16. Un invito a cena
Evianne si rigira il fiore d'arancio tra le dita per almeno un'ora. Rilascia il profumo più intenso che abbia mai respirato, un aroma che nell'arco di pochi minuti si diffonde nella camera da letto e impregna il tulle attorno al baldacchino e la carta da parati a losanghe azzurre. Annusarlo le dona un senso di rilassamento, ma l'effetto benefico prodotto da quel minuscolo pistillo è effimero, basta il pensiero del principe a dissolverlo. Appena lo vedrà gli donerà il fiore per attirarsi le sue simpatie, senza sapere come verrà interpretato quel gesto da un uomo che non la conosce. Le darà della sfacciata? Intuirà che in cambio spera di ottenere un favore e di scoprirgli il volto? Scariche di domande insistenti continuano a picchiettarle in testa, battono a un ritmo fastidioso, a una cadenza martellante che aumenta quando Maissa la raggiunge e le consegna un biglietto firmato da Chenzira.
«Un invito a cena» legge sul foglietto. «Per organizzare il prossimo duello.»
Perfetto, sperava di avere tempo, di non dover affrontare subito il principe con quello sciocco fiore d'arancio, e invece Chenzira ha smosso la partita per lei, l'ha costretta a scendere in campo aperto.
Solo dopo aver raggiunto la mensa comune del palazzo si accorge di avere equivocato, perché all'orizzonte, seduto sulle panche che affiancano una tavolata imbandita per due, non c'è nessun tappeto vivente, solo Chenzira che la saluta con un cenno.
«Il principe non cena mai con chi non appartiene alla casata. Spero non ti spiaccia la sua assenza.»
Evianne si affretta a nascondere il fiore nella tracolla e a rimuovere un velo di imbarazzo che imporpora le guance. «No, certo che no. Io? Non mi aspettavo di certo che ci sarebbe stato.»
«Bene» ridacchia Chenzira. Con un gesto della mano la invita ad accomodarsi. «E mi auguro non ti spiaccia nemmeno che abbia attardato tanto la nostra cena. Non ci tenevo a ritrovarmi circondato da orecchie indiscrete.»
Le basta una veloce occhiata alle pietanze già servite per sentire l'acquolina salire in bocca. Ci sono pasticcini di zucca dalla cresta dorata, intingoli unti e lucenti, coppe di verdure e riso speziato. «Meglio se siamo solo noi. Meno cibo da dividere.»
Chenzira sventola la chioma ramata in una risata. Da un'anfora a doppio manico le riempie un bicchiere di vino di datteri. «Perfetto. Allora mangiamo.»
Con il senno di poi Evianne non avrebbe dovuto allarmarsi per una semplice cena. Da quando è arrivata a Sabbiafine non si è mai sentita a suo agio come in presenza di Chenzira, forse perché la sua aura magica rilascia un'atmosfera rilassante che le ricorda uno stagno baciato dal sole. Davanti a lui mangia di buon gusto, ascolta con piacere mentre le parla delle guardie di Sabbiafine e dell'ordine che re Tavare ha dato per rinforzare le guarnigioni locali di modo che i Secondi non acquistino troppo potere.
«Ma ora che siamo solo noi è un mio dovere avvertirti» aggiunge, mentre si rigira un calice di vino tra le dita. «Purtroppo per te, la Bolla di Rovi non è accogliente con gli stranieri. Vengono guardati con sospetto e al primo sgarro accusati di tradimento. Chi non finisce con il cappio al collo viene ridotto in schiavitù dopo un processo falso o costretto ad arruolarsi nell'esercito.»
Evianne arriccia le sopracciglia, maledice il vino di datteri che le sta dando alla testa, rende i discorsi di Chenzira confusi, perché qualcosa non le torna, non quando a sussurrare quella confessione è un soldato con gli occhi di drago, il tratto somatico che accomuna i discendenti di Liesna. «Tu provieni dalla Bolla del Fuoco. Anche se sei uno straniero, sei diventato la guardia del principe.»
Chenzira le sorride, tra sé e sé sembra già avere previsto l'arrivo di quella domanda. «La mia è una storia particolare. Sono stato costretto a lasciare casa che ero un ragazzino, dovevo trovarmi un'attività con cui sopravvivere. Per fortuna sono sempre stato bravo con la spada, ho mani veloci e una mente sveglia, tutte doti che mi hanno permesso di fare carriera da me. Piccoli furti, omicidi, quel che pagava meglio.»
Un boccone di riso le resta incastrato in gola. Non riesce a crederci. Il soldato seduto davanti a lei modula ogni frase con innocenza, ma ciò che dice è spietato, tratteggia il ritratto di un tagliagole e non del galantuomo che credeva di avere conosciuto. È stata sciocca e avventata. Non avrebbe dovuto fidarsi di lui così in fretta, lasciarsi incantare dalla sua aura pacifica, perché lo stagno che le ricorda potrà anche essere caldo e pacato, ma chissà quale insidia nasconde sotto la sua superficie piatta.
«Un giorno mi è andata male» sospira Chenzira, mentre continua a rievocare il passato. «Dovevo saccheggiare una tomba nel deserto di Rovi, ma a commissione compiuta i miei clienti si sono rifiutati di pagarmi e mi hanno rinchiuso in una bara di roccia rovente, mi hanno legato le mani e mi hanno lasciato lì a morire.»
Prende un sorso di vino come se il liquido potesse scacciare il ricordo della sete che lo ha tormentato in quei giorni di prigionia. Anche Evianne beve perché al solo pensiero di finire murata viva si sente soffocare. «Come ne sei uscito vivo se avevi le mani legate?»
«Non di certo per conto mio!» ride Chenzira. «Pensavo di delirare quando sentii il suono di una lira. Non sapevo da quanti giorni ero sottoterra e l'aria stava ormai finendo, ma non era un'illusione, era reale.»
«Bulbun.» Evianne ricorda la lira con cui il canterino l'ha accolta nel deserto e inizia a dare un senso al triangolo che tatua le guance dei tre Erranti.
Il sorriso di Chenzira si riempie di un affetto incommensurabile. «Sì, era lui. Bulbun degli Spilli. Vagava con una nomade che aveva appena salvato da alcuni venditori di schiavi.» Nandi. «Ci ha mostrato il suo volto nobile come nulla fosse, con tanto di canini dorati. Per noi ha rotto sin dal principio almeno dieci regole della casata.»
«E non è stato punito?» Evianne non può dimenticare la reazione disperata del principe quando in biblioteca ha provato a togliergli il cappuccio. Era come se il suo semplice tocco potesse ferirlo più di una lama infuocata.
Chenzira corruccia le labbra e si fa pensieroso. «Sì, re Tavare ci ha provato. Come ha saputo di noi, Bulbun è stato privato dei suoi titoli di famiglia e da allora gli è vietato partecipare alle riunioni. I suoi cugini lo chiamano il rinnegato.»
«Però è vivo, insomma credevo che le leggi della casata fossero più severe.»
«Tutto merito della regina Adama.» La madre del principe. «Ha pregato perché venissimo risparmiati e perché da allora godessimo di ogni tutela. È grazie a lei se Bulbun a palazzo viene sopportato. Il re ha sempre amato sua moglie e non è riuscito a negarle un favore. Quando è morta si è portata via l'ultima traccia di umanità che gli restava.»
Evianne ricorda il giorno in cui la notizia del suo assassinio è arrivata a Fontebella. Gli araldi parlavano di un omicidio durante una sfilata della casata, due cittadini sarebbero saltati fuori all'improvviso e avrebbero ucciso la regina sul colpo, a suon di pugnalate.
Davanti a lei Chenzira trangugia un ulteriore sorso di vino. «Ero tra la folla con Bulbun e Nandi. Grazie alla mia spada sono riuscito a salvare il principe e alcuni bambini del corteo quando la folla li ha travolti, ma la prontezza con cui hanno colpito la regina mi ha sorpreso, per lei sono arrivato troppo tardi.»
Evianne smette di mangiare e rivive in silenzio le tappe della narrazione di cui Chenzira l'ha resa partecipe, una storia che trabocca di odio e sofferenza. Si concentra sui legami che il tempo ha generato tra quegli strani nemici con cui è costretta a convivere. Mentre pensa al loro passato, la parola nemici viene cancellata da un termine più adatto: umani. Come lei, Snorre e Mildri, fatti di perdite, ferite e dolore, rafforzati dall'amore per i propri cari e dalla speranza.
«Hai salvato il principe. Per questo sei diventato la sua guardia del corpo?»
«Re Tavare mi ha concesso la sua gratitudine e fiducia. Da allora posso vedere il principe Jaja senza cappuccio, posso parlargli alla pari e girare a Reggia Blu nel modo che preferisco però...» Il cuore di Evianne si ferma, resta in sospeso in attesa di una nuova rivelazione. Chenzira la guarda con la bocca atteggiata a un sogghigno. «Parliamo di te adesso! Mi devi una storia, non credi?»
Un brivido si diffonde lungo le vertebre, le percorre a una a una. «Ho già detto al principe Jaja quello che c'è da sapere. Provengo da Dolce Acqua, sono fedele alla regina Adama e adesso a lui, suo figlio.»
Chenzira beve piano e la studia. Sembra che assieme al vino di datteri voglia sorseggiare anche lei, tastare il suo aspetto, rubare i pensieri più intimi per vedere quali impurità si nascondono dietro l'apparenza, quali segreti e menzogne. A esame finito, appoggia il bicchiere sul tavolo. «Se fossi pericolosa, lo avrei già scoperto. Saprei distinguere una goccia di rugiada a miglia di distanza.»
Rugiada. Il nome della sua Bolla. Evianne sente il cuore battere all'impazzata ma si costringe a restare calma, perché deve essere un modo di dire o una coincidenza. Il gelo le cala sulle spalle, diventa sempre più fitto sotto lo sguardo indagatore di Chenzira che la fissa come se volesse disseppellire ogni verità, ogni più intimo mistero. È un gioco di analisi spietato che dura troppo a lungo, fino a quando il soldato non si versa un nuovo bicchiere di vino.
«Abbi pazienza con il principe» le dice con una cordialità eccessiva. «È cresciuto sui libri, circondato da pochi parenti scelti. Non è abituato ad aprirsi con una straniera, ma sono sicuro che con il tempo diventerete buoni amici e da ciò tutti noi trarremo un enorme vantaggio.»
«Non credo che il principe mi lascerà restare. Non gli piaccio.»
Chenzira ride, un luccichio scaltro illumina le iridi di ambra. «Tra due giorni ci sarà il duello che avete lasciato in sospeso. Lo scopriremo allora se gli piaci oppure no.»
*
Due giorni. Il duello sarà tra due giorni. Evianne si asserraglia in stanza con l'adrenalina a mille. Due giorni sono un intervallo di tempo troppo breve per prepararsi. Se non riuscirà a sconfiggere il principe e a diventare una guardia, verrà cacciata da Fortezza Diaspro e allora come farà a concludere la missione? Si dà della sciocca. Dal suo arrivo a destinazione non ha fatto altro che distrarsi. Avrebbe dovuto approfittare della malattia che lo ha colpito per sfilargli il cappuccio anziché preoccuparsi per lui, ma adesso basta, è arrivato il momento di procedere, per il bene di Mildri e di Fontebella.
Appena le ultime luci di palazzo si spengono, sguscia fuori dalla stanza e rivolta i cunicoli da cima a fondo. Fortezza Diaspro ha la struttura di un fiore. I quartieri del principe occupano la torretta centrale e sono il pistillo. Le altre torrette formano la corolla, ma solo i primi quattro petali sono accessibili agli stranieri. Gli altri sei sono divisi da una spaccatura di vuoto che li rende irraggiungibili. Come si può colmare quella zona d'aria e arrivare dall'altra parte? Sarebbe da folli improvvisarsi acrobati gettando una fune sul lato opposto e tentare di camminarci sopra in equilibrio. E le ali... mai come ora si detesta per non averle conquistate.
Il basamento è l'unica opzione che le resta. Evianne spera che il costruttore dell'edificio abbia predisposto una porticina di sicurezza per le emergenze. Si butta a rotta di collo verso il pianoterra, ma a malincuore scopre che non esistono archi o finestre per uscire dalla prima torretta e raggiungere la zona di vuoto.
Senza più sapere dove sbattere la testa, scalcia una monetina che qualche ospite deve avere perso di tasca durante una passeggiata a palazzo. La faccia con lo stemma dei rovi luccica, illuminata da un riverbero che proviene da uno stanzino simile a un ripostiglio delle scope. È notte fonda ormai, perché qualcuno è ancora sveglio, a girovagare nei piani bassi della Fortezza? La curiosità desta un campanello che tintinna, le dice che una sbirciata male non farà. In punta di piedi si incammina verso il ripostiglio, sobbalza quando dall'uscio filtra un sussurro.
«Gli ho appena somministrato un'altra dose. Stanotte dovrebbe crollare.»
Chenzira. È lui l'uomo che si è infilato in quello stanzino. Ma che cosa ci fa là dentro? E con chi sta parlando? La curiosità ormai non è più solo un tintinnio, ma un concerto assordante che la spinge a nascondersi dietro una statua di basalto.
La porta del ripostiglio è socchiusa, uno spiraglio le permette di vedere Chenzira girato di profilo.
«Il veleno lo ucciderà in modo graduale. Penseranno tutti a una malattia.»
Evianne si tappa la bocca con la mano, le parole ronzano a sciame nelle orecchie, le lasciano addosso un terribile sospetto. Solo allora vede che Chenzira non sta parlando con un'altra persona, ma con un rotolo di carta sospeso a mezz'aria, un papiro magico come la rosa che le ha regalato il Vecchio Saggio. Una mano invisibile verga sul foglio scritte formate da scintille e tratteggi di fuoco, in una grafia troppo piccola per essere letta da lontano.
Chenzira risponde con un cenno affermativo. «Non preoccuparti. Il principe non sospetta nulla.» Nuove scritte imbrattano la carta. «Non ha capito che stanotte morirà.»
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