. «Si chiama "Disturbo evitante di personalità"».

«Vaffanculo».

La bocca di Sean sulla gola le fece scordare ciò di cui stavano parlando. Quei fianchi che si stavano strusciando contro i suoi...

«Sei la prima ragazza che mi manda a quel paese e riesce lo stesso a farmi diventare duro».

«Stiamo parlando di un numero a tre cifre?»

Le pizzicò una coscia. «Sei fortunata che sei arrapante, sennò mi sarei limitato a incazzarmi e basta, senza permetterti di toccarmi».

In vena di giocare, gli afferrò il pacco attraverso la stoffa dei boxer. «Ti piace quando ti faccio arrabbiare. Diventi ancora più caldo».

Si portò una sua gamba addosso, Nat premette la caviglia contro il suo culo per avvicinarselo. «Per quanto sia intrigante l'alone di mistero che ti circonda, gradirei sapere con chi sto scopando. Non vorrei avere tra le mani una ricercata».

«Non lo troveresti sexy?»

«Non è questo il punto». Le mordicchiò il seno, abbassandole il colletto del pigiama, e con la mano le strizzò una tetta. «Dimmi qualcosa di te. La tua vecchia scuola?»

Nat gemette e gli tirò i capelli. «Bandiera rossa».

«I tuoi amici?»

«Bandiera rossa».

«La tua famiglia?»

«Mmh, grossa bandiera rossa», blaterò e gli leccò il labbro inferiore. «Piantala con le stronzate».

Le infilò la lingua in bocca e Nathalie ebbe un capogiro. La stava muovendo come se le stesse scopando la fica... ancora. «Una sola cosa di te e la finisco».

Una sola? Poteva essere anche una mezza bugia?

E va bene. «Sono figlia unica. Vivo con mia madre e non so chi sia mio padre».

Era la menzogna che si era preparata con sua mamma fin da piccola. Nessuno doveva collegarla a suo padre e ora era più necessario di prima far scomparire il proprio nome.

Nathalie si chiese se, così facendo, non avrebbe fatto scomparire anche se stessa. Già stava cercando di cambiare, di essere una ragazza che non avrebbe mai potuto provocare la morte di un giovane.

Rimpiazzarsi con una brutta fotocopia avrebbe facilitato la propria vita e quella degli altri? Sarebbe stato come voltare le spalle ad Avery e a ciò che erano stati insieme?

Uno squillo irruppe nel suono dei loro sospiri, spezzando l'atmosfera.

«Ti avevo detto di metterlo in silenzioso».

«Devo aver messo l'opzione delle ventiquattro ore».

Tentò di scansare Sean, ma lui la bloccò. «Non rispondere».

«A quest'ora può chiamarmi solo mia madre, non posso ignorarla». Lo spinse via e sgattaiolò fuori dal fortino.

Armeggiò tra i vestiti che Sean aveva indossato quel giorno, fino a trovare il proprio cellulare in una delle tasche. Mentre chiudeva la porta della stanza per andare in corridoio, un tuono riverberò nel cielo plumbeo.

Accettò la chiamata, mettendo i capelli dietro l'orecchio. «Mamma?»

«Finalmente ti degni di rispondermi».

«Te l'avevo detto che sarei stata irraggiungibile a causa dello studio».

«Non m'interessa. Vorrei sapere per quale diavolo di motivo mi è arrivata una chiamata a carico della Milton Jail, dove mi dicevano che mia figlia ha lasciato un giubbetto da loro nella sua ultima visita».

Merda. «Uhm...».

«Che sei andata a fare nel carcere della contea?»

Be', o la va o la spacca. «Papà è stato trasferito lì».

Silenzio. Un silenzio spaventoso. A Nat fece accapponare la pelle.

«Per questo hanno telefonato a me? Hai firmato al posto mio imitando la mia calligrafia? Ero l'unica ad avere il permesso per andare a trovarlo». La sua voce era un mormorio confuso. «Un attimo. È per questo che hai scelto Milton? Sapevi di tuo padre?»

Nathalie si impose di non abbassare il tono per la paura. «Mi dispiace. Volevo risposte».

Pregò che per questo sua madre non l'avrebbe portata via e fatto cambiare Stato, di nuovo.

Sapeva come la pensava su suo padre. Lo vedeva come una fonte di guai. Ex soldato, si era ritirato per stare dietro le quinte e costruire per l'esercito le armi più veloci e letali. Un uomo che aveva provato sulla propria pelle l'orrore della morte, alla fine aveva ucciso pure sul suolo americano.

Stress post-traumatico? No, a detta di sua madre.

Allora cos'era stato a farlo scattare?

«Ti ha detto di dirmi qualcosa?»

Le tornò in mente. «Ha detto "Non è ancora prudente". Che significa?»

Il sospiro di sua madre aveva un che di... preoccupante. «Non temere, so io cosa significa. Ehm, ti ho telefonato anche per un'altra cosa. Siamo state invitate a un ricevimento per questo giovedì, dal procuratore in persona. Domani andiamo a cercarti un vestito».

Un ricevimento?

Nella sua vecchia città, evitava questi tipi di eventi come la peste e scappava con Avery a fare bisboccia. Forse era il caso di chiudere un occhio per non insospettire sua madre, almeno per stavolta?

«D'accordo. Basta che non sia niente con colori accesi...». La voce le si indebolì quando percepì il polso più leggero.

L'orologio di Avery. Non c'era più.

Poco prima, Sean l'aveva tenuta ferma per i polsi...

Bastardo.

«Mamma, devo andare. Ti richiamo». Attaccò senza attendere un saluto e spalancò la porta della camera.

Sean alzò lo sguardo, tra le mani aveva l'orologio.

Le dita di Nat tremarono. «Ridammelo».

«Continuavo a chiedermi per quale motivo qualcuno dovrebbe indossare un orologio che non funziona».

Camminò lentamente, angosciata. «Mollalo, Foster».

Sean se lo rigirò tra le mani. «Allo stesso tempo, mi sembrava familiare».

«Dammi quell'orologio del cazzo!», urlò.

«Poi ho capito. Un mio amico ce l'ha identico. Solo che il suo è dorato». Il viso di Sean era una maschera di pietra, fredda e pesante. «Questo è un orologio da uomo».

Nathalie era in grosso rischio di andare in iperventilazione.

Non chiedere. Non chiedere. Non chiedere.

Sean alzò il pugno, stringendo l'argento. «Di chi è?»

Era la prima volta che lo sentiva così furioso. Le volte in cui lo aveva stuzzicato non erano niente in confronto ad adesso.

«Hai detto che non sai chi è tuo padre, di chi cazzo è?!», sbraitò. «Un ragazzo dà qualcosa di suo a una ragazza solo per una ragione. Chi è il figlio di puttana che hai voluto tradire, usando me?»

Fu una stilettata in ogni arteria. Era un'emorragia interna dovuta allo shock.

"Tradire". "Usato". Pensava questo di lei?

Il sorriso di Avery. L'amore di lui che non era riuscita a ricambiare. Il suo cadavere in una pozza di sangue e pioggia.

Lo aggredì, riprendendo l'orologio e colpendolo con pugni e schiaffi. «Fottiti! Vaffanculo, fottiti!»

Non sapeva niente. Era uno stronzo geloso che non sapeva niente.

Come si era permesso?

Lui e le sue insicurezze, quelle che provava a nascondere ferendo il prossimo.

Ventisei ore. Erano durati ventisei ore, chiusi nella stessa casa senza ulteriori contatti. Più di quanto Nat pensasse.

Lo odio.

Raccattò le sue cose alla velocità della luce, corse giù per le scale e scappò da casa Foster ancora in pigiama. La tempesta l'accolse con acqua sporca e vento e, nel scendere gli scalini del portico, andò a sbattere contro un gruppo di ragazzi che passava da quelle parti.

C'era troppo caos nella testa di Nathalie, tuttavia udì i fischi e i commenti sconci di quei tizi. Tentò di superarli. Li offese pure, dato lo stato in cui si trovava. Prima che potesse accorgersene, delle mani la tennero ferma.

Lo strillo che le scappò dalla gola quando provarono a portarla in un vicolo fu come lo scoppio di uno sparo. Qualcuno rifilò un cazzotto al maniaco che la stava tirando per la maglietta e, uno a uno, i suoi aggressori fuggirono.

Nat cadde in ginocchio sul marciapiede e si abbracciò da sola. Odiava la pioggia, adesso più che mai. Era fredda, batteva, distruggeva.

Le lacrime e i singhiozzi si interruppero per un secondo, quando qualcosa di pesante e caldo le venne poggiato sulle spalle. I suoi polpastrelli tastarono pelle, cerniere e bottoni d'argento.

La giacca di Sean.

Lo trovò che raccoglieva il suo borsone per lei e faceva cenno per fermare un taxi. Diede dei soldi all'uomo al volante e mise il borsone sui sedili posteriori.

Nat si alzò, entrò nel taxi e attraverso il finestrino scuro si limitò a lasciare Sean con i suoi occhi tristi. Si strinse nella giacca di pelle e sonnecchiò, infreddolita e col cuore a pezzi.





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