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21. Una campanula bianca

Mese del Velo


Una volta tornato a Fortezza Diaspro Shadee si fa raccontare tutto da Chenzira. È una storia assurda di cui il re dovrebbe essere informato, ma non vuole coinvolgere suo padre e venire accusato di incapacità. Lui stesso si ritiene il disonore della casata. Come ha potuto non accorgersi di niente? E cosa ha fatto di così atroce perché un semplice ragazzino decidesse di intrufolarsi ogni notte nella sua stanza per avvelenarlo? Ha sempre saputo che l'odio rende arditi, permette di compiere imprese che vanno oltre i sospetti della più fervida immaginazione, ma non riesce a capire quale sia il motivo nascosto dietro questa audacia, né dove lui abbia sbagliato quando si è limitato a eseguire gli ordini del re.

Se non fosse stato per la straniera a quest'ora sarebbe morto. Ogni notte gli ha iniettato l'antidoto finché il Secondo non l'ha rapita per rimuovere l'ostacolo. Finalmente Shadee capisce da dove proveniva il fiore d'arancio che non ha mai tolto dall'asola. Non era un dono di sua madre arrivato in sogno, ma il segnale lasciato da una straniera che voleva avvertirlo senza esporsi.

Inspira l'aroma che i suoi petali continuano a rilasciare e pensa alla ragazza. Le deve dei ringraziamenti e delle scuse, ma non sa che parole rivolgerle senza fare la figura dello sciocco e allora esita, prende tempo, attende che il coraggio sbocci un poco alla volta, finché una mattina non decide di mettere da parte l'orgoglio e di cercarla.

La trova su un ponte che collega due torrette a ridosso del loggiato, e per poco il cuore non sprofonda nei talloni perché è in piedi sulla balaustra e sta facendo ruote e piroette su un passamano largo quanto? Al massimo una spanna.

Con uno strattone secco la costringe a scendere. «Siete impazzita?»

Ha ancora un polso fasciato e il volto pieno di ammaccature e graffi, con i piedi bruciati dal deserto poi le basterebbe una sbadataggine minima per cadere.

La ragazza gli rivolge un sorriso esagerato. «State sereno, principe. Nessun tentato suicidio. Maissa mi acciuffa se cado. Ha un debito gigantesco con me.»

Solo allora Shadee nota che la povera ancella si trova nel centro del ponte, pallida quanto un lenzuolo. Impalata a metà campata, fa scintillare la magia di Zeme sui polpastrelli, evoca germogli di rose che brillano a raso pelle e si preparano a liberare funi di salvataggio se la loro ospite dovesse per errore mettere un piedi in fallo e precipitare.

La congeda con un cenno del capo e poi si rivolge alla straniera che continua a sorridergli come se trovasse quella buffonata divertente. «Non ho chiesto a Maissa di servirvi perché venisse trasformata in un giocattolo.» Si pente subito delle sue parole. L'ha cercata per scusarsi e ringraziare e invece si è appena buttato in una ramanzina che lo rende l'essere più odioso della Bolla. Possibile non ne azzecchi una?

Borbotta sottovoce nel tentativo di rimediare. «Cioè, intendevo dire... Vi devo le mie scuse» soffia fuori tutto d'un colpo, lascia che la voce si mescoli al vento intento a picchiettare contro il soffitto di vetro e a infilarsi nei graticci del loggiato.

La ragazza strabuzza gli occhi e inclina il volto di lato senza capire. «Scuse?»

Ormai è fatta, non si può più tornare indietro. «Scuse e ringraziamenti» conferma a fatica, come se stesse camminando con le parole su un sentiero disseminato di vetri. «Chenzira mi ha detto cos'è successo. Io credevo di essermi ammalato per una maledizione, che qualche Gari mi avesse posseduto perché non sono all'altezza di...» Jaja. Una fitta attraversa il petto, rilascia un dolore che lo porta a massaggiarsi il cuore. «Non pensavo che un Secondo mi stesse avvelenando.»

La ragazza lo studia con la fronte corrucciata, lo guarda stringersi la casacca come se volesse sopprimere una fitta portata da ogni battito e ricordo. «L'importante è che adesso stiate bene, Altezza. Perché state bene, vero?» Un nuovo pensiero straccia il precedente, la costringe a un saltello sul posto. «Giuro di non avere guardato il vostro volto. Ho solo iniettato l'antidoto e...»

«Lo so.» Sa che non si è approfittata di lui come sa che il sole sorgerà sempre a oriente. «C'è solo una cosa che non capisco. Perché non mi avete detto niente?»

«Mi avreste creduto? E poi non vi illudete. Vi ho aiutato soltanto perché non volevo battervi a duello con l'inganno.»

«Disse la ragazza che usò il tranello di uno specchio magico per paralizzarmi.»

«Un tranello che ha dato il via a una lunga catena di eventi, avente come fine ultimo salvarvi la vita. Quindi?» I suoi occhi grigi ballano come gemme bagnate di rugiada. «Posso essere la vostra guardia personale al posto di Chenzira?»

Resta sulle punte in attesa di una risposta, a elemosinare un sì. Davanti al suo volto speranzoso e ai bagliori proiettati dalla sua pelle bianca, Shadee pensa di non avere mai visto una persona più luminosa. Nonostante i difetti e gli spigoli del volto, irradia una luce che lo rilassa e che potrebbe schiarire perfino l'angolo più scuro del cielo.

«Non sarete la mia guardia.» Ci sono almeno mille motivi per rifiutare. Ciò che le è accaduto al Pozzo del Gallo Morto è il primo della lista. «Siete impulsiva, individualista e spesso sospetta. Troppo rumorosa, troppo sorridente, troppo minuta.»

«Sicuro di non avere dimenticato qualcosa?»

«Siete semplicemente troppo» conclude Shadee.

«Ed è per via del mio troppo che mi volete rispedire a Dolce Acqua, nonostante vi abbia salvato?»

Sarebbe la scelta più sensata. In quanto ombra di un altro Shadee non ha nulla da offrire, nemmeno una protezione sicura, ma allora perché non riesce a prendere la decisione giusta e a mandarla via? La guarda e sotto i raggi emanati dal suo sorriso scompare quell'odiosa sensazione di non esistere che lo perseguita da sempre.

«Non vi spedirò a Dolce Acqua. Siete libera di restare se è ciò che volete.» Per una volta è il primo a ricercare un contatto fisico. Le prende la mano e si appella al dio Zeme per evocare la sua magia e dipingere sul dorso una campanula bianca. Per lui che è cresciuto nelle serre di sua madre non è un tatuaggio qualunque, ma un simbolo carico di un messaggio importante. «Nel linguaggio dei fiori significa grazie.»

È un segno che per chi non è mai stato libero di esprimersi vale più di mille parole, ma la ragazza non sembra apprezzarlo, rimane bloccata dal terrore, fissa il fiore che le dipinge la mano come se i petali evocassero un ricordo sgradevole, come se potessero richiamare uno spettro appena risalito dall'Aralla.

Shadee rompe ogni contatto, si dà dello stupido perché ancora una volta ha sbagliato tutto, pensava che il suo fosse un gesto cortese e invece è riuscito soltanto a turbarla, per un motivo che non riesce a comprendere. «Ho parlato con Bulbun e Chenzira l'altro giorno.» Forse cambiare discorso lo aiuterà a rompere quel filo di tensione che si ingrossa sotto la spinta dei loro respiri. «Vorrebbero aiutarvi ad allenarvi con la spada per insegnarvi a difendervi. Solo qualche ora al mattino...»

«Accetto!» La ragazza è appena uscita dal suo stato di letargo e sembra felice della proposta.

È ufficiale: Shadee non capisce nulla delle donne. Solo un pazzo accoglierebbe con gioia la combinazione letale di Bulbun e Chenzira. In effetti riportandole l'invito del suo maestro gli sembra di averle fatto un torto e vorrebbe trovare un modo per rimediare. «Se posso esaudire qualche vostro altro desiderio.»

Chanti cerca un contatto visivo, esita solo un istante. «Il vostro volto.» Alza la mano per mostrargli la campanula bianca che lui stesso le ha donato. «Ho appena stretto un legame con una persona di cui non conosco l'aspetto e...»

«Sono forse l'aspetto o un nome a definire chi siamo?»

«No, però mi piacerebbe sapere che aspetto avete.»

Shadee sospira quando un filo di brezza entra da un arco del loggiato, si solleva a volo di rondine sui loro visi. È un vento che indossa mani e prova a spostare la cappa di spilli. «Non posso.» Non potrà mai darle quel che chiede.

Chanti arriccia le labbra ma non sembra troppo dispiaciuta. Il vento le ha scompigliato i capelli, un boccolo di cenere disegna un'ansa che affonda nella guancia. «Le vostre serre allora. So da Kemala che nascondete dei giardini magnifici nei quartieri che mi sono preclusi. Nella mia Bolla ero una guaritrice, potrei coltivare qualche medicinale e rendermi utile.»

Lo è già stata, Shadee le deve la vita e sarebbe felice di soddisfare quel suo desiderio, ma è una richiesta che pesa. Le serre di sua madre sono qualcosa di intimo che lui e Jaja non hanno mai condiviso con nessuno. Come potrebbe profanare quel terreno sacro di affetto con la presenza di una straniera?

Chanti si mordicchia le labbra, capisce di averlo messo a disagio. «Fate finta di nulla, non avrei dovuto chiedere.»

«No.» Shadee si stupisce di sé stesso, della sua stupida bocca che ha parlato senza il consenso del cervello. No? «No» ripete. «Datemi solo un po' di tempo e vi ci porterò.»


*


Nonostante siano passate due settimane dal suo rapimento, Evianne non sa ancora come comportarsi con gli Erranti. Non capisce perché non l'abbiano uccisa al Pozzo, né perché la spingano a familiarizzare con il principe. Non si fida delle loro parole e delle loro mezze verità. Sono un cristallo che possiede tante facce di cui a lei è permesso vederne solo una, senza sapere cosa nascondano le altre. Sotto i loro sguardi inquisitori si sente in trappola, una marionetta i cui fili sono giostrati dalle dita di Chenzira, dai sussurri con cui pronuncia il suo vero nome per farle capire chi comanda la partita.

Anche gli allenamenti che condividono insieme ogni mattina sono soltanto uno strumento per tenerla sotto stretto controllo.

«Abbiamo un patto, Evianne» le ricorda sempre Chenzira, ammiccando da sotto le sopracciglia che orlano gli occhi ambrati. «Muta come una tomba.»

«E nella tomba non ci finirà nessuno» ride Bulbun.

Le basta sentire le loro voci perché il sangue ribolla nelle vene. «Vi tengo d'occhio. Non vi permetterò di uccidere il principe e nemmeno di sacrificare un altro innocente come avete fatto con quel povero ragazzo al Pozzo.»

Quei due buffoni non la prendono sul serio. Ridono, consapevoli di avere la partita in pugno. Se oserà parlarne con il principe Jaja, riveleranno la sua identità, la faranno condannare a morte e tra le due Bolle scoppierà la guerra.

Evianne può solo prendere tempo, restare vicina al principe e assicurarsi che non diventi vittima di una nuova congiura. Da quando le ha donato la campanula bianca come segno di ringraziamento, passano sempre più tempo insieme, anche se nemmeno lei saprebbe indicare l'attimo preciso in cui la confidenza che li lega subisce un'impennata. Avergli salvato la vita porta a un sottile cambiamento nella dinamica del loro rapporto, a una semplicità tutta nuova con cui parlano e si sfiorano. Sono solo dita che si avvicinano, polsi che si urtano, gesti non voluti e dettati dal caso, ma Evianne si sorprende a ricercarli perché quella vicinanza le trasmette serenità. Nei rari attimi di solitudine che le sono concessi si dà della ridicola: un nemico non può diventare uno scoglio cui ancorarsi per non affogare, ma come si fa a evitarlo quando quel processo è già iniziato contro il suo stesso volere?

È una domanda che si pone spesso, lo fa anche durante una mattina che trascorrono insieme in biblioteca. Evianne accartoccia una pallina sulla quale ha scarabocchiato una libellula e continua a sbuffare.

In tutta risposta il principe smette di rispondere a una missiva. «Se mi seguirete ancora a lungo, diventerò allergico alla vostra presenza. Perché volete starmi sempre attaccata?» 

Evianne finisce di accartocciare la pallina e gliela lancia contro. «Chissà? Forse lo faccio così un giorno vi accorgerete di quanto sono splendida e vi innamorerete di me.»

Un filo di tensione gli irrigidisce la schiena. «Io non ho tempo per queste sciocchezze.»

È così divertente metterlo a disagio. Le sue reazioni la fanno sempre ridere di buon gusto, proprio come accadeva a casa con Mildri e Snorre, ma al tempo stesso in un modo diverso, più intimo e personale. Nemmeno lei gli è antipatica, di questo ne è certa, perché ci sono dei momenti in cui è il primo a cercarla. Di sera sgattaiola nella mensa comune e resta seminascosto da un pilastro all'angolo. Agli Spilli è vietato mangiare in presenza del popolo – sarebbe un vero gioco di prestigio riuscirci senza togliersi il cappuccio – eppure lui si presenta sempre, attende che gli ultimi commensali se ne vadano e poi si sistema dall'altro lato del tavolo, davanti a un libro che – è così evidente! – legge solo per finta.

«Come avete fatto a sfondare la porta della vostra stanza la notte in cui vi hanno rapita?» le chiede una sera.

Evianne si strangola con la polverina rilasciata da un fiore di zucchero. Non può dirgli di essere una discendente della dea Rasa, non può suggerirgli che la rugiada sembra delicata, ma lotta ogni giorno con ostinazione per resistere al sole.

«Oh, quello... Ho solo chiesto l'aiuto del dio Dagan.»

«Non sapevo aveste la sua magia.»

Infatti, non la ha. «Pochissima» mente Evianne. «Arriva solo quando sono disperata. Posso cantarvi una canzone?»

La musica è il tranello che le permette di sgusciare via non appena la conversazione sfiora argomenti pericolosi o viene sorpresa a sbirciare dove non dovrebbe. La verità è che ha una missione da compiere, ma non sa da che parte iniziare per portarla a termine. Con l'entrata nel mese del Velo, spera che i festeggiamenti per la celebrazione del nuovo anno possano regalarle un'illuminazione. A Fontebella, assieme a Mildri, appendeva sempre fiori per omaggiare il sole nascente e poi liberava nel cielo lanterne di nastri colorati per chiedere ai venti di esaudire un desiderio.

Ma ancora una volta il suo piano crolla per colpa di un principe scontroso. «Non ci sarà nessuna festa.»

Evianne sventola i pugni all'aria. «Non è possibile. È irrispettoso non elogiare gli dèi. Vi attirerete un anno di sventure e carestie. Non avete a cuore la vostra popolazione. Forse se mi portaste alle serre come mi avete promesso potrei scegliere dei fiori.»

Il principe si massaggia il cappuccio nel punto che corrisponde alla fronte. «Riuscite a stare zitta per almeno cinque minuti?» Torna da lei poco dopo con uno scatolone pieno di nastri e lanterne. «Non ci sarà nessuna festa, ma Dolce Acqua è un popolo religioso, quindi se volete decorare il palazzo...»

Evianne rimane imbambolata a guardarlo con una stretta di commozione che fa salire le lacrime agli occhi. «Solo se lo farete con me.»

Non gli è permesso rifiutare e in effetti nemmeno ci prova. Evianne passa il pomeriggio con lui ad appendere fiori sopra le porte del palazzo. Più tardi, mentre  lanciano lanterne di nastri colorati nel cielo prossimo al tramonto, viene colta da una sensazione strana, di rivivere una scena già accaduta in passato, in un qualche momento della sua esistenza che è andato perso nella memoria.

Stringe una lanterna sulla quale hanno incollato nastri pervinca e la appoggia sulle mura della Fortezza. «So di chiedervi molto. So che per la casata degli Spilli è legge, e il mio potrebbe sembrarvi un capriccio, ma se solo potessi vedere il vostro volto, soltanto un secondo...»

«No.» Basta quella piccola richiesta a spazzare via l'armonia che li circondava e a farle prendere il volo tra le lanterne di nastri che sfidano il cielo. «Non chiedetemelo più» la scongiura e intanto arretra come se avesse appena messo il piede in una trappola. «Ve lo proibisco.»

Evianne lo guarda allontanarsi con l'ansia che gonfia il petto, con il timore di avere spezzato quel sottile filo di confidenza che li legava. Non sa nemmeno lei perché le dispiaccia tanto, anzi lo sa, è per la missione, soltanto per la missione. Spera solo di non avere rovinato tutto. La mamma glielo diceva sempre quando era bambina: la fiducia è un ponte difficile da gettare; se cade è quasi impossibile ricostruirlo.


*


In attesa che la porta venga riparata, Evianne riceve una stanza ancora più sfarzosa della precedente: ha un letto che sembra un palcoscenico e delicati pannelli in carta di riso che velano le pareti. Da quando il principe ha smesso di riceverla e ha rinunciato ai loro incontri è l'unico posto a Fortezza Diaspro in cui si senta al sicuro. Maissa è ancora la sua ancella, ma dopo la notte del rapimento qualcosa si è allentato tra di loro. Sebbene la ragazza degli Spilli sia sempre docile e cortese, Evianne non riesce a capire le sue intenzioni.

Una mattina le parla a cuore aperto. Resta sbigottita quando a gesti e cenni Maissa confessa che sì, sapeva che Chenzira stava avvelenando il principe.

«Ma come? Perché non hai informato nessuno? A te avrebbero creduto!»

Maissa alza una spalla a dire che non è affare suo, bisogna fare attenzione a mettersi in mezzo perché si rischia di prendere una coltellata destinata a un altro.

«Non potrei mai far finta di nulla» ribatte Evianne. «La vita va sempre protetta.»

Maissa resta spiazzata da quella risposta. Si gira con imbarazzo verso la toletta e si sistema in maniera isterica le forcine che tengono legata la corona di trecce. Dopo aver finito di rassettarsi, le accarezza la guancia. Sono amiche? Alleate? Evianne non lo sa, ma crede che a modo suo l'ancella abbia voluto proteggerla da Chenzira.

A proposito del quale... «Devo andare ad allenarmi, prima che mandi Bulbun a cercarmi.»

Ogni giorno incontra i due Erranti per una lezione di combattimento. Si vedono sempre in uno dei campi interni a Fortezza Diaspro dove è presente un rettangolo di sabbia perfetto per tirare di spada.

Quando la vede arrivare Bulbun inizia a sbracciare. «Allora, zuccherino? Cantiamo qualcosa quest'oggi? Offro inni da taverna, pastorali erotiche da sotto le lenzuola, un sirventese contro il nostro principe...»

Fa tanto il gradasso ma due persone possono sfruttare la stessa tattica. «Credevo fosse vietato cantare in questa Bolla per tutta quella storia che mi avete raccontato di Soumano quando mi avete rapita.» Usa il tono di voce più alto per minacciare i due Erranti prima che siano loro a tormentare lei.

Peccato che Bulbun non cada nella trappola. Senza sciogliere il suo sorriso dorato fruga sotto il mantello magenta alla ricerca della lira da viaggio.

Evianne non ha voglia di sentirlo stonare di prima mattina. Gli lancia una spada di legno. «Allenati con me!»

«Ehi!» Bulbun para il colpo e lo respinge dandole lo slancio giusto per ruotare sui talloni e tirare un secondo fendente. «Vacci piano, stecchino caramelloso! Chenzira, una mano sarebbe gradita.»

Chenzira sta sonnecchiando su una panchina accanto alla rastrelliera delle armi. Trattiene a fatica uno sbadiglio perché conoscendolo avrà passato la notte sveglio a complottare o peggio a escogitare qualche assassinio. «Lasciala sfogare» bofonchia. «È di pessimo umore perché ha litigato con il nostro amato principe, ma vedrai, tempo qualche giorno e faranno la pace, e poi la nostra cara Chanti diventerà una preziosa alleata.»

«Non ci penso proprio.» Con una ginocchiata Evianne allontana Bulbun. «Non voglio giudicarvi, ma...»

«Se non mi vuoi giudicare che senso ha metterci un "ma"?» rilancia Chenzira. Il suo sorriso la coglie di sorpresa, dà a Bulbun l'occasione perfetta per puntarle la spada al petto, anche se non riesce a chiudere il duello.

Con uno sgambetto Evianne gli fa perdere l'equilibrio e si smarca, torna in posizione di difesa. «Sono stufa delle vostre chiacchiere. Un giorno o l'altro riuscirò a ignorarvi.»

Bulbun butta la spada a terra, stanco di combattere. «Potrai ignorare noi, ma non Costola, Spillo Rosso, Tagliateste, Puntastorta e Serpentella.» Indica le cinque spade di Chenzira che come al solito sonnecchiano sulla rena senza venire mai utilizzate. «Li ho scelti io questi nomi. Tranne Spillo Rosso, in onore degli occhi del principe, sebbene io trovassi più indicato Spina nel Culo.»

Evianne ripone la spada di legno nella rastrelliera e studia le armi di Chenzira. Costola è una sciabola, Tagliateste una falce per decapitazione, Spillo Rosso ha la sottigliezza di un filo di pioggia, mentre Puntastorta e Serpentella sono pugnali dai profili elaborati. «Che se ne fa un uomo di cinque armi quando ha solo due mani?» domanda.

Chenzira si stiracchia allungando la schiena e recupera Spillo Rosso, l'elsa decorata da un rubino. «Chi risolve l'indovinello non arriva all'indomani per condividere la risposta.»

Le salta addosso con la furia di un lampo, armato di spada vera. Le lascia a stento il tempo di un piegamento e di una capriola sul fianco per evitare una sferzata di metallo e recuperare Serpentella.

«Io avrei puntato su Costola» ridacchia Bulbun indicando la sciabola.

Anche lei, se avesse avuto un minimo di preavviso. Serpentella è un pugnale dalla lama ondulata, emana scintille azzurre quando cozza contro Spillo Rosso, segue il movimento del suo polso come un prolungamento del braccio. Evianne non ha mai visto nessuno muoversi alla velocità di Chenzira, sembra volare sulla sabbia. Ben presto, parata dopo parata, la riveste una cascata di sudore e fatica, mentre lui, nonostante il sole rovente, volteggia più fresco di rugiada.

«Quindi, Evianne, a cosa servono cinque spade, quando per uccidere ne basta una?»

«Smettila di chiamarmi così!»

«Così come?» Chenzira batte l'elsa di Spillo Rosso nel retro del ginocchio ed Evianne affonda a terra, la bocca piena di sabbia, si gira sul fianco per scappare da una sventagliata della lama. «Evianne è il tuo nome, no?»

Vuole ucciderla, ormai è chiaro, ma Evianne non glielo permetterà. Facendo leva sulle mani si rialza, una piroetta calcolata per avere il sole alle spalle, nella speranza che i raggi siano suoi complici e accechino l'avversario.

Anche a occhi chiusi, Chenzira riesce a schivare. «Astuta, ma non abbastanza.»

«Sia chiaro» replica Evianne, il fiatone a mille. «Se mi uccidi, il mio fantasma passerà tutto il tempo ad assordarti con le canzoni più brutte che conosco.»

«Che splendida dichiarazione d'amore» ride Bulbun.

Evianne apre bocca, ma non esce nessun suono perché una morsa di dita la stringe per la gola e la solleva da terra. Prima di restare a corto di ossigeno, improvvisa una sforbiciata e colpisce la spalla di Chenzira, riuscendo a liberarsi.

«Basta così» gli ordina. Il duello l'ha ridotta a uno straccio. «Prima o poi saprò cosa fare con voi due.»

«Io invece so già cosa fare con te» ridacchia Chenzira. Le porge la mano, una stretta di cordialità fasulla che sigla la fine dello scontro. «Goditi il tuo soggiorno a palazzo...» Ancora quel maledetto ghigno. «Finché durerà.»

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