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Capitolo Quarto



"[...] Tuve testigos en ese acto porque había incurrido manos para inmovilizarla. Dios me perdone, pero fue un plan que ya había acumulado cuando el barco finalmente atracó en Portsmouth, y que él no había hecho nada, pero me siguen acosando durante todo el viaje a Londres."


"[...] Avevo avuto dei testimoni in quell'atto perché mi erano occorse mani per tenerla ferma. Dio mi perdoni, ma era un piano che avevo già maturato quando la nave era finalmente attraccata a Portsmouth, e che non aveva fatto altro che continuare a tormentarmi durante il viaggio verso Londra."


(Da una confessione del Re di Spagna, Sicilia, Sardegna, Portogallo e Inghilterra Filippo II a monsignor Turibio de Mogrovejo, 18 marzo 1566)




Le dieci meno venti del mattino



"Vieni..."

Filippo rabbrividì e si strinse nella cappa nera per resistere al vento. Era uscito a prendere una boccata d'aria rifiutando persino la scorta armata, cosa che non aveva mai fatto dal giorno della presa di Londra.

Con una mano premuta sul cuore - poteva a malapena sentirlo sotto gli strati imbottiti, ma era sicuro che stesse pulsando anche troppo velocemente -, si incamminò verso le siepi curate del giardino reale. Il profumo del rosmarino e degli asfodeli appena sbocciati era così intenso da togliergli il respiro.

"...ti farò vedere la condanna della gran meretrice che è assisa sopra le vaste acque..."

Filippo si aggrappò alle foglie di uno dei bossi per non scivolare a terra. Intorno a lui, teste di imperatori romani e antiche dee pagane lo fissavano a labbra sigillate.

"...con la quale hanno fornicato i re della terra..."

Ansimando, Filippo si addentrò nel labirinto. Sapeva che c'era una panca al centro del dedalo. La strada la conosceva, sarebbe bastato cercare di non perdere i sensi almeno fino all'ultima siepe.

"...e che ha inebriato gli abitanti del mondo col vino della lussuria."

Uno stormo di corvi si alzò dai rami marci, senza più foglie. Strillando e beccandosi a vicenda, superarono Filippo e si diressero verso la città.

Lui si appoggiò con la schiena alla parete di tralci, incurante dell'abito, incurante della gorgiera che minacciava sempre di rovinarsi ad ogni minimo urto. Rimase in quella posizione per un'infinità di tempo, o forse solo per pochi secondi.

"Vieni, ti farò vedere la condanna della gran meretrice che è assisa sopra le vaste acque, con la quale hanno fornicato i re della terra..."

Quelle parole così piene di disprezzo, di impietoso rancore... Filippo se le sentiva rimbombare fin dentro alle ossa, oltre che nella testa. Quasi piegato su se stesso, riprese a camminare verso il cuore del labirinto, colpendo il suolo sassoso con la punta del bastone.

Valdés... Pedro de Valdés aveva scritto quel biglietto per lui, per i suoi occhi, per rammentare il suo peccato. Filippo chiuse le palpebre, un ingenuo quanto infantile tentativo di misconoscere le immagini che gli assediavano la mente.

No, non poteva pensare a lei proprio ora.

Filippo si premette la mano guantata sulla bocca per bloccare i conati. Lei era sempre lì, un fantasma, un'illusione velenosa che poteva nascondersi in qualunque luogo e in qualunque tempo, pronta ad apparirgli come un miraggio demoniaco.

Valdés sapeva di meritare la morte, e Dio gliel'aveva data per punirlo dei suoi peccati. Era successo proprio così: l'aveva affogato nell'acqua, come il faraone all'inseguimento di Mosè.

Dio aveva ucciso il governatore, nonostante non fosse stato lui il principale esecutore del crimine, ma soltanto una compiacente comparsa.

"Vieni, ti farò vedere la condanna della gran meretrice che è assisa sopra le vaste acque, con la quale hanno fornicato i re della terra, e che ha inebriato gli abitanti del mondo col vino della lussuria."

Erano parole fin troppo chiare, per lui. Così evidenti, così brutalmente palesi da togliergli ogni possibilità di equivoco.

Filippo cadde in ginocchio sulla ghiaia del cortile, abbandonando debolmente le braccia come se ogni energia gli fosse stata improvvisamente risucchiata.

Era tutta colpa sua. Era lui che aveva scatenato l'ira di Dio su di sé e sul suo popolo, stavolta, e non c'era nulla che potesse fare per rimediare alla sciagura.

«Perché...» biascicò a labbra socchiuse. «Perché... perché...»

Lei era sempre là, di fronte ai suoi occhi spalancati, pallida come una statua, con i lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle e sul seno. Quasi irriconoscibile, se confrontata con i casti ritratti che Filippo aveva fatto bruciare in un rogo pubblico qualche giorno dopo il suo insediamento.

Lei, l'eretica che si era creduta la signora del mondo.

Filippo l'aveva afferrata per il braccio, scaraventando la corona a terra con uno schiaffo e chiamando a raccolta i suoi fidati complici, quegli stessi uomini che ora occupavano i gradi più alti dell'intera gerarchia del regno.

Filippo conficcò le dita nel terreno, lasciando che i palmi si imbrattassero di fango e che le unghie si scheggiassero con i bordi dei sassi. Il rigurgito arrivò dopo poco, senza dargli il tempo per soffocarlo. Vomitò la colazione in mezzo alle siepi e agli iris dell'aiuola.

Gli ci volle un'eternità per riprendersi, per riacquistare un minimo di dignità. Per un momento aveva persino creduto di trovarsi ancora all'Escorial, nel giardino che osava solo osservare dall'alto della sua stanza senza mai mettervi piede. E invece era ancora laggiù, nel più basso girone d'inferno.

Boccheggiando, Filippo allontanò lo sguardo dal suolo e lo spostò su di sé. Era riuscito a non macchiare la gorgiera, grazie a Dio. Non osava neppure immaginare cosa avrebbe potuto dire Elisabétte di tutto ciò; di sicuro, avrebbe subito provveduto a circondarlo di medici pronti a salassarlo, a succhiargli via il sangue dalle vene come piattole assetate.

Filippo si rimise in piedi, e notò che i brividi erano quasi del tutto scomparsi. Raccolse il bastone da terra e lentamente riprese a camminare, inspirando l'aria satura di profumo.

Scovò il passaggio, vi entrò, e finalmente giunse al centro del labirinto.

La piccola fontanella di marmo vicino alla panca di pietra era letteralmente invasa dai corvi. Si bagnavano il becco nell'acqua zampillante, gracchiando di puro piacere. Quando Filippo si avvicinò alla sorgente, si alzarono in volo tutti insieme sbattendo le ali, seguiti dallo strepitare dei versi. Piume nerastre caddero vorticando sullo specchio d'acqua.

Filippo allungò la mano davanti a sé, lasciandosi sfiorare dagli schizzi tiepidi. Forse sarebbe morto fra qualche ora. Quanto gli restava esattamente da vivere? Magari Dio aveva ben altri piani per uno come lui. Avrebbe potuto farlo vivere per anni in quello stato pietoso, crogiolandosi nel suo dolore, godendo per ogni suo singolo senso di colpa. Quella doveva essere l'ipotesi più probabile.

Proprio in quel momento, Filippo sentì giungere alle orecchie un rumore di passi lungo il corridoio di arbusti, e voltandosi allontanò la mano dall'acqua. Aveva già deciso che se fosse stato don Escobedo lo avrebbe subito congedato prima che potesse avere il tempo di prendere la parola. Non voleva rischiare di sentirsi male in sua presenza.

Ma la figura che apparve oltre la siepe aveva ben poco a che fare con don Juan de Escobedo, e Filippo aggrottò la fronte perplesso.

«Che cosa siete venuta a fare qui?»

Ana de Mendoza y de la Cerda, affascinante consorte di don Ruy Gómez de Silva, non si sprecò a inchinarsi come avrebbe dovuto. Anzi, si limitò a piegare leggermente la testa, con il solito, arrogante sorriso sulla punta delle labbra. «Potrei farvi la stessa domanda, Majestad.» Il suo unico occhio pareva brillare di luce propria. «Ma temo che così risulterei fin troppo impudente alla vostra persona.»

Filippo scosse la testa sghignazzando. «Infatti.» Poi la guardò meglio, perché gli sembrava di non vederla da mesi.

La principessa d'Eboli non pareva invecchiata di un giorno: possedeva ancora quella bellezza superbamente spagnola che l'aveva resa famosa in tutta Europa. Se Filippo non avesse conosciuto la sua vera età, non le avrebbe di certo dato più di diciott'anni. Merito dell'abito alla francese, che ne evidenziava il profilo slanciato, con i suoi ricchi drappeggi e merletti di pizzo. Uno scarno e lentigginoso ragazzino inglese, stretto nella livrea con i colori della casata, accompagnava la principessa reggendole l'ombrellino.

Filippo la ricordava ancora quando il maestro di palazzo l'aveva presentata a corte: a quel tempo, Ana de Mendoza non doveva essere stata poi così diversa da quel bambino pelle e ossa che ora era alle sue dipendenze. Era arrivata a Madrid poco dopo aver compiuto i sette anni, e allora non era nient'altro che una bambina impaurita, gli occhi immensi spalancati sotto il cappuccio turchino. Suo padre era stato uno dei migliori comandanti al soldo dell'imperatore, e, come tutti i generali degni di rispetto, era morto in battaglia. Un colpo di archibugio, aveva detto la bimba, probabilmente senza nemmeno sapere cosa fosse. Madre e fratello erano stati fatti prigionieri dai mercenari borgognoni di Enrico II; li avevano riconosciuti quasi subito, ed erano finiti impiccati ad un albero qualche giorno prima della fine delle ostilità. Ana era stata raccolta nell'accampamento distrutto, unica superstite. L'avevano trovata che vagava fra le tende incendiate, e l'avevano temporaneamente affidata alle cure di una delle prostitute al seguito dell'esercito spagnolo.

Nel vederla per la prima volta, Filippo aveva sorriso, sfiorandole la testa: aveva finalmente trovato una compagna di giochi per Carlos, e per qualche tempo era andato tutto bene. Gli anni si erano accavallati senza disgrazie e Filippo aveva smesso di preoccuparsi della felicità di suo figlio e di quella sfortunata bambina.

Ma quell'idillio non era fatto per durare. Guardando il viso della principessa, era impossibile per Filippo non rammentare quel giorno, quel pomeriggio di dieci anni prima.

Carlos ed Ana si stavano esercitando insieme nella scherma nel cortile del palazzo, sotto gli occhi attenti del re.

Lei combatteva come un ragazzo, con i capelli stretti sotto la cuffia e il torace imbottito di cuoio per proteggersi dagli affondi. Parava i colpi del principe della Corona come il migliore degli spadaccini, facendo roteare la mano guantata sopra la testa. Non attaccava mai: non si sarebbe mai permessa, con il figlio del re di Spagna.

Carlos d'altra parte vibrava fendenti e rovesci tali che Filippo si era pure messo ad applaudire, tanto ne era orgoglioso. Ad ogni passo, si avvicinava sempre di più ad Ana, spingendola verso la parete del porticato. Presto l'avrebbe disarmata, era fin troppo prevedibile.

E invece, contro ogni aspettativa, Ana aveva atteso quel momento soltanto per mettere in atto il contrattacco. Gridando, si era lanciata verso Carlos, mulinando la spada d'acciaio. Carlos era balzato indietro e aveva sollevato lesto il braccio, ma la lama di Ana era passata ugualmente, finendo per aprirgli un taglio sulla manica della camicia.

Filippo si era alzato in piedi di scatto, così stupefatto da non essere neanche più in grado di astenersi dall'applaudire. E forse era stato proprio quello a fare montare la rabbia dentro Carlos.

Con la mano premuta sul braccio ferito, il principe aveva sollevato di nuovo la spada.

Ana era troppo occupata ad inchinarsi di fronte al re per poter scorgere l'attacco, e Filippo troppo impegnato a lodarla per poter fermare il figlio.

Ana aveva avvertito lo spostamento d'aria, e si era voltata per parare il colpo. Se solo non l'avesse fatto...

La lama di Carlos era saettata sul suo viso come un un lampo argentato, gettandole in aria la cuffia. Un fiotto di sangue era schizzato sulla colonna.

Filippo ricordava di aver urlato qualcosa, forse rivolto al figlio. Le guardie erano corse incontro a Carlos e lo avevano disarmato, immobilizzandogli le braccia; lo avevano trascinato via ancora schiumante per la sconfitta.

Ed Ana era lì, inginocchiata sul pavimento, che urlava a pieni polmoni con il palmo stretto sull'occhio destro. Attraverso le sue dita sottili grondava sangue misto a gelatina. Filippo l'aveva fatta portare dal medico che ancora strillava per il dolore, mostrando l'orbita squarciata dal colpo.

Era stato quasi per scusarsi che Filippo l'aveva maritata al più ricco dei gentiluomini del regno, don Ruy de Silva. Come se diventare principessa d'Eboli avrebbe in qualche modo potuto alleviarle la sofferenza di essere stata privata di un occhio.

«È da molto che non vi fate vedere alle funzioni di monsignor de Mogrovejo» osservò Filippo, per sviare l'attenzione di Ana da lui stesso. Non voleva che scoprisse cosa gli era accaduto: sarebbe subito andata a riferirlo a Elisabétte. «Siete forse diventata protestante?»

La principessa sorrise, e la piega all'angolo della bocca andò a sfiorare il nastro della benda. «Ho avuto altro a cui pensare, Majestad. Non certo la religione.»

«Parlate di Elisabétte?» sbottò Filippo.

Ana annuì grave. «Dovreste rimandarla in Spagna.»

Filippo spalancò gli occhi. Rispedire Elisabétte in Spagna proprio ora che la data del parto era così vicina? Era assolutamente privo di senso! «Perché?» le chiese.

«L'Inghilterra le sta facendo male.» Ana lo disse ruotando gli occhi verso la città, verso quell'alveare rumoroso chiamato Londra. «L'avete visto anche voi, immagino. Questo posto... è come se la stia privando del desiderio di vivere.»

Filippo cercò di ribattere: «Elisabétte non ci ha mai detto nulla del genere...»

«E vi sembra che una donna sia solita esprimere chiaramente ciò che prova e ciò che non prova, Majestad

La principessa provò a muovere qualche passo in direzione del re, ma Filippo dal canto suo indietreggiò lentamente verso l'uscita del labirinto.

Questo ad Ana non sfuggì: «Che avete? Sono diventata così sgradevole ai vostri occhi?»

«Non è questo» disse Filippo. Passandosi una mano sulla barba, pregò con tutto il cuore di non portarne addosso le tracce del rigetto. «Ma voi, stavate dicendo...»

Ana de Mendoza finse di ignorare la sua palese elusività e riprese a parlare: «Vi stavo dicendo di vostra moglie, Majestad. So bene che mancano poco meno di due settimane al parto, ma dovete ascoltarmi. Sto parlando per il suo e per il vostro bene.» C'era una vena di supplica, nella sua voce decisa, come se Ana lo stesse pregando di obbedire ai suoi consigli.

«Cosa ci state nascondendo, Ana?» Filippo batté il bastone sul terreno. «Un altro dei vostri sotterfugi da bambina dispettosa?»

Nonostante quell'ultima domanda, il volto della principessa rimase severo, senza l'ombra di un sorriso. «Sto parlando seriamente, e voi non volete darmi retta.»

«Che cosa state cercando di dirci, dunque? Ora mi è chiaro che non è soltanto di Elisabétte che vi state preoccupando, non è così?»

«Con tutto il rispetto che devo alla regina, Majestad, tengo più a voi che a lei.»

«E allora parlate!» ringhiò Filippo. Rimpianse qualche attimo dopo di aver alzato la voce così, mostrando tutta la sua malcelata impazienza. Ma ormai il danno era fatto.

Ana colpì con le dita guantate la spalla del suo schiavetto, per ordinargli di alzare un po' di più l'ombrello. Dentro la penombra bluastra, il suo viso pallidissimo risaltava spettrale. Pareva la sacerdotessa di un antico oracolo greco. «Ci sono uomini, nella vostre corte, che non esiterebbero a compiere follie per far traballare il vostro trono, Majestad

Filippo aprì la bocca per replicare, ma la richiuse subito dopo. Far traballare il suo trono? Ma che sciocchezze andava dicendo? Non era mai esistita una corte così leale ad un re prima d'ora, e i poeti inneggiavano a lui come supremo esempio di monarca perfetto. «Perché pensate questo, Ana?»

«Non lo penso, Majestad» rispose lei, con lo stesso tono profetico. «Ne sono assolutamente sicura.»

«Le vostre non sono che congetture» ribatté Filippo conciliante, cercando di farle cambiare opinione con la forza della gentilezza. «Vedete anche da voi quanto siano assurdi questi inutili allarmismi.»

Ana parve penetrarlo con lo sguardo, con la luce emanata dal suo occhio sinistro. «Anche l'assassinio di Pedro de Valdés è una congettura, Majestad? L'inutile allarmismo di una principessa?»

Filippo la guardò a sua volta, con l'espressione feroce che sfoggiava solo in presenza degli inglesi o degli ambasciatori delle altre nazioni. Che cosa ne poteva sapere Ana dell'omicidio di Valdés? Sotto tutti quei gioielli e quelle belle parole da stratega in gonnella, in fondo non era nient'altro che una bambina troppo cresciuta. Perché avrebbe dovuto fidarsi di lei? Fu solo la curiosità a spingerlo a domandarle: «Che cosa ne sapete voi della morte di Valdés? Avete forse visto il cadavere?»

Ana scosse la testa. «No, Majestad. Ma mio marito è convinto che...»

«Ah, vostro marito!» Filippo gettò la testa all'indietro sghignazzando. Era quello che aveva sospettato, dopotutto, e a causa della collera finì persino per scordarsi del plurale maiestatis. «Dovevo immaginarlo! È lui che vi ha mandato qui, non è vero, Ana?»

Le labbra della principessa si incrinarono in una smorfia stizzita. «Non è affatto così, Majestad, sono qui per mia volontà. Io voglio solo riferirvi ciò che mio marito ha pensato riguardo al...»

«Non mi interessa, Ana, non mi interessa!» Filippo indicò le finestre simmetriche del palazzo sollevando il bastone. «Se il principe d'Eboli crede di poter insinuare il dubbio nella mia mente usando voi come bocca parlante si sbaglia di grosso! Io mi fido dei miei sudditi. Ho fiducia in loro perché loro ne hanno in me, e tanto basta! Escobedo, Carrasco e perfino vostro marito sanno bene che sono arrivati tanto in alto solamente grazie alle mie navi! Loro si sono arricchiti attraverso la mia spedizione!»

Ana lo guardava sconvolta, quasi ansimando. «Ma non capite, Majestad...? È proprio questo il punto... Voi non...»

«Ah, io non capisco, dite?» Filippo si ravviò con rabbia i folti capelli biondi. «Sono riuscito ad appropriarmi di uno dei regni più potenti d'Europa, e voi ancora mi trattate come uno sciocco!» Si voltò di scatto, deciso a ritornare a palazzo; ma, poco prima di imboccare il viale, le si rivolse per un'ultima volta: «Non osate mai più parlarmi in questo modo, Ana. Sono il vostro re, non un sostituto di vostro padre, e nemmeno di vostro fratello. Vedete di non dimenticarlo.»

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