Capitolo Quinto
"Recuerde que la música que te gustaba tanto a tu madre? Cada vez que tenía la oportunidad, ordenó a los músicos que jugaban para nosotros. Amaba tanto que la melodía, a veces melancólico, a veces loco. Tal vez porque la música refleja nuestra alma, las contradicciones del hombre."
"Ricordi la musica che piaceva tanto a tua madre? Ogni volta che ne aveva l'occasione, ordinava ai musici che la suonassero per noi. Amava così tanto quella melodia, a tratti malinconica, a tratti folle. Forse perché quella musica rispecchia la nostra anima, le contraddizioni dell'uomo."
(Dalle Lettere del Re di Spagna, Sicilia, Sardegna, Portogallo e Inghilterra Filippo II all'infante Carlos, 1 febbraio 1566)
Le dodici in punto
Il maestro di cerimonie aveva preparato il pranzo all'aperto, proprio di fronte alla grande fontana del cortile. La servitù era già schierata in livrea davanti alla tavolata, con i berretti piumati che rischiavano di volare via ad ogni folata di vento. Un grande telo scarlatto era stato teso sopra lo scheletro di legno per proteggere le teste delle reali maestà dal sole d'Inghilterra, e non vi era l'ombra di una nuvola.
Filippo rilassò le mani sui braccioli del trono, lasciando che ciondolassero oltre i musi dei leoni di bronzo. L'incontro con Ana de Mendoza lo aveva sfibrato quanto una giornata intera di lavoro nello studio a firmare e controfirmare cambiali finanziarie, ed ora aveva soltanto bisogno di godersi il pranzo.
Alla sua destra, Elisabétte stava aspettando che il dottor Vargas finisse di preparare l'intruglio di erbe orientali che le avrebbe presto restituito le forze.
Intabarrato nell'ampia veste nera simile a quella degli inquisitori, Mauricio Vargas mesceva la pozione nell'acqua con un piccolo cucchiaio di legno, lanciando di tanto in tanto brevi occhiate colme di irritazione in direzione dello spettacolo dei guitti.
Erano nove in tutto: tre uomini, quattro donne, una ragazzina emaciata, un nano e uno spaniel pulcioso. Si dimenavano in una danza forsennata sull'impiantito di pietra, roteando le pupille e scalciando come una banda di posseduti. Di tutti gli uomini giusti e timorati di Dio che i soldati avrebbero potuto risparmiare una volta entrati in città, quella masnada sembrava la meno meritevole di carità. Eppure era riuscita a sopravvivere, aggrappandosi alla vita come un parassita al collo di un uomo. Quando si diceva ironia della vita...
«All Hail for His Majesty King Philip the Great!»
Era stata la ragazzina ad urlare, in equilibrio precario sopra il groviglio di membra, sopra la piramide di corpi. Una frase che poteva decidere tutto, perché quelle nove parole avrebbero permesso alla sua famiglia di continuare a sopravvivere ancora e ancora, vendendo spettacoli al miglior offerente.
Ben presto, alla stridula voce della ragazzina si aggiunse quella più matura del saltimbanco con i capelli rasati: «All Hail for His Highness King Philip the Great!»
Filippo sorrise a fior di labbra. Non conosceva abbastanza l'inglese per comprendere tutti quegli arabeschi di consonanti incomprensibili, ma parole come "King" e "Philip the Great" ormai facevano parte del linguaggio comune della corte, e non c'era motivo di dimostrarsi schizzinosi. L'inglese era una lingua pessima, certo; ma sarebbe stato comunque impensabile imporre subito lo spagnolo come unica lingua del regno.
Filippo aveva calcolato che dopo cinquant'anni di dominazione forse l'Inghilterra avrebbe dimenticato il suo idioma originario. O forse addirittura meno, vedendo con quanto zelo i suoi soldati si stavano occupando della popolazione del regno. Generazioni di eretici anglicani cadevano una dopo l'altra; i loro figli e i figli dei loro figli sarebbero nati e cresciuti all'ombra del trono di Filippo, come degni sudditi del Dominio de España. E in quanto tali avrebbero parlato l'unica lingua possibile: lo spagnolo.
«All Hail for our eyes' sun, the most brilliant aster of the firmament!»
C'era da dire che queste erano frasi che Filippo si sentiva ripetere da mesi, se non addirittura anni. Erano le stesse parole che la buona gente di Londra gli aveva rivolto quando era giunto in carrozza da Portsmouth per il matrimonio con la regina Mary. Questi inglesi erano senz'altro poveri di fantasia, se non riuscivano a inventarsi qualcosa di meglio.
«All Hail for the King of our beloved Realm! All Hail for the King of Spain!»
Il nano quasi scivolò a terra nel declamarlo, suscitando grasse risate dalla tavolata. Con il guinzaglio dello spaniel attorcigliato intorno alle ginocchia, stava in qualche modo cercando di mantenere la stabilità sui piedi, cosa quantomai improbabile vista la situazione. Infatti rovinò al suolo dopo qualche secondo, e il cane gli si gettò addosso inondandolo di bava.
Don Escobedo pensò bene di lanciare una mela della mensa allo spaniel, ma con sua grande sorpresa la ragazzina se ne appropriò per prima, e se la strinse al petto come un piccolo tesoro. Don Escobedo fece segno ad uno dei servi di restituire il maltolto all'animale, fra l'ilarità generale.
«Suvvia, Escobedo, lasciate almeno che quella povera bambina abbia la sua ricompensa!» rise don Zúñiga y Avellaneda, conte di Miranda del Castañar, baloccandosi con uno spicchio di arancia glassato.
«Ricompensa per cosa, esattamente, don Zúñiga?» ribatté Escobedo. «Quella piccola incapace non è nemmeno in grado di saltare come si deve.»
Intanto, il servo era riuscito a recuperare la mela, strappandola dalle dita ossute della figlia dei guitti. Lei si era impietrita di colpo, conscia del grave torto che aveva commesso nei confronti di Escobedo. Filippo la guardò per qualche istante con una specie di melancolia nostalgica. Le ricordava terribilmente Ana. Quei movimenti impacciati, quel viso scavato... Era senz'altro la copia più giovane e infinitamente più misera della principessa d'Eboli.
«Vogliamo Shekespéer!» urlò improvvisamente don Escobedo, battendo il manico del coltello sul bordo del tavolo.
Fu come accendere la miccia di un cannone, e l'intera corte si trasformò immediatamente in un unico coro di voci imploranti: «Shekespéer! Shekespéer! Il nostro Shekespéer!»
Quanto potevano essere puerili i cortigiani del monarca più potente del mondo? Filippo scosse la testa sarcastico, compiacendosi di poter togliere loro il divertimento con un semplice cenno del capo.
La verità è che si vergognava. Si vergognava terribilmente di dover fingere di mostrarsi allegro di fronte a quei pagliacci travestiti da nobili, di dover rinnegare il lutto di Valdés per non rovinare un'altra giornata di festa.
Filippo guardò la sua corte dall'alto del trono, inarrivabile come un santo di pietra. Quei buffoni sapevano benissimo cos'era successo a Valdés. Buon Dio, si era consumato un omicidio fra le mura del palazzo, e loro se ne stavano lì a bearsi fra le loro ricchezze come se niente fosse successo! Filippo chiuse le dita intorno al crocifisso. Lui era colpevole quanto don Escobedo e gli altri; gli era bastato uno spettacolo da piazza per fargli scordare del governatore, esattamente come tutti gli altri.
«Vi scongiuriamo, Majestad» mormorò Escobedo, parlando per il resto della corte. Con un gesto appassionato levò le mani giunte verso Filippo. «Non privateci del nostro diletto. Dateci Shekespéer, ve ne prego.»
Filippo si voltò verso sua moglie. Elisabétte aveva appena finito di trangugiare l'immonda poltiglia del dottor Vargas, ed ora si stava nettando le labbra con gli orli del fazzoletto. Le rivolse uno sguardo penoso e fece segno al capitano Carrasco di avvicinarsi.
«Portate qui Shakespeare» gli sussurrò all'orecchio, di modo da non farsi sentire da don Escobedo e dal resto della corte, che continuavano imperterriti a supplicarlo a gran voce.
Accompagnato da quattro guardie armate, il capitano Carrasco attraversò il cortile e svoltò a destra poco prima di entrare a palazzo, diretto verso gli oscuri sotterranei di Hampton Court.
«Per favore, Majestad» esclamò Naiara Delgado, una delle dame di compagnia di Elisabétte, una cortigiana per metà andalusa e per metà araba. «Io non l'ho mai visto, questo Shekesparrés.»
«Si chiama Shekespéer, stupida. Wiljam Shekespéer» le disse don Escobedo seguito da una torma di risolini. «Non eravate voi l'appassionata di opere teatrali?»
«Sì, don Escobedo.» Naiara abbassò improvvisamente lo sguardo come vittima di una sorta d'insano pudore. «Ma io penso di preferire le creazioni di don Lope de Rueda...»
A sentire quel nome, il nobile animo di don Escobedo trasalì senza nascondere la sua ripugnanza. «Ah, sì, ma certo!» borbottò, riducendo gli occhi a due fessure nerastre. «A voi piacciono quelle volgari operette da fiera del villaggio. Come si chiamava? Ah, ora rammento: Discordia y cuestiòn de amor. O forse voi preferite Los desenganos?»
Vi furono nuove risate, e Naiara parve sul punto di scomparire al di sotto della tovaglia per la vergogna.
«Aspettate, aspettate» fece don Zúñiga, zittendo la tavolata con un gesto spiccio della mano. «Qualcuno di voi rammenta quel giovanotto di Alcalá di cui la nostra Naiara si era infatuata l'anno scorso?»
Naiara si alzò, pronta a prender congedo dalla tavola, ma don Escobedo la prese per il braccio obbligandola a restare seduta.
«Certo che me lo ricordo» strillò un'altra delle dame di Elisabétte. «Si chiamava Miguel de Cer... Cer... Oh, che nome sciocco.»
«Come si chiamava, Naiara?» domandò mieloso don Escobedo.
Lei balbettò: «M-Miguel de Cervantes...»
«Ecco!» Don Zúñiga batté le mani tre volte. «Miguel de Cervantes! E come si chiamava quel libricino che ha presentato a Su Alteza, don Escobedo?»
«La Galatea, se la mia memoria non erra» replicò don Juan. «Un patetico romanzetto da quattro soldi. Onestamente mi stupisco che un ragazzino fresco di collegio abbia osato arrivare al cospetto di Su Alteza solamente per mostrargli quell'accozzaglia di frasi senza capo né coda. Se fossi stato Cervantes, mi sarei volentieri limitato a fare leggere i miei scritti al parroco del villaggio.»
Filippo lasciò che i nobiluomini continuassero a ridere come un branco di selvaggi senza nemmeno sforzarsi di provare a sorridere. La verità è che Miguel de Cervantes l'aveva colpito come mai nessun altro prima di lui, tanto che a distanza di parecchi mesi ne serbava ancora un ricordo nitido e dettagliato. Non si poteva dire così anche del romanzo, che peraltro Filippo non aveva nemmeno sfogliato, delegando il compito a Pérez.
Ancora si domandava perché Cervantes gli avesse presentato quel libro. Certo, la dedica era stata intitolata al "Rey de España y conquistador de Gran Bretaña, invicto lucero del alba", ma a parte questo l'argomento dell'opera gli era risultato fastidiosamente incomprensibile. Storie di pastori innamorati, divagazioni sulla vera bellezza dell'anima e speculazioni filosofiche, tutte mescolate in guazzabuglio di prologhi, capitoli, note a piè pagina. Davvero troppo, per uno come Filippo, che raramente aveva mai letto qualcosa che differisse dalla Bibbia o dai documenti di stato.
Don Zúñiga commentò dopo essersi sciacquato la bocca con un sorso di sangría: «Ah, i romanzi. Non riescono neanche lontanamente a competere con con il resto della letteratura in prosa, figuriamoci con la nobiltà della poesia. Passeranno ben presto di moda.»
«Me lo auguro davvero, amico mio» rispose don Escobedo, schiudendo le dita sul polso di Naiara. «Dobbiamo fermare questa degenerazione della buona letteratura prima che sia troppo tardi.»
Intanto, i camerieri avevano già cominciato a sfilare davanti ai convitati, con i grandi vassoi d'oro e d'argento fra le mani rigorosamente guantate. Passarono lucci in salsa galiziana, grassi storioni del golfo di Biscaglia, anguille lessate cucinate in modo che paressero ancora nuotare nel gachamiga.
Soffiando sul brodo rovente, Filippo alzò lo sguardo e vide il capitano Carrasco di ritorno dalle segrete del palazzo reale. Riconobbe all'istante il profilo sgraziato di Shekespéer, e riprese a mangiare come niente fosse. Era anche fin troppo prevedibile ciò che avrebbe provocato l'arrivo del poeta.
«È Shekespéer!» Don Escobedo agitò il braccio nella sua direzione, seguito a ruota da don Zúñiga e dalle damigelle. «Shekespéer! Shekespéer!»
Il corteo di soldati si disperse una volta che fu arrivato al cospetto del re, e Carrasco chinò prontamente la testa, con la mano guantata stretta intorno all'unico braccio che rimaneva all'inglese, il sinistro.
«Shekespéer! Shekespéer! Shekespéer!»
La corte pareva impazzita di gioia, nel vedere quel misero ometto con le dita sporche d'inchiostro e il volto scavato dalla prigionia. E applaudiva, e gridava il suo nome, in un coro sgangherato da farsa di villaggio.
«Shekespéer! Wiljam Shekespéer! Wiljam Shekespéer!»
Filippo fece segno a Carrasco di tornare al proprio posto, lasciando l'inglese solo al centro del cortile.
Una voce tuonò: «Riccardo III!»
Don Escobedo stroncò la proposta scuotendo il capo. «No, per Dio! Non scherziamo!»
Don Zúñiga allora si alzò e squittì: «Re Lear!»
«Giulietta e Romeo! Giulietta e Romeo!» supplicarono le dame.
«Macbeth!» esclamò don Silva, fino a quel momento rimasto nel più assoluto silenzio. Al suo fianco, la principessa d'Eboli diede un rapido cenno di assenso.
«No!» Don Escobedo si voltò verso Filippo. «Lasciamo che sia Su Alteza a decidere.»
Allora Don Diego e don Blanco cercarono lo sguardo del re al di là del piatto di crostacei e chiesero: «Majestad, non volete il Carlo V?»
Filippo sorrise, a sentire il nome di suo padre, e la tavolata sembrò quasi congelarsi nell'attesa del verdetto. Mettere di nuovo in scena il Carlo V? A Filippo pareva di aver già visto troppe volte quel dramma; anzi, non gli sembrava di aver fatto altro, da quando era giunto a Londra.
Sapeva che Shekespéer aveva finito di scriverlo nella primavera del 1565, disteso su una delle brande del rifugio suburbano, il braccio destro ridotto ad un moncone sanguinolento; uno dei tanti feriti, di coloro che erano sopravvissuti alla caduta della città. Usando i soldati come tramite era riuscito a far arrivare il Carlo V nel cuore di Hampton Court, alla corte di Filippo. Due giorni dopo, le guardie del capitano Carrasco l'avevano scovato e trasferito a palazzo, nelle stanze della servitù. Soltanto l'intervento del dottor Vargas era stato in grado di salvare Shekespéer dalla morte.
Da allora, quell'inglese dal cognome impronunciabile era divenuto una leggenda al pari di Omero.
Shekespéer simboleggiava tutto ciò che rimaneva di buono della cultura della Gran Bretagna, e inoltre si era rivelato un ottimo strumento di propaganda. Nei mesi che erano seguiti, non aveva fatto altro che comporre opere su opere, drammi su drammi, odi su odi: Ferdinando di Aragona, Regina Isabella, Don Cortés alla conquista del Messico... E poi, Giovanna di Trastamara, Alfonso il Cattolico, Storia di un grande regno, Vita di Inés de Suárez e Ode per le Reali Maestà. Per non parlare delle miriadi di poesie in lingua inglese con traduzione spagnola che gli erano state commissionate dai cortigiani.
«Majestad?»
Filippo si riscosse. L'intera corte lo stava fissando. Sollevò la mano e rispose frettolosamente: «No, oggi desideriamo qualcosa di nuovo.»
Shekespéer si schiarì la voce. «M-Majestad...» sussurrò, in un timido spagnolo. «A questo proposito, io ho...» Non finì la frase; ma frugò nelle tasche della casacca nera e ne estrasse un plico di fogli ingialliti fitti d'inchiostro.
Filippo allungò il collo. «Di che cosa si tratta?»
«La mia ultima fatica, Majestad...» Shekespéer mostrò il frontespizio, con il titolo scritto a caratteri cubitali. Mormorii meravigliati si alzarono dalla tavolata. «Il Filippo II.»
Si levò un boato e applausi spontanei nacquero come tuoni di un temporale estivo, mentre il titolo correva a ripetersi sulle labbra dei più.
Filippo sollevò un dito per far cessare il baccano. «Allora» disse, tornando a guardare il poeta «ci auguriamo che non si tratti di una tragedia.»
Nel dubbio se ridere o tacere, la corte scelse la prima.
Shekespéer cercò di invano allentare l'orlo della gorgiera. «M-Majestad, non è niente di tutto ciò. Naturalmente, ha un lieto fine...»
«Un lieto fine, Shekespéer?» Filippo inarcò il sopracciglio. «Quindi, ci state dicendo che il Filippo II è una commedia.»
Se ne avesse avuto l'opportunità, Shekespéer sarebbe volentieri scomparso sotto la pietra del cortile: di questo Filippo era certo. «N-Non è una commedia, Majestad.» Il suo goffo accento inglese lo rendeva senz'altro simile ai guitti che avevano appena lasciato la corte del re. «Non è né una commedia né una tragedia...»
«Ancora non capiamo cosa voi intendiate, Shekespéer, ma pensiamo che ci basti ascoltarne il prologo per darne un giudizio appropriato.» Filippo batté due volte le mani, e il gruppo di suonatori prese posto accanto al trono, già con le viole imbracciate. «Avanti, fateci sentire.»
Stavano già per intonare la melodia di accompagnamento, quando Shekespéer si gettò a terra e alzò le mani giunte in direzione di Filippo.
«Che avete?» gli chiese il re.
«Prego che Su Alteza voglia darmi qualcosa da mangiare» bisbigliò l'inglese. «Non credo di avere la forza necessaria per poter declamare così grandi argomenti...»
Fu sufficiente uno sguardo, e don Escobedo lanciò a Shekespéer un trancio del suo pane. Shekespéer lo addentò dopo averlo agguantato al volo; poi si chinò e raccolse le briciole.
Filippo provò a domandarsi cosa stesse pensando l'inglese in quel preciso istante. Wiljam Shekespéer era stato il più fulgido astro del regno d'Inghilterra fino a pochi anni prima, adorato dalle masse di Londra, portato in trionfo sotto le insegne del Globe Theatre. Era stata lei a renderlo famoso, lei che amava così tanto il teatro e quelle volgari messe in scena da angolo di piazza. A questi pensieri, Filippo quasi si rallegrò nel vedere Shekespéer prostrato al suo cospetto, supplicante per un pezzo di pane come un randagio denutrito. E non poté trattenersi dal sorridere.
«Avanti, Shekespéer! Non abbiamo tutta la giornata!» gridò don Zúñiga.
Shekespéer si risollevò, la bocca e la casacca nera costellate di briciole. Inghiottì il boccone ad occhi chiusi, come fosse il pasto più delizioso su questo mondo, e si preparò a narrare l'inizio dello spettacolo, mentre i camerieri passavano davanti ai commensali servendo loro formaggi di Piacenza, mandorle, uva passa, zibibbo, castagne secche, frutta cotta immersa nello sciroppo, pere moscardine alla glassa, pesche sciroppate, cedro candito, pinoli, nocciole e anici alla confettura.
I suonatori avevano già cominciato ad eseguire le prime note, note di una musica struggente, che riusciva ad insinuarsi in ogni dove e a far languire i cuori.
Shekespéer levò il frontespizio e avvicinò gli occhi alla prima riga della seconda pagina. Iniziò a leggere in spagnolo, e nessuno osò più interromperlo.
"Ah, potessi io avere ancora una musa degna di simili temi!
Vorrebbe di certo riferirmi la storia come fu dal principio,
quando navi nere e di fuoco stipate approdarono su queste indegne rive.
Come, altrimenti, avrei io il coraggio e il rango per narrare tali conquiste?
Forse che Omero, principe del poetare divino, fu costretto dal fato
a cantare degli allori e delle vittorie del suo medesimo popolo?
Ebbene, immaginate me come sconfitto troiano:
Enea o Antenore, fate pur voi.
Riconosciuta la maestà dei Greci, patrizi dei popoli,
celebro ora la potenza dell'immenso Agamennone."
Filippo avrebbe voluto ascoltare Shekespéer. Avrebbe voluto, ma gli era impossibile: tutto a causa di quella maledetta musica. A la xacara xacarilla, era quello il titolo dell'aria. La canzone che la sua prima moglie aveva amato per tutta la vita.
"Perdonate, cortesi spettatori, la mia misera e angusta mente,
se ho avuto l'ardire di presentarvi qui, su questo palco britannico,
un sì grandioso argomento.
Come potrebbe mai questo luogo disadorno
contenere nel suo ristretto spazio, lo sterminato oceano,
già che a malapena è in grado di trattenere con l'immaginazione
il mare che lambisce le coste di Francia e d'Albione,
nemici rissosi entrambi soggiogati chi con l'armi chi con le nozze?"
Forse Elisabétte chinò il capo, nel sentirsi nominare così. Filippo notò il movimento, ma era così impegnato ad ascoltare le note dei liuti che la sua vista si era come annullata. Ed ecco, ecco che veniva il ritornello, con quel suo motivetto incessante, impossibile da cancellare dalla mente. Rammentava ancora le parole: "A la xacara xacarilla, de novedad de novedades. Aunque a mas de mil novedades que allegra la navidad..."
"Immaginate dunque che racchiusi fra le siepi di questo cortile
vi siano contrapposti due regni: uno assai potente e pio,
l'altro scellerato per usanze e ancor più per fede.
Ebbene, lasciate le loro contrapposte mura di opposte sponde
siano separate da un braccio di rischioso mare.
Sopperite alle mie mancanze con le risorse della vostra mente:
moltiplicate per mille ogni uomo,
e con l'aiuto della fantasia createvi un gagliardo esercito,
e un'infinita flotta dalle vele crociate.
Ciò che sto per narrarvi lo vedo negli occhi di chi mi sta di fronte,
lo leggo nei cuori di chi vorrà ascoltare questo mio umile ragguaglio."
Shekespéer sollevò la testa, il fiato corto di chi ha corso per almeno un miglio senza interruzioni. Un sincero e accorato applauso lo investì dopo qualche secondo, e la musica terminò bruscamente.
Filippo si riscosse sbattendo le palpebre. Applaudì tre volte soltanto, con la mente ancora protesa a cogliere gli ultimi echi della melodia.
«Leggetecene ancora un pezzo, Shekespéer!» esclamò don Escobedo.
«Diteci, si parla anche di noi?» domandò don Zúñiga.
Assediato dalle richieste, Shekespéer si rivolse al sovrano: «Majestad... cosa devo...?»
Filippo annuì assente. «Leggete, Shekespéer» sussurrò. «Leggete la nostra opera.» Ora i suonatori avrebbero ricominciato ad allietare la sua anima con quel canto dimenticato, reso quasi sacro nella sua memoria.
Shekespéer voltò pagina. «"Atto primo"» lesse. «"Palazzo dell'Escorial, Madrid. Carlos, nobile primogenito di re Filippo, sta passeggiando inquieto fra i corridoi, interrogandosi sulla sorte della guerra contro la regina d'Inghilterra".»
Carlos e lei. Filippo trasalì, e a malapena resistette all'impulso di tapparsi le orecchie. Non voleva ascoltare. Non voleva averci niente a che fare, voleva soltanto sprofondare negli arpeggi delle viole e negli acuti dei liuti. Ah, se avesse potuto scegliere cosa far accogliere al suo udito e cosa no!
"O Vergine Celeste che proteggi questa terra benedetta,
ascolta le mie preghiere, fa' che mio padre,
simile a Marte nel portamento e all'avveduto Scipione nella mente,
trovi la pace reggendo a sé le catene di Albione domata!"
I camerieri giunsero a ritirare i piatti, ciascuno per ogni convitato del banchetto. Filippo incontrò per sbaglio lo sguardo del giovane servo incaricato di liberare la tavola dalle posate sporche e voltò la testa in direzione di Carrasco. Il capitano della guardia si avvicinò immediatamente.
"Un'ignobile sovrana regna su quelle lande,
ahimè fonte di angoscia per il mio grande padre.
Figlia di eretici, ah! Peste sopra quella città,
e carestia perenne governi il suo palazzo d'avorio!"
«Majestad?» Carrasco aveva chinato la testa per non essere più in alto del suo re.
Elisabétte aveva iniziato a tossire, le mani premute sulla bocca e il petto scosso dagli spasmi. Filippo la vide e fu sul punto di dirle qualcosa, ma sapeva bene che quello era uno degli effetti collaterali dei ricostituenti di Mauricio Vargas.
"Re Enrico non fu forse nemico della nostra patria?
E Maria sua figlia non fu forse spregevole sposa per il re di Spagna?
Allora io ti chiedo, Vergine Santa, di consegnare l'alata vittoria
nelle meritevoli mani di mio padre, pronto ad affidarla al popolo devoto."
Spostò lo sguardo su Shekespéer, nonostante il cameriere gli ingombrasse ancora la visuale: l'inglese si era immedesimato a tal punto nel ruolo di suo figlio che difficilmente avrebbe potuto fermarsi. «Ditemi, Carrasco» mormorò Filippo, sfiorando con la manica la corazza dell'ufficiale. «Sapete da dove vengono questi musicisti?»
Sbigottito dalla domanda, Carrasco sbatté veloce le palpebre. «Non saprei, Majestad. Dalla Catalogna, forse?»
Filippo gli avrebbe volentieri ordinato di assicurarsene al più presto e di fare in modo che fossero regolarmente assunti a corte, ma lo strillare di Naiara interruppe ogni sua azione. Si protese in avanti, gli occhi sgranati, come se si aspettasse di veder apparire qualche splendida pietanza dall'uscio delle cucine, ma l'unica cosa che fu in grado di scorgere fu il luccichio del pugnale nelle mani del cameriere.
Non capì subito, no. Forse non capì nemmeno dopo, quando il giovane in livrea si scagliò verso di lui e sollevò il braccio. Allora centinaia, anzi migliaia di urla riecheggiarono nel cortile di Hampton Court e nella sua mente, e si ritrovò anche lui a gridare, a temere per la sua stessa vita.
Poi il coltello penetrò nella carne, e un getto di sangue gli imbrattò il viso.
Ma quella carne non era sua.
Quella era la carne del capitano Carrasco.
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