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23. Un biglietto misterioso

Prima di quel momento Evianne aveva sempre pensato che Maissa non parlasse per scelta. Con l'eccezione di Kemala, gli Spilli che ha conosciuto vivono con un tappo in bocca, un blocchetto di sughero da cui esce sì e no qualche grugnito strascicato. Sapere che qualcuno l'ha ferita e ignorarne la dinamica la tormenta, ed è così che inizia a inventarsi gli scenari più assurdi, a ipotizzare che sia stata rapita dai pirati perché nobile o peggio... dai ribelli di Soumano.

Le sue storie fantasiose vengono sbalzate in secondo piano una sera della settimana successiva, quando dopo aver stracciato il principe a dadi – lui insiste di averla lasciata vincere per l'antico principio della cavalleria – trova un biglietto infilato sotto il cuscino. La carta è stropicciata e giallognola, la grafia appuntita ma elegante. Il messaggio va dritto al punto senza perdersi in inutili convenevoli.


Se vuoi salvare delle vite e sapere la verità, vieni al tugurio di pagliericcio nel primo vicolo oltre Piazza Obelisco, la sede del mercato.


Nonostante il biglietto sia anonimo, indovina subito il mittente perché le scritte sono formate dalle scintille di un fuoco che non brucia. Il ricordo va al rotolo con cui Chenzira parlava nel ripostiglio mentre attentava alla vita del principe. Lui e i suoi loschi tranelli... Evianne interpreta quelle poche parole come una fine della tregua, ma non riesce a immaginare cosa voglia da lei. Che bisogno c'era di lasciarle un biglietto e di farla uscire da palazzo anche se la vede tutti i giorni per i loro allenamenti?

Sminuzza il biglietto e lo impregna di rugiada così da renderlo illeggibile, ma sebbene le scritte svaniscano dalla pergamena restano indelebili nei pensieri. Di quale verità sta parlando Chenzira? Sabbiafine è un covo che genera bugie su bugie: il volto del principe, il fiore viola, la scomparsa dei bambini, Maissa.

Il pensiero dell'ancella la tormenta da giorni. Vorrebbe fare qualcosa per lei, trovare un modo per comunicare senza bisogno di ricorrere al gioco dei mimi. L'occasione si presenta una settimana dopo, quando Evianne scopre che il principe andrà in paese per motivi ignoti. Pensa sia arrivato il momento di fare un regalo a Maissa e con quella scusa di scoprire perché Chenzira le ha recapitato il biglietto.

Nel pieno della mattina, trova il principe Jaja già montato a cavallo, intento a scendere lungo il sentiero che segna l'uscita da Fortezza Diaspro. Quando la vede si irrigidisce come uno stoccafisso e sperona Astro con tutte le intenzioni di scansarla.

«Nessuno vi ha dato il permesso di venire con me» borbotta.

Evianne si avvicina alle briglie di Astro. «L'ho chiesto a lui.»

«Astro è un cavallo.»

«Un cavallo molto socievole, sicuramente più di voi.»

Ora che ci fa caso quella situazione nasconde una nota stonata. Il principe sta uscendo da palazzo di soppiatto, senza scorta, è sgattaiolato fuori dalle stalle reali come un garzoncello che ha sottratto alle cucine un tozzo di pane e spera di farla franca. A quanto pare Evianne non è l'unica ad avere dei segreti da nascondere. Chissà? Forse potranno coprirsi e reggersi il gioco a vicenda.

«Devo fare delle compere al mercato» lo informa. «Farò un pezzo di strada con voi.»

Lui resta immobile. «E come mai me ne parlate solo adesso?»

Trova il fatto sospetto e a buona ragione. Dopo la prima visita alle serre ci sono tornati di spontanea iniziativa ogni notte senza avere un accordo, tantomeno un appuntamento. Evianne ha riempito quei loro incontri di chiacchiere ma non ha mai accennato nulla a proposito di una visita al mercato.

Ancora a cavallo il principe sospira: «Ascoltate, oggi devo uscire da solo. Potete dire a me cosa vi serve».

Il sole di mezzogiorno filtra oltre le fronde delle palme che costeggiano la stradicciola sterrata, getta sulla criniera di Astro un mosaico di luce gialla. Evianne affonda le dita nel pelo nero del cavallo. «Per favore. Sono solo sciocchezze da femmine.»

Non può dirgli che dopo avere comprato un blocco da disegno per Maissa si infilerà in un vicolo buio perché sente il richiamo del pericolo come un orso goloso con un alveare colmo di miele. Verità. La parola continua a battere contro le tempie al ritmo di un tamburo e non può più ignorarla.

Il principe alza un indice nel segno di una raccomandazione. «Se vi mettete nei guai...»

«Io non mi metto nei guai. Trovo semplicemente dei modi alternativi per passare il tempo.»

Ci sarebbe da replicare, ma il principe non lo fa, ha fretta di sgattaiolare via e così la aiuta a salire in groppa ad Astro e a sistemarsi tra il suo petto e il collo del cavallo, in una posizione di estrema vicinanza che mantengono per una mezz'ora abbondante mentre galoppano verso il centro di Sabbiafine. Man mano che si allontanano da Fortezza Diaspro, l'odore delle spezie esotiche lascia il posto al tanfo dei pitali che i cittadini svuotano dalle finestre.

Evianne non ha mai esplorato il centro del villaggio e non sa in che direzione muoversi, da dove iniziare a seguire le indicazioni di Chenzira. «Come arrivo a Piazza Obelisco?»

Il principe ferma Astro. «A sinistra di quella via.» Appena la vede scendere da cavallo le stringe il polso per fermarla. «Siete sicura di sapervela cavare da sola?»

«Voi piuttosto...» rilancia Evianne. Non può permettersi di insospettirlo, è una missione segreta. «Cosa dovete fare oggi di così importante?»

Il principe bofonchia una risposta stentata. «Isedu dei Secondi mi ha chiesto udienza.»

Un Secondo. E da quando un reale va a colloquio con un popolano senza guardie?

«È un incontro riservato» si affretta ad aggiungere lui, teso come una fune. «In passato abbiamo sempre fatto così, sarebbe strano se non mi presentassi all'udienza e non il contrario. A proposito, Chenzira non lo sa.»

Su questo non ci giurerebbe. Chenzira è sempre almeno dieci passi davanti rispetto alle proprie vittime – lo sa per esperienza diretta –. Piuttosto è quella faccenda a non piacerle, ma in fondo lei non è nessuno per intromettersi. Si morde la lingua tenendola incastrata nella tagliola dei denti per non parlare a sproposito, per non dirgli di stare attento, ora che lo vede allontanarsi, perché lei è solo una spia e deve smetterla di comportarsi come se volesse diventare sua amica.

Ignora l'istinto che le grida di fermarlo e scende verso Piazza Obelisco in cerca di una bottega dove comprare il regalo per Maissa. Carta e colori, così avranno un modo tutto loro per parlare, senza bisogno di articolare frasi e suoni. Cammina tra i muretti a secco che strisciano attorno a lei, innalzandosi e ricadendo a seconda del dislivello. Si infila tra le casupole di mattoni chiari da cui penzolano panni rivestiti da rammendi. È una passeggiata straziante. Ancora una volta, proprio come nel giorno del suo arrivo, nota come la povertà del quartiere faccia a pugni con il lusso dei monumenti di propaganda: un obelisco, un arco di trionfo, una statua equestre.

Evianne procede nel fango e si sente chiamare da grida silenziose. Non sono voci vere, ma aure magiche che hanno dita e cercano di arpionarla, di condurla dai loro proprietari che reclamano un pizzico di salute. Nemmeno se usasse l'intero potere di Rasa potrebbe aiutare quei Secondi e salvarli dalla morte. Si chiede come sia possibile che nessuno faccia niente, che gli Spilli e i Primi di Sabbiafine pensino solo ai loro privilegi e non al dolore di quella gente.

È in quell'istante che una mano invisibile le sfiora il mento e le indica un tugurio di mattoni bianchi con il soffitto in pagliericcio: il luogo che le ha indicato Chenzira nel biglietto. Evianne entra senza permesso e si ritrova in una stanza circolare, un abitacolo unico e spartano, ammobiliato con un tavolo, un canterano beccato dai tarli e un singolo giaciglio di fieno sul quale riposano due bambini esanimi.

Una donna tozza che indossa una cuffietta di mussola smette di inumidire le loro fronti con dei panni che odorano d'aceto e di cantare una nenia per affidarli alle braccia della dea Eren. «Sei Chanti? È stato Chenzira a mandarti qui?»

Ora Evianne capisce cosa intendesse nel biglietto con "vite da salvare". «Sì,» conferma mentre si inginocchia accanto al bambino più grande, «forse posso aiutare.»

La donna si rigira nevroticamente le dita, ha la disperazione di chi si aggrappa a tutto pur di salvare i propri figli, anche a una straniera. Continua a pregare mentre Evianne armeggia con le polveri del Vecchio Saggio – Fegatella e Polmonaria sono le erbe giuste –, lascia che la rugiada di Rasa combatta l'infezione e diminuisca il dolore.

È un'ora di procedura ininterrotta che la sfinisce, al punto che quando arriva a fine intervento si sente svenire. È solo allora che si accorge che la donna dalla cuffietta di mussola è svanita, ha lasciato il posto a un individuo dagli occhi di drago fin troppo noto.

Chenzira abbassa il capo in un cenno. «Grazie di essere venuta, Chanti.»

Evianne è stanca, ma è decisa a tenergli testa perché deve sapere a ogni costo che cosa voglia ottenere dal loro incontro. «Il biglietto. Di quale verità stavi parlando?»

Chenzira si mette a sedere sul tavolo. Con noncuranza accarezza il pomolo con il rubino incastonato sull'elsa di Spillo Rosso. «Non saprei. Tu quale verità stai cercando?»

Troppe: il volto del principe, il fiore viola, i bambini scomparsi, ma non si fida di Chenzira, non abbastanza da rivelargli la sua missione, sempre che non l'abbia già scoperta. A volte ha il sospetto che la conosca meglio di quanto le stia facendo credere. E gli altri due Erranti non sono da meno. Ecco che li raggiungono nell'abitacolo: Nandi chiude le ante a oscuro, Bulbun spranga la porta. Dai loro gesti appare chiaro che quella conversazione sarà segreta e riservata.

«Ho salvato delle vite» sussurra, mentre guarda i due bambini che dormono senza febbre e dolori. «Dimmi la verità che preferisci. Sarà sempre qualcosa.»

«Hai già avuto la mia verità.» Chenzira e i soliti giochi di parole. «Perché credi che ti abbia portata qui costringendoti ad attraversare i quartieri dei Secondi? La mia verità è il mondo che hai visto oggi e – credimi – è il nulla rispetto alle vessazioni che il popolo subisce a Spinarupe.»

Un brivido risale lungo la schiena, un tremore che quando arriva al cervello si dirama in infinite domande alle quali non sa trovare risposta. «Che cosa vuoi da me?»

Nandi si toglie un pugnale dalla cinta e gioca a picchiettare il polpastrello dell'indice sulla punta. «Ma davvero non lo hai ancora capito? Non ti facevo così tarda. Perché credi che non ti abbiamo uccisa al Gallo Morto e che ti abbiamo riportata a Fortezza Diaspro, spianato la via per socializzare con il principe?»

È Bulbun a raccogliere il discorso. «Era di vitale importanza che il principe ti diventasse amico come dimostra la campanula bianca che ti marchia la mano perché tu...»

«Devi diventare la nostra spia, sfruttare la sua fiducia e farci sapere quali saranno le prossime mosse di re Tavare.» Nandi arriva dritta al punto, le svuota addosso una cascata di aghi gelati che la travolgono e lasciano impietrita in ginocchio, davanti al giaciglio dove riposano i due bambini in via di guarigione.

«No.» La risposta di Evianne è secca, non apre ad altre prospettive. «Non farò mai una cosa simile.» L'arazzo che il trio degli Erranti ha tessuto in quei mesi di convivenza diventa ora sempre più chiaro, rivela un disegno che la fa inorridire. «Perché lo state chiedendo a me?»

«Non ci crederai ma quando il principe si è offerto di sfidarti a duello al mio posto lo ha fatto per aiutarti» incalza Chenzira. «Sei la prima estranea ad avere avuto accesso alle serre della regina Adama.» C'è qualcuno nell'intera Fortezza Diaspro che non ne sia a conoscenza? «Nemmeno io ho il permesso di entrarvi e vivo con il principe da anni.»

«Non che questo ti impedisca di gironzolare ovunque tu voglia.» Lo dimostra il fiore d'arancio che le ha regalato davanti a Kemala quando era appena arrivata a Sabbiafine e lo credeva ancora un uomo di buone maniere.

Anche Chenzira sta rivivendo quel momento, ne è certa, perché le strizza l'occhiolino come se tra di loro vi fosse un legame di complicità. «Mi chiamano Errante per un motivo, ma tornando a noi... Converrai con me che è inusuale per una straniera essere riuscita così facilmente a entrare nelle grazie del principe. Potresti scoprire i segreti della casata, fare la differenza per questa gente.»

La mente di Evianne compie uno strano volteggio, con un battito di ali plana alle serre, rivive nel libro della memoria le notti passate a curare i fiori e a ballare, cullata dalla voce del principe che canta sotto un cielo di stelle.

«Non posso.» Ci sono diversi livelli di tradimento. L'amore per la propria terra giustifica qualche bugia, ma infilarsi in un covo di ribelli e vendere le confidenze del principe, se mai ce ne saranno, è troppo. Non avrebbe dovuto abboccare all'esca di Chenzira, cadere nel suo tranello e andare in quel tugurio.

Lui la guarda deluso. «Pensa ai bambini che hai aiutato. Pensa ai carri di grano che arriveranno oggi a Fortezza Diaspro. È il cibo che il principe ha confiscato a Isedu e alle famiglie dei Secondi. Con la scarsa produzione di quest'anno, se perderanno anche quel poco che hanno, moriranno di fame.»

Isedu. Non è il nome del Secondo che il principe stava per incontrare in gran segreto? Chenzira non le dà il tempo di pensarci. «Evianne, tu puoi aiutare questa gente.»

Odia quando usa il suo vero nome. Si sente nuda, un topolino che cerca una buca dove scappare, ma non può osare mezzo passo perché gli artigli del gatto la imprigionano in un cerchio, aspettano il momento giusto per colpire.

«Dovrai solo riferirmi che cosa ti confida in privato. Quanto può essere difficile?»

«No. Ho detto di no.» È un no enorme, gridato, ma non con la gioia di canzoni stonate o di risate. È un no pronunciato con una voce traboccante di rabbia, un tono che in sedici anni di vita non ha mai usato.

Chenzira scuote la testa, le onde dei suoi capelli si illuminano di sfumature ramate quando spalanca le finestre a indicare che la conversazione è finita. «Pensaci.» Un'ultima supplica. «Per il momento... Che cosa dovevi comprare?»

Evianne si è scordata del secondo motivo per cui è uscita da Fortezza Diaspro. «Un blocco da disegno e dei colori.»

Bulbun si contorce sullo stomaco in una risata. «Hai capito che il canto non fa per te?»

«Sono per Maissa!»

Forse è solo un tranello dovuto alla luce, ma sul volto latteo di Chenzira si scolpisce una pennellata di dolcezza. La guarda in un modo strano come se dentro di lei vedesse qualcosa di buono, qualcosa capace di farlo sperare. «Bulbun ti accompagnerà al mercato e poi ti riporterà a palazzo. Io e Nandi abbiamo un principe da salvare.»


*


Shadee ha commesso una mossa azzardata quando ha deciso di incontrarsi in privato con Isedu dei Secondi, lo sapeva, eppure fino all'ultimo ha sperato che funzionasse. Un colloquio privato alla ricerca di un accordo, lo stesso schema che seguiva sempre Jaja negli anni in cui era al comando di Sabbiafine. Pensava di essere stato magnanimo: se Isedu non avesse ostacolato la cessione del grano, avrebbe lasciato alla sua famiglia un terzo del ricavato.

"Adesso spacciate per magnanimità un furto, principe? La mia gente lavora i campi, sgobba tutto il giorno sotto il sole..."

"I campi sono di mio padre e dei Primi di Sabbiafine."

"E noi paghiamo un affitto per restare."

"Un affitto minimo. E dovreste ringraziare. Mio padre avrebbe già marchiato la via principale con le vostre teste, se fosse stato al mio posto."

La puntualizzazione ha fatto scattare qualcosa in quel Secondo, ha scavato un'ombra nella cicatrice che gli attraversa il viso. Un attimo dopo Shadee si è trovato circondato da alcuni contadini che si nascondevano nei pressi del vicolo scelto per l'incontro e ha provato sulla sua pelle la gentilezza delle pietre che gli hanno scagliato contro. Se non fosse stato per l'intervento di Chenzira e Nandi che passavano di lì, sarebbe finito lapidato vivo.

Di nuovo a palazzo, mentre lo aiutava a ricucire un grande taglio sulla fronte, Chenzira lo ha rimproverato per avere agito da incosciente. "Facciamo che non commento questa tua brillante iniziativa, Shadee? Anzi, no. Si può sapere come ti è venuto in mente?"

"Facciamo che non è mai successo" ha rilanciato Shadee e pieno di vergogna lo ha pregato di non aggiungere altro.

Però è difficile fare finta di nulla quando la testa rivive in continuazione l'impatto delle pietre che collidono contro le ossa e lacerano la pelle. È difficile quando la solitudine riaccende lo sguardo infuocato di Isedu, la cicatrice che gli sfregia il volto annerito dal sole, quando il silenzio rievoca il veleno delle sue ultime parole.

"Voi non potete essere il principe Jaja che conosco. Non avete nulla di lui. Chi siete?"

Isedu non può avere capito. Shadee è cresciuto imitando suo fratello. Ha passato anni a memorizzare ogni suo gesto e di lui adesso ha tutto, l'inflessione della voce, le parole, il modo in cui allaccia il braccio dietro la schiena nei momenti di tensione, è diventato Jaja al punto che in certi momenti si è scordato di esistere e ha pensato di essere la proiezione di un altro. Grazie al cappuccio di spilli, restano solo le sfumature rosse delle iridi a distinguerli, ma Shadee è stato attento a non guardare Isedu negli occhi, e allora come avrebbe potuto capire di aver incontrato un impostore?

Non sa come liberarsi dei pensieri che lo opprimono, sa solo che ha bisogno di respirare e di svuotare la testa, di andare nell'unico luogo dove può trovare quel senso di pace tanto agognato. Nell'ultima settimana si è imposto di stare alla larga dal regno di sua madre e invece, come guidato dai passi di un sonnambulo, si ritrova sempre lì. Si dice che quel bisogno vitale di andare alle serre non ha nulla a che fare con una straniera minuta dal sorriso raggiante. Si dice che la ragazza non gli piace, a lui non sono mai interessate queste frivolezze, è solo che per la durata dei loro brevi incontri esiste. Può sembrare una piccola cosa, ma per chi è nato ombra è un dono che vale più dell'aria.

Così, anche quella sera, cede al richiamo e quando la trova inginocchiata nel terreno appena vangato, si maledice, perché ha l'ardire di sentirsi sollevato. La straniera lo guarda, stupita che l'abbia raggiunta, e d'un tratto lui sa che almeno per quella notte non ci saranno mostri a tormentarlo.

Con finta noncuranza accosta il tronco dell'arancio. «Ho fatto bene a non assumervi come guardia. Siete la peggiore che un regnante potrebbe desiderare.»

Chanti lo illumina con un sorriso che sembra avere strappato un brandello di luce alla luna. Per qualche strano motivo sembra felice di vederlo. «E perché mai?»

Shadee si indica la fronte, la ferita nascosta dal cappuccio di spilli. «Avete lasciato che andassi da solo a una riunione segreta in un quartiere isolato.»

«Siete abbastanza grande da poter fare le vostre scelte assumendovene la responsabilità.»

«Nonché così poco lungimirante da non prevedere che sarei stato lapidato vivo.»

Chanti smette di trafficare con alcuni semi di azalea. Un solco profondo, segno di riflessione, compare tra le sopracciglia inarcate. «Vi hanno ferito?»

Shadee bofonchia un no. «Avete trovato quello che volevate comprare?»

Un'improvvisa tensione la circonda, è un filo di ferro invisibile che scende dalla nuca e si avvinghia al torso, suggerisce che in quel giorno infinito c'è stato anche per lei un imprevisto colpevole di averla turbata.

«La gente del paese su cui regnate soffre» gli dice. «Ma nel vostro palazzo ci sono cibo e prosperità.»

«Le cose vanno così, sono sempre andate così.»

«Voi però potete cambiarle, perché non ascoltate che cosa vogliono i Secondi?»

Non è necessaria una grande capacità di ascolto per capirlo. Le richieste lo hanno sommerso sin dal suo arrivo. «Terre di loro proprietà, non dover cedere il ricavato, non arruolare i figli nell'esercito, matrimoni misti, elargizioni di cibo gratuite, riduzione delle tasse, libero permesso di spostamento fuori dal villaggio.» È solo l'inizio di una lunga serie di pretese assurde.

Chanti tamburella l'indice nella fossetta del mento appuntito. «Sembra che la vostra casata abbia sottomesso tutte le altre, eccetto i nobili che vi seguono. Dalle mie parti non è così. Gli alberi non hanno padroni.»

«Dolce Acqua si spaccia come un popolo pacifico, ma non vi è dell'ipocrisia? Hanno venduto mia madre in matrimonio quando avrà avuto sì e no la vostra età.»

Shadee ripensa alla regina, al suo calore, al profumo di cipria che per lui era simbolo di conforto, alla sua bontà che è stata premiata con dell'acciaio ficcato nel cuore.

«Oggi sono arrivati dei carri di grano?» La domanda di Chanti lo riporta al presente.

«Sì.» Il grano che ha confiscato ai Secondi e a Isedu dopo che hanno cercato di ucciderlo, ma lei come fa a saperlo?

«Potreste usarlo per una festa!» strilla Chanti. «Con elargizioni di cibo gratuito e musica e balli, un passo per dimostrare al popolo che siete disposto ad aiutarli. La Festa dei Mille Soli.»

«No.» La Festa dei Mille Soli no. È l'occasione che i Secondi hanno sfruttato a Spinarupe per uccidere sua madre. «Non è possibile governare e dare a tutti quello che vogliono.» È stato il primo insegnamento di suo padre.

Chanti lo fissa con uno sguardo così limpido che nessuno potrebbe leggerci dentro delle cattive intenzioni. «Però tu puoi provarci.»

"Tu" e non "voi". È la prima volta in cui cade la forma di cortesia, e assieme a lei crollano le resistenze, le torrette e i bastioni dietro i quali Shadee sta cercando di asserragliarsi. E se fosse davvero tutto così semplice?

Shadee non è un politico. Ha letto molto, ma la vita è diversa dalle pagine di un libro. Le parole di Chanti sono una fiaba che cozza contro la dura realtà di suo padre. La guarda sorridere e pensa che non abbia rubato solo un brandello di luce alla luna. Ha rubato un pezzo di sole, di stelle, dell'intera volta celeste che mentre parlano continua a brillare sopra di loro.

«L'organizzazione della festa ricadrà interamente sulle tue spalle» la informa. Uno Spillo non concede mai un "sì" senza imporre delle condizioni. «E sarà meglio che il risultato sia all'altezza della mia casata.»

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