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Capitolo Sesto

"[...] No se puede describir lo que sentí. Era como si hubieran sido arrastrados por la fuerza en el futuro, en un mundo nuevo. Esto es lo que sentí cuando Monseñor de Mogrovejo me puso la corona en la cabeza, a la luz de la Abadía de Westminster. Conviértete en el rey y emperador en todo el océano Atlántico, controlarlo todo, tienen el poder de todo lo que se sabe. Tal vez eso es lo que quería decir mi padre, tu abuelo agosto, cuando hice partícipe de sus visiones."

"[...] Non è possibile descrivere ciò che ho provato. Fu come essere stati trascinati a forza dentro il futuro, dentro un nuovo mondo. Ecco quello che sentii quando monsignor de Mogrovejo mi mise in testa la corona, nella luce dell'abbazia di Westminster. Diventare re e imperatore dell'intero oceano atlantico, controllare ogni cosa, avere il potere su tutto ciò che è conosciuto. Forse è questo che intendeva mio padre, il tuo augusto nonno, quando mi rendeva partecipe delle sue visioni."


(Dalle Lettere del Re di Spagna, Sicilia, Sardegna, Portogallo e Inghilterra Filippo II all'infante Carlos, 5 marzo 1565)



Le dodici e dodici minuti del pomeriggio




«Serrate i ranghi! Proteggete Su Alteza!»

In qualche modo, si erano prodigati per riportarlo a palazzo, serrandolo dentro una gabbia di alabarde, mentre la corte si disperava alle sue spalle. Filippo si era fatto trascinare come un pupazzo da una bambina inquieta, con le suole degli stivali che sfioravano appena i gradini della scalinata. Don Escobedo e Antonio Pérez gli erano corsi appresso ansanti e grondanti di sudore.

«Majestad! Majestad!»

L'urlo, la voce di Ana de Mendoza. Filippo avrebbe voluto voltarsi e dirle che andava tutto bene, ma non vedeva che elmi e corazze intorno a lui, specchi d'acciaio che gli rimandavano all'infinito il riflesso del suo viso sconvolto.

«Proteggete il re! Tutti a palazzo, sigillate il portone!»

«Portate via la regina! Nelle stanze, sette soldati!»

«A morte l'assassino! Capitano! Capitano Carrasco!»

Filippo si divincolò dalla stretta dei soldati e alzò la testa. Scorse la salma del capitano che veniva portata via a forza di spalle, con l'uniforme ormai pregna di sangue. L'odore che gli riempiva le narici pareva ammantare ogni cosa, ormai.

«Tutti dietro Su Alteza!»

Il vice di Carrasco aprì la porta della camera con un calcio, e Filippo venne scortato fino al letto con gran clamore delle alabarde. «Presidiate ogni ingresso!» gridò il sottufficiale. «Non voglio veder circolare anima viva di fronte a questa stanza, sono stato chiaro?!»

Filippo si sedette sul bordo del materasso e si prese la testa fra le mani. Il sangue di Carrasco gli scorreva copioso sul naso, fin dentro ai baffi e alla barba.

«Majestad! Majestad!» Don Diego gli mise una mano sulla spalla, violando palesemente il protocollo; ma in quel momento le rigide convenzioni di palazzo dovevano sicuramente essere le ultime delle sue preoccupazioni. «Chiamate Vargas! Fatelo venire qui!»

Filippo richiuse le dita attorno al crocifisso, mentre intorno a lui il mondo sembrava impazzito una volta per tutte. Carrasco... Solo ora capiva ciò che aveva fatto, il gesto che aveva compiuto per proteggerlo dalla lama dell'attentatore. Il capitano Carrasco gli si era gettato davanti facendogli scudo con il proprio corpo. Per questo era morto. Per questo lui era vivo.

«Majestad!» chiamò ancora don Diego de Ruiz, muovendo appena la mano. «State calmo e respirate. Ho mandato a chiamare il dottor Vargas...»

«Sto bene.» Filippo aveva sollevato il capo, i capelli biondi scompigliati sulla fronte. Stava rammentando il pugnale, e il terribile suono dell'acciaio che penetra nella carne viva. «Sto... sto...»

La porta si aprì, qualche soldato fece scattare la mano all'elsa della spada: ma, naturalmente, era soltanto Mauricio Vargas. Il dottore attraversò la stanza con la valigetta di pelle sotto braccio e gli occhi sbarrati. C'era qualcosa in lui, come non fosse sinceramente colpito da ciò che era appena accaduto a Carrasco. Ma Filippo non dette peso alle sue congetture, e con la manica finì di mondarsi dal sangue.

«Cosa succede?» chiese Vargas.

Don Diego rispose, inginocchiato ai piedi del letto: «Date qualcosa al Re. Un calmante, un palliativo... qualsiasi cosa.» Filippo incrociò il suo sguardo, e si sforzò di apparire distaccato. «È rimasto profondamente turbato dalla sorte del capitano.»

Vargas si avvicinò, non prima di averne chiesto a Filippo il permesso con un cenno della mano. Con un dito, sollevò la palpebra destra e poi la sinistra. «In effetti le pupille sono completamente dilatate.» Estrasse una fiala dalla valigetta e l'agitò per qualche secondo. «Un bicchiere, presto.»

Don Diego gli porse il calice d'oro di sir William Cecil, e Vargas vi svuotò dentro il contenuto della boccetta. «È un decotto di biancospino, iperico e lavanda. Servirà a quietarvi per qualche ora.»

Filippo scosse la testa. «N-No... non voglio le vostre pozioni, Vargas.»

Il dottore non si scompose. «È per il vostro bene, Majestad» spiegò, giungendo le dita. «Su, bevete.»

«No!» Filippo cercò di alzarsi in piedi, ma le mani di don Diego lo costrinsero a tornare seduto.

Vargas avvicinò ancora di più il calice alle sue labbra. «Ve ne prego, Majestad

Filippo gli puntò contro il dito. «Io non sono Elisabétte!» gridò, tentando con una manata di rovesciare il bicchiere. «Non riuscirete a farmi ingurgitare le vostre droghe, Vargas!»

Don Diego e Mauricio Vargas si cambiarono un paio di occhiate allarmate, per poi puntare di nuovo lo sguardo su Filippo.

«Sta delirando» disse il dottore. «È più grave di quanto avessi immaginato, evidentemente.»

Don Diego chiamò a raccolta due dei soldati che piantonavano l'ingresso. «Il Re non è più in sé. Tenetelo fermo, mentre il dottor Vargas gli somministra la medicina.»

A Filippo pareva di essere sprofondato in un incubo. «No!» gridò ancora, avvinghiandosi alle sbarre del baldacchino. «Lasciatemi stare! Sono il vostro re! Sono il vostro re!»

I soldati lo afferrarono ciascuno per un braccio e lo sollevarono, di modo che potesse bere stando seduto sul letto. Vargas era già pronto col calice, e lo accostò alle labbra di Filippo.

«No!» Filippo si dimenò, scalciò, colpì la gamba di una delle guardie. Ma fu tutto inutile: la sua misera forza non poteva niente contro quella dei suoi stessi subordinati.

Vargas cominciò a sollevare l'estremità del calice e a far scivolare il liquido nella bocca di Filippo. «Bevete, Majestad. È per la salute vostra e del vostro regno. Avanti, non fate il bambino.»

Filippo serrò le labbra e cercò di voltare la testa dalla parte opposta, ma la mano di don Diego gli bloccò la nuca costringendolo a ingollare il decotto. Una mistura rivoltante, dal sapore innaturale e decisamente stomachevole.

Filippo si ritrasse tossendo, e le guardie allontanarono le mani. «S-Sono... il vostro re...» biascicò, aggrappato al bordo istoriato del talamo. «Il vostro... re...»

Vargas ripose la fiala ormai vuota nella valigetta e consegnò il calice a don Diego. «Ottimo, Majestad. Ora non vi resta che riposare.» E prima di uscire, s'inchinò frettolosamente portandosi la mano al berretto scuro con la coccarda della Real Academia de Zaragoza.

Filippo affondò tremante la testa nel cuscino, gli occhi sgranati fissi sulle venature del legno.

«Lasciate riposare Su Alteza» sentì dire da don Diego, mentre i soldati scomparivano uno dopo l'altro. «Ne ha assoluto bisogno.»

Filippo udì lo scatto della serratura. Si girò, a tentoni cercò il cassetto del comodino, ma come unico risultato finì per far cadere il calice di sir Cecil sul pavimento di pietra. Aveva una chiave, nascosta nello scrigno borchiato: la chiave per evadere da quella dannata prigione.

Filippo tentò di sollevarsi facendo leva sui gomiti, ma ricadde subito sul materasso. Ci riprovò, ma tutto fu vano. Sentiva che le palpebre gli si stavano lentamente abbassando. Congiunse le mani intorno al crocifisso di suo padre, pregando che Dio gli desse la forza di alzarsi. Ma forse era proprio Dio a volere la sua morte; perché mai, quindi, avrebbe dovuto ascoltare le sue suppliche?

L'ultima cosa che Filippo vide prima di perdere i sensi fu l'ombra di don Escobedo che si muoveva nella sua direzione dopo essere emersa dall'oscurità della stanza.



***




"Mi hijo, mi salida de estos reinos ahora ir más y más cada día veo cómo es necesario: sólo de esta manera se puede aspirar a cumplir con las tareas asignado a mí de Dios y de restablecer la herencia recibida de mis antepasados, a fin de no lasciarcela disminuido y empobrecido por los grandes gastos que contra mi voluntad tuve que enfrentar. Tengo por lo que decidió poner en práctica lo que ya hemos hablado en Madrid y mi concejales, confiando en mi ausencia el gobierno de estos reinos. Sé que usted es todavía demasiado joven para una tarea tan onerosa, sin embargo, tienen visto algunos años más, cuyas obras, por su valentía, virtud y resolver, se fue mucho más allá de su corta edad y falta de experiencia. Por lo tanto, mi hijo, prepárate a recomandarve a Dios para ayudar a servir en sus nuevas funciones. Así que usted ganará el honor y la fama perpetua y dará paz y alegría a mi vejez y voy a tener buenas razones para gracias a Dios por darme un hijo tan digno. Para ello, en primer lugar, usted debe esforzarse por dos cosas. El primero y más importante: nunca olvidar a Dios y le de todas las dificultades y preocupaciones que tienen que soportar ofrecer, uno frente voluntariamente sacrificio; la segunda: para escuchar los buenos consejos y dejar guiada por ellos. Con estas dos advertencias compenserete el defecto de su corta edad y Pronto usted será capaz de gobernar sabiamente."



"Figlio mio, la mia partenza da questi regni ormai si va avvicinando e ogni giorno di più vedo quanto essa sia necessaria: solo in questo modo infatti posso sperare di adempiere ai compiti assegnatimi da Dio e di reintegrare l'eredità ricevuta dai miei avi, in modo da non lasciarcela diminuita e impoverita dalle grandi spese che contro la mia volontà ho dovuto affrontare. Ho deciso perciò di mettere in pratica quello che già a Madrid ho annunziato a voi ed ai miei consiglieri, affidandovi durante la mia assenza il governo di questi regni.

So bene che voi siete ancora troppo giovane per un compito così oneroso, tuttavia si sono visti alcuni di età non maggiore le cui opere, per il loro coraggio, virtù e risolutezza, sono andate ben al di là della giovane età e della scarsa esperienza. Perciò, figlio mio, fatevi forza e raccomandatevi a Dio perché vi aiuti a servirlo nei vostri nuovi doveri. Così vi guadagnerete onore e fama perpetua e darete serenità e gioia alla mia vecchiaia e io avrò buoni motivi per ringraziare Dio di avermi dato un figlio tanto degno. Per questo prima di tutto dovete impegnarvi in due cose. La prima e la più importante: non dimenticarvi mai di Dio e offrirgli tutte le fatiche e le preoccupazioni che dovete sopportare, affrontando volentieri ogni sacrificio; la seconda: dare ascolto ai buoni consigli e lasciarvi guidare da essi. Con queste due avvertenze compenserete il difetto della vostra giovane età e presto sarete in grado di governare saggiamente."



(Dalle Istruzioni al governo dell'imperatore del Sacro Romano Impero Germanico Carlo V all'Infante Filippo, 1 settembre 1558)



Le sei e quarantadue di sera



Un occhio. Nient'altro che un occhio che sbircia attraverso una grata. Un occhio e una voce, ferrigna quanto le sbarre: «Siete voi, Majestad

Filippo potrebbe avvertire l'odore di morte perfino a dieci passi di distanza. «Ho detto che sarei venuto presto. Ora voglio che tu apra il cancello.»

Dietro di lui, don Escobedo, Pérez, Valdés, don Silva e altri cinque soldati di cui non è necessario conoscere i nomi stanno attendendo l'apertura della barriera.

L'occhio si ritrae nel buio, la grata comincia a salire. «Benvenuto alla Torre, Majestad

Rostri di ferro si schiudono davanti a Filippo come fauci di bestia, mentre i corvi schiamazzano a ridosso della bandiera di Spagna. C'era una leggenda, ormai scomparsa insieme alla maggior parte degli uomini: aveva previsto la fine della monarchia quando l'ultimo corvo sarebbe volato via dalla Torre. Ebbene, la monarchia è crollata comunque, ma quei mostri neri sono sopravvissuti all'invasione. Filippo li fissa frugare nelle carcasse dei prigionieri non ancora sepolti ed estrarne le viscere a poco a poco, coi bulbi che luccicano biancastri sui loro becchi acuminati.

«Non guardate, Majestad.» Valdés sarebbe disposto a coprirgli gli occhi, pur di non mostrare al suo re quello spettacolo immondo. «Non vi è nulla qui dentro che sia degno di voi.»

Filippo fa segno al suo piccolo esercito di avanzare dentro il ventre buio del carcere. Ancora avverte il ribollire perenne del fossato sotto le suole degli stivali, nonostante sia ormai giunto a ridosso della scalinata di pietra. La luna è scomparsa dalla sua vista, ma la sua luce malata non ha smesso di illuminare il suo viso.

Il sovrintendente della Torre lo accoglie con un inchino sbilenco. È un reduce di Richmond; uno dei pochi, a quanto pare. Ama raccontare di essere stato ferito dal conte di Essex in persona, e che una lancia gli ha trapassato per intero la gamba. Ma ora non è più tempo di storie, né di favole, né di sciocche novelle. «Majestad, sono onorato di potervi accogliere in questa mia umile dimora.»

«Non toccatelo!» Don Escobedo gli ha colpito le dita ossute prima che potessero arrivare a lambire la sacra mano del re. «Come osate?! Tornate al vostro posto!»

«Oh, perdonatemi...» Il sovrintendente torce la schiena nel tentativo di indietreggiare senza rotolare per terra. La gamba sinistra non è che un purulento pezzo di carne ormai privo di vita. «Non era mia intenzione...»

Carrasco lo afferra per un braccio. «Indicateci soltanto la sua cella, signore. Non ci occorre altro.»

«Secondo piano.» Il sovrintendente brama lo sguardo del re allungando la testa oltre le spalle del capitano. «Settima cella...!» Fa tintinnare la chiave nel palmo per poi cederla servile all'ufficiale.

Filippo muove il primo passo verso il gradino, subito seguito dal resto del branco.

Il sovrintendente sta ancora strillando alle loro spalle, troppo insolente per meritarsi una punizione concreta: «E divertitevi, mi raccomando!»

Il corridoio gocciola umidità e grida soffocate. Ansima, Filippo; ansima e si aggrappa al passamano di ferro, gelido come la lama di una spada.

«Settima cella, secondo piano» ripete Pérez, facendo luce con la fiaccola.

Ad ogni androne che attraversano, le tenebre paiono farsi sempre più dense, fino al punto in cui le fiamme della torcia non sono più in grado di rischiarare alcunché.

«Settima cella, secondo piano...»

«Smettete di ripeterlo» intima Filippo, carezzando il muro impregnato di decomposizione con il fodero del pugnale.

Il segretario china la testa e non apre più bocca.

Ormai sono arrivati.

Filippo si scosta le ciocche dalla fronte imperlata di sudore. «Carrasco, aprite la porta» boccheggia, indicando il legno marcito. Basterebbe una spallata ben assestata per farlo uscire dai cardini.

Il capitano della guardia fa schioccare la serratura dopo qualche secondo, in una pioggia di ruggine. Schiude l'uscio solo lievemente perché vuole lasciare il meglio al suo sovrano.

E Filippo spinge la porta trattenendo il respiro, come un bimbo che sta per entrare nella stanza dei regali. Sbatte le palpebre, e lentamente riesce a mettere a fuoco.

La cella è di certo la più orrida della Torre. Ratti, scarafaggi, il soffitto umido, le pareti gocciolanti, la branda traballante, le coperte che non terrebbero caldo nemmeno se ve ne fossero cento.

Filippo esplora le tenebre con il fazzoletto premuto sul naso e la mano sull'elsa del pugnale. Si volta, e don Escobedo china subito la testa. «Ma qui non c'è nessuno» mormora il re, ascoltando il lugubre eco della sua voce lungo le pareti del vano.

Escobedo fa segno a Pérez di tenere più in alto la fiaccola. «Aspettate, Majestad

Filippo strizza le palpebre verso la branda. Coglie un movimento, e il cuore minaccia quasi di uscirgli dal petto.

«Ecco, vedete?» Don Juan de Escobedo indica la figura che si sta lentamente destando sotto le lenzuola lerce. «È lei, Majestad

Filippo scopre di non avere abbastanza saliva per deglutire.

«Il motivo per cui voi siete qui.»

Lei.

Come un'antica dea dai terribili poteri, come la moglie del diavolo, come il più turpe degli angeli caduti. Si sta alzando, contorcendosi sotto le coperte. Spunta un braccio dal pallore irreale, così magro da far spavento, e ormai Filippo è incapace di guardare altrove.

«Andiamo...» biascica, avanzando d'un passo.

«N-Ne siete sicuro, Majestad?» È Pérez, ancora lui: il solito, maledetto, irritante insetto.

Nessuno gli risponde, nessuno ha voce per farlo. E Filippo continua a camminare verso la branda, passo dopo passo, con la torcia che lo guida verso il baratro.

Lei si toglie le coperte dal viso, mostra i lunghi capelli rossicci da strega, da demone selvaggio. Quante volte Filippo ha sognato questo momento, quante volte l'ha bramato durante gli interminabili viaggi in carrozza da un capo all'altro del nuovo regno conquistato.

«Santa María, llena eres de gracia, el Señor es contigo...» Un mormorio silenzioso, una supplica alla sua anima. «Bendita tú eres entre las mujeres, y bendito es el fruto de tu vientre...»

Lei comincia a strillare dopo qualche secondo, in ginocchio sul letto: «What are you doing here?!» Nessuno la comprende, ed è meglio così. «What did you do?!»

Carrasco l'agguanta per un braccio, sbattendola contro la parete. Il bagliore della luna è riuscito ad insinuarsi attraverso il pertugio, bagnandole il viso di luce. I suoi occhi immensi sono quelli di un animale in trappola.

«Elizabeth...» Filippo trova la forza per sorriderle. Vorrebbe sfiorarla, ma ha paura di impazzire prima del tempo.

Lei squittisce di nuovo nella sua lingua perversa, lanciando loro addosso non so quale anatema: «Damn! You cannot! You cannot stay here!» Si dibatte come un pesce nella rete, posseduta dall'antico spirito. Lei, la regina delle regine. Lei, la meretrice di Babilonia.

Filippo affonda la mano nei suoi riccioli scarlatti, tirandola a sé. Parla ugualmente, sapendo bene che lei non potrà mai assaporare l'emozione velenosa di quell'attimo: «Avresti dovuto accettare la mia proposta quando ancora c'era tempo per farlo, Elizabeth. Tua sorella l'ha fatto.» Avvicina il viso al suo per strapparle un unico, patetico bacio, ma lei morde la carne, come non avesse fatto altro per tutta la vita.

Sangue gocciola dal labbro del re di Spagna, mentre Carrasco si ostina a volere insegnare ad Elizabeth il rispetto che si deve ad un monarca benedetto da Dio a forza di schiaffi. È giunto anche Escobedo, e le ha artigliato una gamba. Poi sono arrivati Pérez e Valdés, e i soldati hanno chiuso la porta di scatto.

«Maledetta troia...» Filippo avverte il sangue scorrergli lungo il mento, dentro i merletti della gorgiera. Si porta il palmo davanti agli occhi, con la stoffa del guanto che già ha iniziato a impregnarsi di rosso. Poi si volta e l'agguanta per il mento. «Elizabeth!»

«Damn you forever, Philip!» Cerca ancora di scalciare, nonostante tutto, nonostante le mani che ormai l'hanno tramutata in un burattino di carne. «My people will avenge me, do you hear?! You will die soon!»

Lo schiaffo le rivolta la testa dalla parte opposta, senza più darle la possibilità di aggiungere nulla, in nessuna lingua. Non che cambi qualcosa, per Filippo.

«Sporca sgualdrina...» Si leva il crocifisso con uno strappo, getta a terra il ciondolo e lo scalcia il più lontano possibile. Non vuole che ci siano altri testimoni: già quattro sono sufficienti. «Stai pagando per la tua stessa guerra.»

Elizabeth non è più nella Torre. Elizabeth è altrove, a centinaia di miglia da Londra. Elizabeth è di nuovo ad Hampton Court, fra i boschi della sua infanzia. Ormai anche l'ultimo fulgore è scomparso dai suoi occhi dorati.

Filippo le avvicina la bocca all'orecchio. «Lo sai quanti uomini ho perso a causa tua? Migliaia. Uomini onesti, timorati di Dio, morti sotto i colpi di cannone del tuo sir Raleigh.»

Un mugolio indistinto sgorga dalle labbra di Elizabeth, mentre Filippo si slaccia la cintura e la scaglia sul pavimento. Le solleva a forza la veste sudicia, e le lacrime hanno già preso a scorrere sulle guance di lei.

«I beg of you... please, I beg of you...»

«Non ti meriti altro» ringhia Filippo. Ma, prima che abbia il tempo di sbottonarsi il farsetto e compiere l'opera, Pedro de Valdés gli blocca la mano costringendolo a voltarsi.

Il governatore ha il viso gonfio, quasi cianotico. Intorno al collo porta l'inconfondibile marchio dello strangolamento, e la casacca è completamente intrisa d'acqua.

«Perché?» chiede Filippo.

Valdés non può far altro che scuotere la testa. Filippo vorrebbe interrogarlo ancora, ma un getto di sangue gli imbratta d'un tratto il viso. Allora tende istintivamente le mani in avanti, e con le dita sfiora la corazza del capitano Carrasco.

Un coltello. Un coltello da cucina piantato fino all'elsa nel cuore di Carrasco.

«No! No!» si ritrova ad urlare Filippo, coprendosi gli occhi per non assistere allo scempio.

È la voce di sua moglie a fargli cambiare idea; la suadente e flebile voce di Elisabétte: «Mon roy, mon roy...»

Filippo abbassa lo sguardo su quello che fino a pochi secondi prima era il corpo dell'ultima dei Tudor. «E-Elisabétte...»

Sua moglie è stesa sulla branda, la veste stracciata a scoprire lo scempio, a rivelare il ventre squarciato da un colpo di spada. «Mon roi, v-vi prego...» mormora, tendendo le mani verso di lui. «Vi prego, salvate nostro figlio...»

Il grido di Filippo si prende ogni cosa.

Perfino la notte.

Perfino la luna.



***



Filippo si svegliò urlando, le unghie conficcate nella pelle del viso. Si tastò il petto alla ricerca del crocifisso, lo trovò e ricominciò a respirare.

Un sogno, un maledetto incubo: nient'altro che questo. Lei, il più subdolo dei nemici, usava finanche questi strumenti, per insinuarsi nella sua mente. Il ribrezzo che Filippo provava per aver accostato la sua figura volgare a quella di sua moglie era senza pari.

Elizabeth non era Elisabétte. Elisabétte non era Elizabeth.

Continuò a ripeterselo anche quando si girò sul fianco, con la testa che pulsava come dopo la peggiore delle torture dell'Inquisizione. Lentamente, i suoi occhi cominciarono ad abituarsi al nero che lo circondava.

«Madre de Dios...»

Non era più nella sua stanza, questo era chiaro. Ricordò sconvolto ciò che gli aveva fatto trangugiare il dottor Vargas, con don Diego che gli teneva la testa. Carrasco apparve subito dopo, grondante sangue. Filippo respinse quell'immagine con un brivido e si sollevò sui gomiti.

L'avevano abbandonato nei sotterranei di Hampton Court.

Filippo vi era stato solamente una volta, il giorno in cui Shekespéer era giunto a palazzo moribondo per le ferite. Aveva voluto assicurarsi di persona che quell'alloggio di fortuna fosse sufficientemente dignitoso per un poeta del suo calibro; gli aveva fatto preparare un letto morbido per la notte e una cassa di legno con pergamene e calamaio, come un contadino che allestisce la stalla delle bestie solo per poterle sfruttare al meglio e al più a lungo possibile.

Ed ora lui era lì, sdraiato sul materasso, con accanto il comodino improvvisato invaso da scritti di ogni sorta fitti d'inchiostro. Le ultime poesie dell'inglese, senza ombra di dubbio.

Filippo tossì, e il silenzio della stanza si ruppe in mille pezzi. Chi l'aveva portato lì? Escobedo, forse? Dopotutto, era stata l'ultima persona che Filippo aveva visto prima di assopirsi sotto l'effetto della pozione di Vargas.

Ma perché, poi, Escobedo avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Per proteggerlo? Per proteggere il suo re? Poteva essere successo di tutto, mentre Filippo giaceva su quel letto e sognava i suoi orribili ricordi.

Quante ore erano trascorse? Filippo si mise seduto e cercò con gli occhi un qualsiasi indizio, un appiglio di verità che gli consentisse di orientarsi in mezzo a quell'oscurità. Non ne trovò nessuno, e decise di ricorrere alla sua voce.

«Escobedo!»

Nessuna risposta, se non l'eco del suo grido disperato. Senza mollare la presa sul crocifisso d'argento, Filippo fece per alzarsi in piedi e correre fuori, ma qualcosa lo trattenne, e si risedette con un gemito.

Una catena. Una catena legata ad un anello di ferro, a sua volta chiuso intorno al suo polso sinistro. Filippo provò a forzarlo con le dita dell'altra mano, ma finì soltanto per ferirsi la pelle.

La rabbia gli montò dentro dopo un pugno di secondi. In fretta risalì all'origine della catena – era saldamente fissata al muro di destra –, e tentò di scardinarla con un paio di calci ben assestati. Provò e riprovò almeno una quindicina di volte, urlando angosciato ogni volta che vedeva che la catena non si era incrinata neanche di un millimetro. Il respiro gli si mozzò presto, e crollò sconfitto sul pavimento.

Perché gli avevano fatto questo? Chi era il colpevole di questa umiliazione? Chi lo aveva incatenato nelle segrete del palazzo come un animale da circo?

La parola "congiura" non l'aveva mai sfiorato fino a quell'istante, il momento in cui Filippo comprese ogni cosa.

Era stato don Ruy Gomez de Silva a fargli questo, l'adorato marito di Ana. Sapeva che non avrebbe mai dovuto offrire un posto a corte a quell'infido portoghese senza fede né Dio. E forse Ana aveva anche provato ad avvertirlo, durante la loro conversazione nel labirinto del giardino. Cos'è che aveva detto? Ah, sì: "Ci sono uomini, nella vostre corte, che non esiterebbero a compiere follie per far traballare il vostro trono, Majestad."

Era chiaro che alludeva al suo stesso coniuge. Infatti, poco dopo l'aveva addirittura nominato esplicitamente, cercando di mettere in guardia il suo re da ogni possibile sciagura.

Filippo sorrise nell'ombra del sotterraneo: ora tutti i pezzi erano finalmente tornati al loro posto.

Don Silva aveva ucciso il governatore Valdés per liberarsi di un nemico insidioso, un soldato che aveva fatto carriera senza possedere il minimo rango, con la sola forza delle sue imprese gloriose. Si era introdotto nella sua camera dopo aver abilmente corrotto le guardie: don Silva possedeva sicuramente i soldi per poterselo permettere. Aveva spinto Valdés nella tinozza affogandolo, e se n'era poi andato senza fretta, ritornando poche ore dopo insieme a Filippo. Don Silva, solamente lui: il misterioso assassino di Pedro de Valdés.

Lo stesso aveva poi fatto con il capitano Carrasco. Quel servo – ovviamente pagato a dovere – non aveva mirato a Filippo, ma bensì a Carrasco, che si trovava proprio di fronte al re. E, per Dio, era riuscito nel suo piano alla perfezione, mentre Filippo veniva scortato nella camera da letto e il cadavere di Carrasco veniva trascinato via lasciandosi dietro una scia di porpora e lacrime.

Ma don Silva non era il solo e unico colpevole delle sue sfortune, della congiura che si stava ancora consumando in quel giorno di settembre del 1566. C'erano anche Vargas e don Diego de Ruiz, che lo avevano addormentato per dare la possibilità a Silva di incatenarlo laggiù, nel sottosuolo del palazzo. Se però quei due non erano che semplici pedine della cospirazione, don Silva mirava certamente ad appropriarsi del trono.

Filippo si rialzò, e riprese a battere sull'attacco della catena con tutta la forza che gli rimaneva in corpo. Doveva uscire da lì a tutti i costi, e riprendere il suo posto accanto ad Elisabétte sul trono del Dominio.

Finché la luce di una candela non iniziò a brillare, e una voce proveniente da dietro le sue spalle non lo fece trasalire: «È inutile quello che state facendo, Majestad.»

Filippo si voltò di scatto, addossando le spalle al muro della stanza.

Era Escobedo. Don Juan de Escobedo, fedele suddito di Spagna.

Quasi Filippo si mise a piangere di gioia. «Che cosa fate, lì...?» gli domandò, indicandogli l'anello. Escobedo era venuto a salvarlo, a riportarlo alla luce; ma allora perché non si avvicinava, rimanendo immobile a pochi metri da lui? «Toglietemi subito questa catena.»

L'orecchino di Escobedo scintillò nelle tenebre, quando lui scosse grave la testa. Aveva appoggiato la candela al comodino di Shekespéer, ed ora era tornato a guardarlo. «Perché dovrei farlo, Majestad

Filippo non riusciva a credere alle sue orecchie. «C-Che cosa state dicendo, Escobedo?» balbettò, strattonando il ferro. «Io sono il vostro re!»

«Ancora per poco, Majestad.» Escobedo pronunciò quelle parole con sarcastica indifferenza. «Ancora per poco.»

«Ma di che diavolo state parlando?!» Filippo gli si avventò contro, ma la catena lo bloccò a meno di un metro dal suo volto. Avrebbe voluto staccarsi a morsi la mano solo per poter afferrare Escobedo per il collo e scrollarlo fino a fargli perdere la ragione. Perché stava parlando a quel modo? Era forse un altro dei suoi scherzi crudeli? «Parlate, o quanto è vero Dio vi faccio fustigare!»

«Nella vostra situazione attuale, Majestad, mi pare molto improbabile che possiate ancora dare ordini simili» replicò Escobedo.

«Io sono il re!» ringhiò Filippo. La catena, scuotendosi, tintinnò sulla parete di pietra. «Sono il vostro re, Escobedo, e lo sarò fino all'ora della mia morte!»

Vide don Juan estrarre la lama di Toledo dal fodero. Gli sembrò un gesto così naturale che nemmeno si spaventò; semplicemente, spalancò gli occhi e li puntò sulla spada, dritta nella sua direzione.

«Siete tedioso» disse Escobedo. Avvicinò la punta della lama al collo di Filippo, costringendolo a sollevare il mento per non ritrovarsi sgozzato. «Non fate altro che ripetere quelle vecchie e noiose filastrocche. "Sono il vostro re", "sono io che siedo sul trono", "sono io il figlio dell'imperatore", "sono io che porto la corona di Spagna". Ma non capite che tutto questo sta per finire?»

Filippo avvertì il gelo della lama sulla pelle del collo. «Qual è il vostro scopo?» Deglutì, con la morte a pochi millimetri. «Cosa vi ha promesso don Silva?»

Escobedo parve non capire. «Silva?» ripeté, come parlando a sé stesso. «E cosa c'entra adesso il principe d'Eboli?»

Filippo si ritrasse fino a toccare il muro con la nuca. «È lui la mente di questa congiura. È stato lui ad uccidere Carrasco e Valdés, non è così?»

Escobedo scoppiò in una sincera, lugubre risata. «E questo chi ve lo ha detto, Majestad

Non poteva essere. Si rifiutava di credere che Escobedo stesse partecipando a quella farsa.

Don Juan de Escobedo era stato uno dei suoi migliori generali. Era stato lui ad organizzare la prima invasione della Scozia, guidando le navi a circumnavigare la costa nel Norfolk e del Northumberland. Aveva convinto Filippo a nominarlo conte di Oxford e di Gloucester proprio grazie alle queste eroiche prodezze.

Con le dita che avevano ripreso a tremare, Filippo allontanò la lama di qualche centimetro, quanto bastava per riuscire ad articolare la frase. «Voglio sapere chi c'è dietro a tutto questo, Escobedo. Sai che sono solito usare clemenza, con i traditori che collaborano.»

Escobedo lo raggelò con l'ennesima, fredda risata. «Vi credete così furbo, vero, Majestad? Pensate che questo sia poco più che un gioco, per voi, non è così?»

«Il vostro atteggiamento è inqualificabile, Escobedo» ribatté Filippo. «Inginocchiatevi, e vi darò la possibilità di redimervi senza ricorrere al processo al cospetto delle Cortes

Non si sarebbe mai aspettato il movimento fulmineo di don Escobedo. Filippo vide la lama saettare verso il suo viso, e alzò di scatto le mani per parare il colpo. Le immagini di Ana con l'occhio sfregiato gli lampeggiarono a intermittenza davanti agli occhi.

Urlò, quando la lama si conficcò nel palmo della sua mano destra. Urlò, forse più per la sorpresa che per il dolore, nel veder spuntare la lama oltre il dorso, in un feroce turbinare di sangue.

«È quello che meritate!» sentì dire da Escobedo, ormai scomparso dal suo campo visivo.

Filippo si curvò in avanti, la sinistra sul ginocchio e la destra quasi a sfiorare il pavimento, dove il sangue aveva già iniziato ad allargarsi fino a formare una grossa macchia scarlatta. «S-Siete impazzito...» disse ad Escobedo. «Voi... avete perso la ragione...»

Juan de Escobedo spalancò le braccia, senza preoccuparsi di ripulire la spada. Forse l'avrebbe mostrata orgoglioso ai suoi compagni una volta uscito da lì. "Il sangue del re" avrebbe detto. "Questo è il sangue di Filippo di Spagna."

«Sì, lo ammetto!» strillò, additando Filippo. «E indovinate un po'? L'ho persa esattamente nove mesi fa, quando voi – voi! – mi avete chiesto di aiutarvi per portare a termine l'opera di Dio!»

Presto sarebbe morto. Filippo l'aveva scoperto in un barlume di lucidità, prima di premere la mano sulla stoffa dell'abito per tentare invano di arrestare l'emorragia. Ansimando per il dolore, riuscì a malapena ad udire la voce stridente di Escobedo.

«Mi avete portato con voi alla Torre! Anzi, ci avete portato: me, Valdés, Pérez, Silva e Carrasco!» Escobedo sputò fuori quei nomi con disprezzo. «Ci avete obbligato a partecipare al vostro peccato per avere la certezza del silenzio, dico bene?!»

Il sangue gocciolava a terra con un ritmo regolare. Filippo lo ascoltò per qualche istante, nel silenzio lasciato da Escobedo. La mano aveva ormai perso ogni sensibilità. «Sono stato...» Cercò parole più adatte; le trovò e disse: «Ciò che ho fatto a lei... ad Elizabeth... è stato uno sbaglio, il più grande di tutta la mia vita. Me ne rendo conto solamente ora.» Sospirò. «Ho pensato che quella sarebbe stata un'opera gradita a Nostro Signore, ma ho mancato... enormemente mancato. E se voi avete intenzione di uccidermi per purificare la vostra anima, non posso fermarvi.» Filippo scoprì il collo abbassando la gorgiera. «Fatelo ora, e liberate anche me.»

Chiuse gli occhi, in attesa del fendente che gli avrebbe tolto la vita per sempre. Gli era parsa la cosa più ragionevole da fare, in quel momento, per esimersi una volta per tutte da quell'ossessione. Perché perfino allora continuava a rivedere lei al suo fianco, un fantasma impalpabile dai lunghi capelli fulvi.

Eppure il colpo non arrivò.

Filippo sollevò lentamente le palpebre, e la prima cosa che vide fu il largo sorriso di don Escobedo. Seguito dalla sua inconfondibile risata.

«Voi avete visto troppe tragedie di Shekespéer, Majestad!» sghignazzò. Aveva già abbassato la lama fin quasi al livello del pavimento; dopo pochi secondi la sollevò e la ripose nel fodero. «Uccidervi non rientra nei miei compiti.»

«I vostri compiti, Escobedo?» Troppe domande senza risposta, come sempre. «Non siete voi il capo della cricca, allora...»

«No.» Indispettito, Escobedo inarcò il sopracciglio. «Forse però posso dimostrarmi misericordioso e rivelarvi ogni cosa: il fatto che voi sappiate o meno chi ci sia dietro a tutto questo non influirà sulla buona riuscita del piano, ne sono sicuro.» Prima di iniziare a raccontare, però, porse a Filippo il suo fazzoletto di seta. «Tenete premuto. Non voglio vedervi dissanguato.»

Filippo accettò il fazzoletto senza dire una parola.

«Cosa vi interessa sapere?» gli chiese Escobedo.

Filippo represse un gemito cacciandosi i denti nel labbro. «Chi e quanti siete?»

Escobedo alzò gli occhi al cielo nell'atto di rammentare i nomi. «Dunque... siamo io, Valdés, Carrasco, i soldati di Carrasco, don Diego de Ruiz, il dottor Vargas e alcuni dei servi delle cucine. Dodici in tutto, come gli apostoli di Cristo.»

«Carrasco? Valdés...?» boccheggiò Filippo. «Ma che state dicendo?»

«Oh, Valdés è stato uno dei primi ad unirsi al nostro gruppo, Majestad» spiegò Escobedo. «Si era addirittura offerto di uccidervi, pensate un po'. Ma poi qualcosa gli ha fatto cambiare idea, e improvvisamente ha scelto di fare un passo indietro. È per questo che abbiamo deciso di liquidarlo.»

Valdés, uno degli uomini che più avevano meritato la sua stima... Filippo non poteva davvero crederci. «E... quel biglietto? Quello che voi avete detto di aver trovato nella sua stanza?»

«Ah, quello l'aveva scritto di suo pugno qualche settimana prima. Ve l'avrebbe messo accanto dopo avervi assassinato: era questa la sua idea.»

Filippo chinò la testa. «L'avete ucciso voi?»

«Io? Oh, no.» Escobedo mostrò i palmi lindi come a certificare la sua innocenza. «È stato uno dei soldati di Carrasco, Majestad. Non chiedetemi il nome.»

«E Carrasco?» chiese Filippo.

«Carrasco ci ha abbandonato subito dopo la morte di Valdés. Si era spaventato, tutto qui. Abbiamo fatto sparire pure lui, anche se la maggior parte di quei grassi maiali della corte ha pensato che quel servo stesse mirando a voi.»

Filippo scosse il capo. «Ma in tutto questo, Escobedo, avete scordato una persona.»

«Chi?»

«Don Silva.»

«Non l'ho scordato, Majestad» sbuffò Escobedo. «Don Silva è l'unico che si è rifiutato di partecipare nonostante conoscesse i nostri piani alla perfezione. Ha preferito rimanere nell'ombra, in attesa che si compisse il destino deciso da Dio.»

«Perché, allora, non l'avete ucciso? Non temevate che venisse a raccontarmi tutto?»

«E anche se l'avesse fatto, Majestad?» chiese Escobedo con un sorriso ambiguo. «Voi non l'avreste ascoltato comunque. Non vi siete mai fidato di don Silva, e per una buona ragione: è portoghese, e come tutti i portoghesi è assai avvezzo all'inganno e all'astuzia.»

«Qualità che mi paiono comuni perfino negli spagnoli» commentò Filippo.

Escobedo ignorò la provocazione. «Credo che inoltre la principessa d'Eboli abbia tentato di avvertirvi al posto del marito, se è vero ciò che mi hanno riferito a corte.»

Filippo era troppo sconvolto per riuscire ad annuire.

«Ma, in ogni caso, non vi ho ancora rivelato la parte migliore» disse Escobedo. Indicò la porta sbarrata alle sue spalle, lontana qualche decina di metri. «Sapete chi è la mente della nostra trama, Majestad? Ne avete una minima idea?»

Filippo fece segno di no.

«Ebbene» disse Escobedo, muovendo in aria le dita come un mago prima del suo numero prediletto «provate ad immaginarlo. Figuratevi davanti agli occhi il suo viso, così simile al vostro. Ecco, già vedo che iniziate a comprendere.»

Tutto d'un tratto, Filippo era impallidito, ma non per il sangue di cui veniva lentamente prosciugato, né per il dolore della stigmata lasciatagli da don Escobedo. «N-No» balbettò. «Non può essere lui. Non può...»

Escobedo annuì quasi a malincuore. «Purtroppo sì, Majestad. È stato vostro figlio Carlos a chiedere la vostra morte.»

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