18. Tensioni tra sorelle
Quando Shadee si sveglia il sole è già sorto e sul cuscino c'è un fiore d'arancio fresco che accende il ricordo di sua madre. A Reggia Blu gli diceva sempre che i sogni vicini al mattino sono veri, e lui quella notte l'ha vista, l'ha incontrata dopo anni di silenzio e lontananza. Deve essere stata lei ad averglielo lasciato, ad avere allontanato la malattia che lo ha quasi ucciso. Non riposava così da due mesi e adesso si sente leggero e in forze, riesce addirittura a sorridere come uno sciocco mentre inserisce il fiore d'arancio nell'asola e si prepara a una nuova giornata da superare. Ha sognato anche Jaja ma non vuole pensare a lui, né al modo in cui è finito il loro confronto: a un certo punto sembrava incapace di fuggire dal tempio, come se fosse stato colpito da un pesante maleficio che lo voleva in trappola.
Decide di non farci caso e di recarsi alla mensa in cerca di Chenzira per programmare assieme gli impegni settimanali e il calendario delle udienze, ma per un dispetto della sorte si imbatte nella straniera che saltella tutta agitata. Soltanto quando lo vede un gigantesco sorriso le rilassa la mimica del viso.
«Principe!» Chanti di Dolce Acqua lo saluta con un acuto che potrebbe condannare alla sordità i cittadini dell'intera Bolla. «Ho deciso di diventare la vostra guardia personale.»
Shadee si spiccica una mano sulla fronte e si punge con gli spilli del cappuccio. «Me lo avete già detto qualche settimana fa.»
«Sì, ma adesso ho una motivazione più seria.»
«E sarebbe?»
La ragazza fa dondolare le braccia dietro la schiena, cerca a tentoni le parole giuste. In un giorno come un altro Shadee avrebbe già perso la pazienza, ma una buona nottata di sonno lo ha riappacificato con il mondo e con sé stesso. Guarda la straniera mordicchiarsi le labbra. La luce soffusa del mattino rende i suoi contorni sfumati, illumina tra le ciglia chiare uno sguardo preoccupato.
«Mi spiace, Altezza. Non intendo rivelarvi la mia motivazione, è personale e riservata.» Gli sorride in un modo che è semplicemente "troppo".
«Motivazione o non motivazione ho già la mia guardia del corpo: Chenzira.»
«Non sono sicura che sia la scelta migliore. Avete mai dubitato della sua lealtà?»
Di Chenzira? L'uomo che gli ha insegnato a usare la spada? Un demone deve essersi impossessato di lei, deve averle strappato via dalla testa ogni traccia di buon senso, se davvero lo pensa. Shadee abbassa il cappuccio in segno di congedo. «Vi auguro una buona giornata, Chanti di Dolce Acqua.»
«Aspettate!» Come da copione non riesce a liberarsi di lei che gli è subito alle calcagna. È buffa mentre affretta il passo per sincronizzarsi alla sua falcata. La tunica color fiordaliso che le ha fornito Maissa è troppo lunga e l'orlo si sfilaccia di passo in passo, finisce mordicchiato dai tacchetti dei sandali.
«Sentite» la supplica. «Questa storia sta andando troppo per le lunghe, e io oggi devo rispondere a un numero infinito di missive. Volete essere una guardia?»
«La vostra guardia.»
Shadee la spia con la coda dell'occhio: ogni gesto in lei è imbrattato di una spensieratezza fanciullesca che lui non ha mai conosciuto, se non nelle prime fasi della sua vita, quando con Jaja studiava le stelle dal tetto di Reggia Blu. La studia e si sente accecato come se avesse fissato il sole troppo a lungo. «Perfetto, se le cose stanno così, a mezzogiorno vi concederò quel famoso duello, e se mi batterete...»
«Ahi!» La ragazza crolla in ginocchio. «Mi fanno male i piedi. Sono ancora bruciati, tutta colpa del vostro deserto.»
Come se non fosse stata lei a passeggiare senza sandali sulla sabbia ardente! Shadee la guarda accartocciarsi come una chiocciola nel guscio, mentre a fatica trattiene le lacrime e cerca di slacciare i sandali. Non sa perché si senta in dovere di soccorrerla. Odia il contatto – le uniche persone che amava abbracciare sono morte o lo hanno tradito – ma quando la straniera inizia a singhiozzare qualcosa in lui si scioglie, gli ordina di assicurarsi che stia bene.
Allunga il braccio per aiutarla ad alzarsi. «Appoggiatevi a me. Vi accompagno nella vostra stanza.»
La mano della ragazza, piccola e bianca, si perde nel suo guanto nero. «Grazie.»
Con uno sbuffo imbarazzato, Shadee le permette di stringersi a lui e di tenerlo sottobraccio. «Siete l'ospite più rumorosa e ingombrante che abbia mai visto a palazzo.»
«Grazie mille!»
Non era un complimento. Suo padre gli ha insegnato che gli elogi sono perdite di tempo e finzione, e lui è stufo di essere ingannato. La notte prima ha sognato Jaja, e il suo abbraccio gli è sembrato così vero che sente ancora la barba corta pizzicargli la guancia. È pericoloso fidarsi delle persone, prima o poi vogliono tutte qualcosa in cambio. Anche quella ragazza... Perché si è fissata con lui? Shadee ci pensa in continuazione mentre cammina trincerato dietro il muro del silenzio.
Recupera la parola solo dopo essere arrivato davanti alla stanza della straniera. «Riposate» si raccomanda. «Non c'è fretta per quel duello. Dirò subito a Maissa di raggiungervi con dell'unguento e dei nuovi medicamenti.»
Chanti resta immobile, la mano stretta al suo gomito. Indossa un'espressione spaventata, come se la sola idea di dividersi da lui la terrorizzasse. «Che cosa farete adesso?»
Quello che avrebbe dovuto fare non appena sveglio. «Mi rintanerò nei miei quartieri, la sola zona che vi impedisce di torturarmi. Ci resterò tutto il giorno a lavorare.» Le indica la torretta centrale che solo uno Spillo può raggiungere.
Lei gonfia le guance e gli sbuffa in faccia. «È inutile che fate tanto il gradasso. Anche io saprei andare di là, se solo avessi le mie al–» Si morde la lingua. «Alternative! Le mie alternative! Di certo non ho detto ali! Chi mai potrebbe avere delle ali?»
Shadee deve addentare l'interno guancia per trattenere una risata. «È assurdo che vi stupiate per delle ali. Siamo lontani discendenti degli dèi. Chenzira ha ereditato da Liesna occhi di drago, i figli di Dagan domano piccoli flussi d'acqua, le donne di Fontebella per concessione di Rasa sanno volare.»
«Leggende!» La ragazza urla così forte che Kemala, di passaggio con alcune ancelle, si gira per fulminarli. «Sono solo luoghi comuni. Ali, che sciocchezza!»
Shadee inarca un sopracciglio. «Voi siete davvero strana.»
«Detto da un principe che gira con un sacco nero in testa...»
Che Zeme gli dia il potere! Shadee si appella alla magia del dio per generare un laccio di rovi, lo usa per creare un ponte che gli permetterà di camminare fino alla torretta centrale. A quanto pare la straniera non sapeva in cosa consistesse la magia della casata. Lo fissa con lo sguardo sbarrato, uno che riesce a divertirlo. Per un attimo pensa che anche lei abbia un potere segreto, perché quando è nei paraggi gli sembra di respirare meglio, come se l'aria si facesse tutt'a un tratto più leggera.
Per una volta non ha voglia di essere scortese. Le dedica un vero inchino e prima di varcare il ponte di rovi la saluta con un cenno. «A domani.»
*
A domani, le ha detto e poi, con una semplicità disarmante, è fuggito nei suoi quartieri. Ora Evianne sa come fanno gli Spilli a raggiungere l'altro lato della Fortezza. Snorre si sbagliava perché non usano le mani, ma la magia di Zeme che affiora alle dita e una volta arrivata ai polpastrelli si intreccia in un ponte di rovi, di funi grosse come gomene che svaniscono se sfiorate da un tocco sconosciuto.
Quella scoperta la lascia stordita, la accompagna nella sua stanza assieme a una strana sensazione che volteggia nel petto, come se uno stormo di farfalle si fosse appisolato per sedici anni nel nido del cuore e si fosse svegliato all'improvviso dandole il tormento. Anche se non ha detto nulla, lo ha notato, il principe indossava il fiore d'arancio che lei stessa ha appoggiato sul suo cuscino dopo averlo guarito. Proprio lui, in genere così brusco, è stato quasi cortese, e adesso... adesso quelle sciocche falene devono smetterla di svolazzare ovunque, in faccia, nella testa, nel fegato perché fanno il solletico e le impediscono di pensare.
Pensare a cosa poi? Al suo volto, al fiore viola, al complotto di Chenzira che non sa come sventare. Evianne si butta sul letto di peso. Ha un'unica certezza in quell'istante, deve salvare il principe se il suo maestro proverà di nuovo ad avvelenarlo. Ormai conosce la strada per arrivare ai quartieri reali, dovrà solo evitare di venire allontanata da Fortezza Diaspro, ma può sempre sfruttare la bugia dei piedi doloranti per prolungare il soggiorno e risolvere ogni cosa.
Si guarda la mano che il principe le ha stretto quando l'ha aiutata a rialzarsi da terra. «A stanotte» gli giura. Poi per imporsi di pensare ad altro decide di recuperare la rosa bianca e di informare Snorre degli ultimi progressi.
Non sono stata io a rovinare il tappeto. So come ripararlo e ho deciso di provarci ogni notte. Il vero responsabile agisce di proposito. Lo vuole distruggere. Al momento sono al sicuro. Non credo sospetti di me.
La risposta sboccia sotto forma di petalo.
Devi salvarlo, Evianne. Se morirà, penseranno che siamo stati noi a inviare un sicario e rischieremo una guerra.
Non c'è bisogno di dirglielo. A partire da quell'attimo, segue per settimane lo stesso schema: di notte si infila nei quartieri reali e inietta l'antidoto, resiste alla tentazione di sfilare il cappuccio anche se la curiosità di sbirciare è sempre maggiore; di giorno tormenta il principe con qualche canzone e battuta sciocca. A volte vorrebbe dirgli la verità su Chenzira, ma come potrebbe crederle quando lui è il suo maestro e lei una spia sotto copertura? No, per il momento deve limitarsi a osservare, almeno fino a quando non scoverà una prova per incastrare gli Erranti e dimostrare la loro colpevolezza.
Una notte, durante una delle sue solite perlustrazioni, si imbatte in Maissa. Non ci sarebbe nulla di strano, considerato che vive lì e che si vedono tutti i giorni. Peccato che la sua ancella si trovi nella torretta centrale, quella cui ha libero accesso solo la casata regnante, e che stia bisticciando con Kemala.
Evianne si acquatta dietro una statua, troppo lontana per sentire, cerca di interpretare l'enfasi con cui le due donne gesticolano – Kemala soprattutto – come se stessero per esplodere in un diverbio. C'è una confidenza solida tra di loro, assomiglia a un legame antico che si è arrugginito con il tempo per colpa di troppe questioni irrisolte.
Evianne sbuffa: ma che le passa per la testa? Adesso si impiccia anche dei pettegolezzi da comare come non faceva nemmeno Mildri a Fontebella? Decide di girare i tacchi prima di venire sorpresa a sbirciare una scena che non la riguarda, ma al primo passo un muro di rovi si innalza davanti a lei e le blocca la strada.
«Maissa?»
La sua ancella la fissa con gli occhi pieni di pietà, come unico suono emette un soffio che ricorda un singhiozzo soffocato.
Evianne si sente azzannare dalla rabbia e dal bisogno di difenderla quando si accorge che sulla guancia risalta lo stampo lasciato da uno schiaffo a cinque dita. «È stata Kemala? Ho visto che litigavate. Ti ha fatto del male?» Poi realizza: «Aspetta, questo muro di rovi lo hai evocato tu, non lei. Tu... Un attimo fa eri nella torretta centrale. Tu non sei una semplice ancella. Appartieni alla casata regnante. Sei parente del principe e di Kemala».
Maissa si copre la bocca con le mani, gli zigomi rigati da nastri di lacrime che scorrono fino al mento e da lì gocciolano sulla collana di perle che le illumina il petto e getta fasci di luce su un volto familiare.
Evianne si dà della sciocca. Come ha fatto a non notare la somiglianza fisica in tutti i giorni che hanno trascorso insieme? «Sorelle. Kemala è tua sorella. Perché stavate litigando?»
A occhi sbarrati Maissa la spintona verso la sua camera nella seconda torretta, lo fa con gesti che parlano, le dicono di scappare, subito e in fretta, perché il rintocco della mezzanotte sveglierà qualcosa di pericoloso, qualcosa che si annida nel cuore del palazzo.
«Aspetta!» Evianne si arpiona all'elsa di una statua per opporre resistenza. «Non posso andare a dormire.»
Lo sguardo dell'ancella è piombo.
«Non vuoi che gironzoli stanotte?»
Maissa annuisce e continua a spingerla via. Non c'è nulla che Evianne possa dire per convincerla, ma fa comunque un tentativo, incespica nelle parole. «Ascolta, non posso andare a letto. Stanno cercando di uccidere il principe e solo io posso salvarlo.»
Maissa incurva le sopracciglia nere come a dirle che è una stupidaggine.
«È vero, non me lo sono inventata. Gli sto dando l'antidoto da due settimane. Se non lo raggiungo anche stanotte, morirà.»
Un ventaglio di rovi si frappone tra i loro corpi ed Evianne si sente sbalzare indietro da una folata potentissima che la scaglia di schiena contro una superficie compatta.
«Maissa!» Per l'impatto la voce esce strozzata, un filo di fiato che l'ancella ignora. Ha evocato la magia degli Spilli, l'ha spinta contro l'armadio della camera da letto e adesso sta per chiudere la porta, per agganciarla da fuori con un chiavistello.
«Maissa! Fermati!» Troppo tardi. Per Evianne è inutile avvinghiarsi alla maniglia, strattonare, picchiare le nocche sul legno massiccio. «Maissa! Aprimi subito! Maissa!»
Da sotto la soglia si infilano spine e boccioli di rosa. Maissa si è appellata a tutta la sua magia e ha sbarrato la porta, vuole impedirle a tutti i costi di lasciare la stanza, ma perché? Non ha importanza adesso. Il principe. Se non riuscirà a somministrargli l'antidoto, Chenzira avrà vinto. No, lei non resterà impotente a guardare mentre una vita viene buttata nell'Aralla.
«Evoco il potere della dea Rasa, alla sua massima potenza.» Sciami di rugiada escono dai polpastrelli, affilati come spade. Con il vigore di un vento d'acciaio sminuzzano la porta, trucidano a una a una le spire di rovi che ostruiscono il passaggio.
Evianne ha sprigionato in un solo colpo tutta la magia che la dea le ha donato, ha solidificato la rugiada, l'ha trasformata in un'arma potentissima e adesso si sente prosciugata, i passi leggeri, l'impressione di non avere più peso. Un senso di mollezza e torpore affloscia le ginocchia, mentre scende le scale per arrivare al passaggio segreto. Non ha il controllo della situazione, non come le altre notti, le sembra di camminare a tentoni, di infilarsi in un errore.
Si ferma solo quando qualcuno la strattona da dietro, muscoli forti contro i quali non può lottare. Una mano preme sulla bocca prima di darle il tempo di gridare. Inutile evocare la dea Rasa, inutile scalciare. Catene di fuoco stritolano i fianchi senza bruciarla, qualcosa di affilato – un ago – si ficca con violenza nella base del collo. È una frazione di secondo. Il corridoio, con i suoi archi e i soffitti intagliati, inizia a ruotare all'impazzata, il mondo si rovescia e il cielo diventa una terra che la divora. Come ultimo ricordo, Evianne vede il pavimento di marmo che le preme sul volto e il ghigno di Chenzira, illuminato dal riverbero di una fiaccola rossa.
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