6. Incontri a sorpresa
Spinarupe
Shadee non riesce a credere che sia successo davvero. Jaja, suo fratello, il suo migliore amico, è scappato, lo ha lasciato indietro come se non gli importasse nulla di lui e della loro casata, e per cosa? Per ribellarsi a una stupida proposta di matrimonio? Quando gli effetti del siero svaniscono e riesce di nuovo a muoversi, si fionda alla porta, ma la vecchia Liza lo afferra per il gomito e lo ributta sul materasso. Ha sempre avuto una forza eccessiva per essere una donnina tutta rughe e ossa.
Lo fissa con l'occhio destro che da giorni non ha smesso per un solo attimo di traballare. «È una minaccia. Ti riaddormenterò se proverai a lasciare Reggia Blu. Non puoi distruggerti con le tue stesse mani, bambino mio.»
Shadee digrigna i denti e si sistema seduto. «Pensi che ci cascherei due volte di fila?»
«Penso che una femmina saprà sempre come ingannare un maschio, soprattutto se lei è scaltra e lui è un ragazzino viziato, cresciuto tra le mura di una reggia. Vantati dei tuoi vent'anni, ma hai l'esperienza e l'ingenuità di un bambino.»
Parla come se lo conoscesse sul serio, quando nemmeno lui è in grado di capirsi. Sa solo di odiarla come non avrebbe mai creduto possibile perché è un ostacolo che gli impedisce di raggiungere Jaja. I griot, antichi cantastorie esiliati dalla Bolla di Rovi, raccontavano che un tempo i discendenti degli dèi fossero avvolti da un'aura magica, capace di adattarsi ai cambiamenti delle emozioni. I cittadini di Fontebella hanno ricevuto dalla dea Rasa il dono di leggerla, Shadee come tutti gli abitanti di Spinarupe no, ma in quel momento pensa di riuscire a percepirla, ed è un'enorme nuvola formata da rabbia rovente.
«Perché?» ringhia. «Perché vuoi impedirmi di cercarlo? Chi stai difendendo? Me o Jaja? Sai cosa gli succederebbe se lo trovassi?»
La vecchia Liza sorride. Le manca un dente nel centro dell'arcata superiore, un'assenza che le conferisce un'espressione sinistra. «E dimmi, principe, che cosa faresti se riuscissi a raggiungerlo? Lo consegneresti a tuo padre per condannarlo a morte?»
No.
«O forse scapperesti con lui e tradiresti la casata che ami così tanto?»
No.
«Oppure cercheresti di fargli cambiare idea per riportarlo qui e giocare alla famigliola felice?»
«Potrei farti tagliare la lingua per questo affronto!» Ma la taglierebbe a sé stesso per il tono arrogante che non gli appartiene e che nemmeno lui sa da dove gli sia uscito. Si è sentito attaccato, punto in una ferita profonda che avvelena la carne, e ha reagito come un animale selvatico, seguendo la pista dell'istinto. Vorrebbe chiedere scusa adesso, ma si vergogna troppo per farlo.
Per fortuna la vecchia Liza non se l'è presa. Si siede accanto a lui e gioca a intrecciare le loro dita come faceva quando era bambino e non voleva dormire. «Rispetta la scelta di tuo fratello, Shadee.»
«Non posso.» Se solo avesse immaginato, avrebbe potuto parlargli, avrebbe potuto convincerlo a fare la scelta giusta, a restare con lui. E invece non ha capito niente, non ha saputo decifrare l'ultimo indovinello che gli ha lasciato.
La vecchia Liza continua a stringergli le mani con l'affetto e la pazienza di una madre. «Ora la casata ha bisogno di te, ha bisogno del suo futuro re.» Ma lui è soltanto un'ombra, l'imitatore di un modello del quale non sarà mai all'altezza. Jaja, con il suo carisma, la sua energia, la sua determinazione, continua a rappresentare per lui un ideale irraggiungibile. Che cosa si aspettano che faccia un ricambio che ha passato la vita a nascondersi dietro gli angoli della sua reggia?
«Ce la farai» lo rassicura la vecchia Liza. «Sei più forte di quello che credi.»
*
Nei giorni successivi Shadee non ha il coraggio di lasciare la sua stanza. Le poche notizie che gli arrivano escono dalla bocca della vecchia Liza che lo tiene sotto costante controllo per impedirgli di commettere qualche sciocchezza. Gli uomini di suo padre stanno battendo ogni sentiero per trovare Jaja, collezionano un fallimento dietro l'altro, e lui non sa che pensare. Non si è mai sentito così perso, non sa cosa gli accadrà, quale futuro gli si prospetterà all'orizzonte ora che è costretto a prendere il posto di un altro.
Shadee tira le tende oscuranti perché il sole del meriggio non lo disturbi. Non chiude occhio da giorni e non ha fame. Quando una ragazza della casata gli porta un vassoio di datteri caramellati, lo scaglia in aria con un pugno colmo d'ira, i nervi che saltano sotto il peso dei ricordi: lui e Jaja nell'aranceto di loro madre, una gara a chi ne mangia di più, anche se a Shadee non sono mai piaciuti.
Di fronte a quell'atto di violenza, la ragazza rimane immobile come una statua per paura di una sua seconda reazione. Non si china a raccogliere i cocci del vassoio di terracotta che è andato in frantumi. «Vi porterò dell'altro più tardi, se i datteri non vi aggradano.»
È una giovane della casata e svolge il ruolo di ancella, come richiesto alle fanciulle che appartengono ai rami minori e che sono incaricate di servire la famiglia regnante. Per colpa della penombra che protegge il suo aspetto, Shadee non la riconosce, ma si vergogna comunque di averla aggredita. «Mi dispiace. Non avrei dovuto.»
La ragazza ignora le sue scuse. Ondeggia con passi aggraziati fino al mobiletto sotto la finestra e accende la lanterna a olio. Il tocco della fiamma rilascia un fascio di luce che le illumina il viso. Per poco a Shadee non prende un colpo. Quella non è un'ancella. Quella è Kemala degli Spilli, una delle donne più corteggiate della cittadella, nonché una delle tante che lo ha sempre ignorato e ritenuto uno scarto.
«Che cosa vuoi?» le chiede. «Perché sei qui?»
Quel poco che sa di Kemala gli basta a tenerla lontana. Non è certo il tipo di donna che vorrebbe nella sua stanza, non quando è solo e un occhio estraneo potrebbe scambiare quel fugace incontro come un atto di intimità.
Forse è proprio quello l'obiettivo di Kemala, fomentare le malelingue e comprometterlo. Avanza verso di lui con passi leggeri, si avvicina al punto che Shadee si sente avvolgere dal suo profumo di rosa canina, trafiggere da un sorriso che mostra denti bianchissimi. «Non siete solo. Non dovete esserlo per forza.»
È così bella che perfino gli dèi si inchinerebbero ai suoi piedi per contemplarla, ma in Shadee deve esserci qualcosa di rotto perché non sente nulla, anzi, appena lei prova a sfiorargli il viso, agisce d'istinto e le blocca il polso a mezz'aria.
«Per favore» la supplica. «Non mi toccate.»
Kemala sventola la testa per trattenere una risata. A contrasto con la chioma corvina i grandi orecchini d'oro brillano come stelle su un cielo notturno. «Perché? Vi ho forse offeso con la mia presenza?»
«No, ma non vorrei causare equivoci all'interno della casata.»
«Ci state riuscendo benissimo, direi, fino a prova contraria siete stato voi a toccarmi per primo e lo state facendo ancora.»
Solo allora Shadee realizza di non averle mai lasciato andare il polso. Molla la presa come se dall'incontro delle loro pelli fossero nate scintille roventi e lui si fosse accorto di essere rimasto scottato con notevole ritardo.
«Dovreste andare» le dice. «Non capisco perché siete qui. Non mi avete mai guardato prima d'ora.»
Kemala si mangiucchia le labbra decorate da una linea di trucco marrone. «Nemmeno voi avete mai cercato di avvicinare me! Se vi consola non ho mai guardato nemmeno vostro fratello. Potete dire lo stesso delle altre?»
«Quali altre?»
«Le altre! Non sono l'unica femmina della nostra casata, sapete?»
Shadee solleva le spalle in evidente imbarazzo. «State parlando come se avessi un corteo di donne alle calcagna.»
«Lo avrete. Presto. Tempo qualche giorno e quelle smidollate troveranno il coraggio di avvicinarvi, ma ricordate che sono arrivata io per prima.»
Per Jaja era così. Quando viveva a Spinarupe, era sempre accerchiato da mille corteggiatrici, lontane parenti che potevano studiare i loro volti senza cappucci e speravano di migliorare la posizione all'interno della casata grazie al matrimonio con l'erede. Non avrebbe mai pensato che finire nel mirino di un gruppo di arrampicatrici potesse essere così rivoltante. Cerca di allontanarsi da Kemala, ma lei non gli dà tregua. Fa tintinnare i ninnoli della cavigliera come se stesse cercando di ipnotizzarlo in una danza.
«Siete bello, sapete? L'uomo più bello della casata, nato sotto il segno di Luva. È un peccato che per anni vi siate vietato di farvi amare come avreste meritato, solo per adeguarvi alle inclinazioni distorte di vostro fratello.»
Shadee ripara verso il mobilio di mogano per spegnere la lanterna. «Non sono interessato. Vi prego di andarvene. Le vostre attenzioni non sono desiderate.» Un soffio sullo stoppino e la penombra torna a dominare nella camera da letto.
Le mani di Kemala approfittano di quel buio improvviso per farsi più audaci e risalire lungo il petto del principe in piccole carezze. «Non siete ancora pronto, è comprensibile, ma ricordate che le mie attenzioni sono solo il punto di inizio. La fine sarà un'altra, sarà quella che stabilirò io, Jaja.»
*
Shadee. Lui si chiama Shadee. Esiste e non è un'ombra, non è un pezzo di ricambio che sta per prendere il posto di suo fratello. Sa con assoluta certezza che Kemala lo ha chiamato Jaja soltanto per ferirlo, eppure non riesce a togliersi di dosso una sensazione sporca, il sospetto che dietro quella ripicca si nasconda un'amara verità.
In preda a una furia indomabile, corre ad allenarsi con la spada. Spillo Bianco non è la classica sciabola che usano gli uomini della casata, ma una lama sottilissima che tiene sempre nascosta sotto la casacca larga, un regalo di Chenzira, l'uomo che lo ha salvato quand'era bambino ai Mille Soli e che da quel giorno è diventato il suo maestro. Shadee non lo vede da quasi un mese e come al solito non sa dove sia finito. Odia quando è nervoso e non può sfogare la rabbia allenandosi con lui. Gli tocca rimediare colpendo alberi, vecchie statue, vasi di terracotta, qualsiasi oggetto rientri nel campo visivo.
Volteggia nel giardino come un folle, per ore e ore tenta nuovi affondi sotto il sole rovente, finché il sudore non lo riveste e il corpo non diventa un'unica gigantesca pulsazione.
«Adesso sei lui.» È la voce di suo padre, un tono che Shadee riconoscerebbe tra mille. Si morde il labbro inferiore quando capisce la portata di quella frase. Kemala aveva ragione: quello è il suo nome adesso, Shadee non esiste. Ha sempre temuto di perdersi. Da piccolo faceva un incubo ricorrente. Correva a Reggia Blu in cerca di compagnia, ma nessuno lo vedeva perché era invisibile, perché non aveva il diritto di venire ricordato, né di capire chi fosse, di trovare nell'intero universo una sola persona in grado di amarlo per la sua reale essenza. Adesso quell'incubo è diventato realtà.
Suo padre fa scorrere la mano sul cinturone di cuoio dal quale penzola la sciabola. «Nessuno al di fuori di Reggia Blu deve sapere che Jaja è fuggito» lo informa. «Sarebbe l'inizio della rovina. Le altre casate dei Primi ci accuserebbero di incapacità e debolezza, spingerebbero per rubarci il titolo, e i Secondi ne approfitterebbero per lanciare nuove rivolte. Ti è chiaro?»
Shadee deglutisce un boccone di saliva che ha la consistenza di un sasso. «Sì, mio re.»
Il bambino che è in lui vorrebbe abbracciare suo padre e piangere la scomparsa di Jaja, ma sono rimasti solo loro due a tenere alto il nome della casata e non possono darsi il tempo per elaborare il lutto.
«Farai grandi cose, Jaja» sussurra il re. Anche se Shadee è cresciuto, quando si trova al cospetto del suo portamento nobile e maestoso, continua a sentirsi un microscopico asterisco, una nullità. «Non dovrai più nasconderti per allenarti. Non dovrai più imitare le illogicità di un altro. Rimedierai agli errori di tuo fratello assumendo la sua identità, diventerai un guerriero come me e i tuoi cugini, e in futuro sarai re, il mio legittimo erede.»
Shadee abbassa la testa in segno di rispetto, ignora un vuoto che sta risucchiando il respiro, lasciandolo a corto di fiato. «Non vi deluderò, mio re. Farò tutto quello che è in mio potere per il bene della casata.»
*
Fontebella
L'alba è appena sorta ed Evianne si trova all'Antro d'Argilla, sminuzza alcune radici per creare un decotto di Fegatella e Polmonaria abbastanza forte da debellare i primi mali di stagione. Sta ancora versando le pagliuzze in un vasetto, quando il Vecchio Saggio esce dalla grotta. Sfilacci di nebbia giocano a infilarsi tra le piume di uccello che gli sormontano la fronte, oscurano l'occhio blu che decora la penna centrale rubata alla coda di un pavone.
«È tornato» annuncia con un tono solenne che sa di leggi e profezie. «L'ho letto nelle mie anfore.»
Evianne solleva lo sguardo verso di lui, senza capire. «Chi?»
«Snorre. È appena approdato sulla riva del Lago Oceano con due ambasciatori degli Spilli. Stanno puntando il palazzo reale con una missiva del loro sovrano. Sembra che...»
Evianne non ha più orecchie per ascoltare, ha solo gambe che corrono fuori dalla radura d'oro e poi via, tra gli alberi argentei del bosco, attente a non inciampare, a non cadere nei tranelli della foschia mattutina. Snorre è tornato, ha mantenuto la promessa che le ha fatto due anni prima, e lei non vuole illudersi, ma la sua aura magica sta già immaginando come sarà gettarsi nell'abbraccio di suo fratello dopo tutto questo tempo.
Quando raggiunge l'imboccatura del ponte di pietra, si ferma di colpo. Snorre è lì, davanti a lei, sull'estremità opposta, abbracciato da morbide volute di nebbia che gli aleggiano intorno. In lui c'è qualcosa di nuovo. È come se la sua aura magica fosse avvolta da un'ombra, un rimasuglio di malinconia che la foschia del mattino non riesce a nascondere. Il vecchio Snorre sarebbe già corso da lei e l'avrebbe sollevata in aria ruotando su sé stesso, senza lasciarla mai andare. Il nuovo Snorre è una statua immobile, una casacca con bottoni di madreperla al posto della solita camicia stropicciata.
Evianne lotta con un groppo di nostalgia che annoda la gola. «Che fai? Non corri ad abbracciarmi? Non mi dici niente? Non ti sarai dimenticato di me, spero!»
I due ambasciatori puntano il sentiero che porta al palazzo della regina Valesca, li lasciano soli, ingabbiati in un laccio di sguardi magnetici. Evianne e Snorre muovono passi cauti per avvicinarsi. Il ponte è stato costruito con la roccia più resistente della Bolla, eppure lo saggiano come se fosse composto da un sottilissimo strato di ghiaccio.
Quando raggiunge il centro della campata, Snorre fa scoppiettare un grumo di saliva nella guancia. «Chissà? Mi ricordo vagamente di una ragazzina con il mento appuntito e la fronte troppo alta. Potresti essere tu, cresciuta giusto un po' in altezza, ma zero nelle forme.»
Evianne non perde l'occasione per rilanciare. «E tu non sei più pallido come i nostri chiari di luna, sei abbrustolito come un'aragosta. Hai la stessa carnagione rossastra del Vecchio Saggio. Tempo qualche anno e sarai identico a lui!»
«Stai dicendo che diventerò un ciarlatano e un ubriacone?»
Evianne ondeggia il busto e trattiene una risata. «Sei stato tu a insultare il mio bellissimo mento! Guarda che ho un sacco di corteggiatori da qualche parte, solo che sono troppo timidi per farsi avanti!»
«Dovrei essere geloso dei tuoi fidanzati fantasma?»
«Mai quanto io dei tuoi!» Evianne scoppia in una risata fragorosa e all'improvviso è felice e completa e vorrebbe arrampicarsi sulla torretta più alta del palazzo per gridarlo alla Bolla intera.
Quando Snorre la vede piroettare sulla punta del piede, si fionda da lei e l'abbraccia forte. «Sei la solita pazza!»
«E tu il solito insolente!»
Insieme ridono e cancellano due anni di silenzio e lontananza. Potrà essere cambiato l'involucro, ma il nocciolo della loro anima è ancora lì, stretto da una connessione che nemmeno il tempo può annientare. È un legame antico e necessita di pochi istanti per ripristinarsi, è sufficiente sdraiarsi nella radura d'oro, dove aghiformi e betulle custodiscono i loro segreti innocenti e le loro ultime storie.
«Come hai fatto ad andartene?» gli chiede Evianne. «Pensavo fosse impossibile sfuggire alla custodia degli Spilli, insomma, ti ci sono voluti due anni, è vero, ma prima di te nessuno è mai riuscito a tornare.»
Snorre si sistema le mani dietro la nuca. «Sono stati loro a spedirmi a casa, così, di punto in bianco. Dicono di avere trovato un accordo migliore per legare in alleanza le nostre Bolle.»
«E sarebbe?»
«Se solo lo sapessi! Ci toccherà aspettare che Mildri esca dal suo palazzo e ci aggiorni sulle ultime novità. Chissà che spocchia da quando ha ottenuto le ali!»
«Allora hai letto le mie lettere!» È stata proprio Evianne a parlargli delle ali di Mildri, lo ha fatto in una delle tante missive a cui lui non ha mai risposto. Di fronte al suo silenzio ha temuto di averlo offeso perché Snorre non sopporta che la dea Rasa conceda le sue ali solo alle femmine. Decide di non calcare il dito in una ferita aperta e torna all'argomento principale. «Forza! Dimmi che cos'hai combinato questa volta!»
Gli occhi acquamarina di Snorre si incupiscono, ma è il buio di un secondo, prima che una smorfia insolente gli sollevi gli zigomi bruciacchiati dal sole. «Ho sedotto il principe ereditario degli Spilli e l'ho convinto a fuggire con me!»
«Non sei divertente. Devi smetterla di prendermi in giro.»
«E perché? Ho due anni di arretrati da recuperare. Dai, lo so che mi adori! È per questo che mi vuoi sposare.»
La solita faccia tosta! Potrà essere più alto e abbronzato, ma non ha perso nemmeno un grammo del suo caratteraccio. «Io non ti voglio sposare. Sarei solo una figura di facciata per nascondere i tuoi mille amanti.»
«E io per nascondere il tuo.» Scherza, ma sa che Evianne non ha mai dato spazio a quel tipo d'amore, non le interessa. Preferisce giocare e allenarsi con la spada, ricordare le fiabe di sua madre, usare il potere che le ha donato per fare la differenza.
«Confessa» insiste sperando di convincerlo a parlare. «Hai fatto qualcosa che ha indispettito gli Spilli e loro si sono stufati di te e ti hanno spedito indietro.»
Snorre ci pensa, si mangiucchia il labbro. «Ho promesso che se non mi avessero lasciato andare, saresti venuta tu a regalarci una splendida e intonatissima canzone! Mentre salpavo, mi è sembrato di sentire i loro timpani invocare pietà!»
Evianne ride e si diletta in acuti striduli per tutto il pomeriggio. Le voci di paese la ritengono una sciocca, perché sorride sempre e agisce senza pensare alle conseguenze, ma lei ha capito: il ritorno di Snorre nasconde delle motivazioni profonde. Nel gioco del potere le pedine non vengono mai mosse per un atto di bontà e gentilezza. Snorre non è tornato perché il re di Spinarupe ha avuto pietà di lui, ma Evianne preferisce non pensarci. Ha imparato ad assaporare ogni piccolo momento offerto dalla vita, e quel giorno non è un'eccezione. Abbraccia Snorre e si crogiola nell'illusione che tutto si risolverà.
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