13. Imporsi un ruolo
Evianne non sa quanto a lungo resti incastrata tra la veglia e il sonno. Sogna Fontebella, gli steli di lavanda selvatica dove è cresciuta; respira il pane all'aneto che sua madre sfornava nella casa di betulla. Poi una macchia fagocita il passato, il fiore viola si conficca nei petti dei suoi amati e li falcia a colpi di sciabola.
"Per favore no. Basta! Basta!" La visione svanisce, e al posto del profumo di lavanda vi è un aroma intenso di rosa canina.
Una voce tagliente si accosta all'orecchio. «Il principe è mio, straniera. Tienilo a mente.»
È allora che ricorda. Si trova a Sabbiafine, in terra nemica, e per un impeto di follia ha quasi ucciso il principe Jaja, proprio lei cui sua madre ha dato un nome che venera la vita. Gli dèi la puniranno per la sua empietà. Le hanno concesso un favore permettendole di incontrare così facilmente l'obiettivo della missione, ma lei ha rovinato tutto, e se quegli stranieri scopriranno chi è... Un brivido di orrore si diffonde fino alla punta delle dita: sarà la fine della tregua, la guerra tra le due Bolle.
Si sveglia con ancora il terrore addosso, gli occhi che necessitano di un minuto abbondante per adattarsi alla luce. Quando la vista si assesta, mette a fuoco un letto a baldacchino in cui è stesa, protetto da un velo di tulle e da catenelle di pietre preziose. Bagliori rosati entrano da una finestra ad arco decorata da fiori di vetro, gettano un velo delicato sulla toletta all'angolo, sui rivestimenti delle pareti a losanghe azzurre e su una donna dal caschetto d'argento acciambellata sopra una sedia a dondolo.
Nandi si accorge che è sveglia e le sbadiglia in faccia. «Alla buonora, ragazzina! Hai delirato per cinque giorni buoni. Il principe Jaja stava iniziando a preoccuparsi per la tua salute. Pensava fossi schiattata. Purtroppo per me non è così.»
Evianne sente una pioggia di emozioni attraversarla, sono tutte diverse e la lasciano confusa. Il principe Jaja è vivo, per fortuna l'incanto dello specchio non era troppo dannoso, però... «Perché avrebbe dovuto preoccuparsi per me, quando mi ha accusata di avergli rubato il cavallo?»
Piega i gomiti per tirarsi seduta, ma il materasso è troppo molle, lei troppo debole e così un attimo dopo riaffonda nei tre strati di cuscini dove l'hanno messa a riposare.
«Provieni da Dolce Acqua» le spiega la donna. «È la terra di sua madre e non vuole disonorarla. Pensa di doverti trattare con il massimo degli onori, io invece...» Il letto cigola quando si butta sul bordo del baldacchino. «Per tua sfortuna io non mi lascio incantare dai sentimentalismi. Chi sei e da dove vieni?»
Una serpentina di sudore freddo risale lungo le vertebre. Evianne si sforza di esibire il suo miglior sorriso. «Chanti di Dolce Acqua!»
Nandi le scoppia a ridere in faccia. «Sei sfortunata, sai? Sono bravissima a svelare gli inganni. Allora... perché stai mentendo?»
Un nodo inizia a fare su e giù in gola, mette a dura prova la stabilità della voce. «Perché dovrei mentire?»
Nandi le rivolge il ghigno di una predatrice che ha appena trovato la vittima perfetta. Con uno scatto brutale le prende la mano destra. «Scoprirò chi sei, ragazzina. So essere molto convincente.» Senza alcun preavviso spinge l'indice indietro, verso il dorso, con tutta l'intenzione di spaccarle il dito in due metà. «Allora? Chi sei veramente?» Aumenta la pressione e piega la prima falange in una curva innaturale.
Le lacrime le riempiono gli occhi, una scarica di dolore sbatte contro il palato, ma non piangerà, si rifiuta di cedere di fronte alla sua aguzzina. «Chanti. Dolce Acqua.»
«Davvero poco credibile» ridacchia Nandi. «Hai parlato nel sonno. Qualcosa a proposito di... ah, non ricordo, me lo dirai tu. Sei una grande chiacchierona!»
Dalla camicia attillata che le mette in bella vista il seno, estrae un ago. Non le dà il tempo di intuire la sua prossima mossa, né di prepararsi ad affrontare il dolore. Di punto in bianco conficca l'ago sotto l'unghia e preme in profondità.
Evianne geme a labbra serrate. No, non griderà, non supplicherà, nemmeno ora che scariche e fitte accendono ogni terminazione nervosa, nemmeno ora che il cuore pompa con troppa intensità.
«Sei un osso duro» ridacchia Nandi. «Purtroppo per te lo sono anche io. Dove hai preso lo specchio?»
«Quale specchio?»
Risposta sbagliata. L'ago va ancora più a fondo e questa volta a Evianne sfugge un grido che soffoca subito sigillando le labbra. Prova a dimenarsi per liberare la mano dalla stretta di Nandi ma è ancora troppo debole.
E quella donna, quella donna non è disposta a darle tregua. «Dove hai nascosto lo specchio?» Un'altra pressione dell'ago, un'altra scarica di dolore.
Le lacrime rompono le dighe delle ciglia e scorrono libere sulle guance. «Non l'ho nascosto. Non posso nascondere qualcosa che non esiste e che vi siete inventata voi.»
Spera che basti, spera di essere convincente. Se anche lo cercherà nella tracolla, fallirà, perché la magia della Dama di Sabbia si può usare solo una volta e così il suo oggetto incantato è svanito nel nulla subito dopo aver paralizzato il principe.
Nandi non demorde. «So essere ancora più convincente.» Sfila altri aghi dalla divisa di pelle striminzita e ne conficca un secondo nel pollice, tenta con un terzo, si ferma. Qualcuno sta aprendo la porta senza essersi annunciato.
Con gli occhi appannati dalle lacrime Evianne vede un'ombra di stoffa rompere il cono di luce che si proietta a terra, distingue una sagoma camuffata da strati di tessuto nero sul quale risaltano i bottoni di madreperla e i mille aghi d'argento che decorano il cappuccio. Il principe.
Se durante il loro duello le avessero detto che sarebbe stata felice di vederlo, non ci avrebbe mai creduto! In quel momento non può far altro che confidare nel suo aiuto.
Sempre che non si lasci incantare da Nandi che gli sorride con dolcezza e nasconde gli aghi nella manica della camicia. «Altezza, come vedete, Chanti di Dolce Acqua si è appena svegliata. Stavo proprio per venirvi a chiamare.»
Che grandissima bugiarda! Si finge una guaritrice attenta e premurosa quando fino a un attimo prima voleva impallinarla come un cuscinetto da spilli! Il modo in cui le parla le fa saltellare ogni volta il cuore nel petto, pronuncia il suo nome – Chanti di Dolce Acqua – con il tono che si impiega per raccontare una barzelletta scontata.
È difficile capire cosa ne pensi il principe che ha sempre il volto coperto. Si limita a inclinare di un soffio la testa incappucciata come se fosse perplesso. «Mi sono affrettato per conto mio. Credo di averla sentita gridare.»
«Oh, sì, i soliti incubi!» canticchia Nandi. «Garantisco che sta molto meglio, ma forse è preferibile che resti a farle compagnia fino a domani, giusto per terminare il lavoro che ho iniziato.»
Evianne si sente sbiancare quando la vede scrocchiare le dita, un gesto in codice che le fa capire che cosa intende per "terminare il lavoro". Vuole torturarla, spremerla ossicino dopo ossicino fino a farle confessare la verità. Gli occhi si riempiono di una supplica, scongiurano il principe di non lasciarla sola con quella strega e le sue pessime maniere.
E forse lui riesce a intuire qualcosa perché come se avesse interpretato il suo pensiero in un velocissimo collegamento mentale apre la porta e congeda Nandi. «Ti ringrazio per il tuo aiuto, ma la straniera adesso è sveglia e ho bisogno di confrontarmi con lei. Torna pure al villaggio da Bulbun e Chenzira. Informali che la nostra ospite si è appena svegliata.»
Una macchia di avversione ombreggia il volto bruno della donna. «E voi intendete restare da solo con lei? Dopo quello che vi ha fatto durante il vostro duello?»
Il principe intreccia le braccia davanti al petto. «Punto primo sono sicuro che si sia trattato di un malinteso. Punto secondo decido io. Punto terzo... credi davvero che dovrei avere paura di un mucchietto tutto pelle e ossa?»
L'espressione di Nandi suggerisce che non bisogna fidarsi di chi non si conosce, soprattutto se si è di stirpe reale e si rischia di incappare in una congiura, ma alla fine la donna decide di rassegnarsi e con il passo leggero di un felino esce dalla stanza.
Quanto a Evianne non sa che pensare. È la seconda volta in cui quell'uomo le dà del mucchietto di pelle e ossa. Dovrebbe essergli grata per avere impedito a Chenzira di buttarla in gattabuia, dovrebbe scusarsi perché adesso che vede i suoi guanti, adesso che è libera dal filtro della febbre e delle allucinazioni, sa con certezza di avere solo immaginato il ricamo del fiore viola, però non riesce a trattenersi. Il modo in cui troneggia sopra di lei, l'alterigia con cui incrocia le braccia sul petto, quel cenno che lo porta a inclinare il capo come se la ritenesse un disastro le fanno salire il sangue alla testa.
Per la rabbia strizza le lenzuola, le riduce a una ragnatela di pieghe che le copre il petto. Solo allora si accorge che i vestiti che indossa non le appartengono, ma sono stati sostituiti con una tunica da notte di seta bianca. L'idea che qualcuno l'abbia toccata la fa arrossire. «Voi mi avete spogliata?»
Se il principe non fosse incappucciato in un sacco di stoffa, alzerebbe di sicuro un sopracciglio in segno di scherno. «Certo» sbuffa, mentre si accomoda sul dondolo occupato poco prima da Nandi. «Sono il principe Jaja di Spinarupe, ho tantissime ancelle, eppure mi diverto a svestire delle sconosciute malconce in prima persona. Pensate mai prima di parlare?»
Il cervello di Evianne diventa una tavola bianca. Quel principe le piace sempre meno, lui che non conosce la cortesia e il rispetto, lui che continua a trattarla con superiorità.
Il manichino impagliato sbuffa e si dondola sulla seggiola. «Rettifico» borbotta. «Voi non sapete pensare. Una persona nel pieno delle sue facoltà mentali non camminerebbe a piedi nudi nel deserto.»
Lo ha fatto solo per una questione di necessità, solo per via delle scarpette di cristallo che si sono frantumate! Evianne gonfia le guance per trattenere un urlo. Devono essere ancora bruciacchiate perché la pelle tira come se avesse perso la sua elasticità. «È tutta colpa della vostra sabbia.»
«Preferisco incolpare la vostra stoltezza e scarsa lungimiranza.»
«Dovreste ringraziarle invece. Se fossi stata nel pieno delle mie forze, vi avrei sconfitto in un secondo e voi avreste fatto una pessima figura davanti alla vostra gente.»
L'accusa riesce a zittirlo. Poi, dopo un minuto di silenzio, avviene l'incredibile. Uno sbuffo confuso filtra dal cappuccio di spilli, un rumore ovattato seguito da un altro e poi da un altro ancora, fino a creare una piccola catena sonora.
Evianne sbatte le ciglia. «State forse ridendo di me?»
La risata esplode, diventa cristallina, sembra il suono liberatorio prodotto da una persona che non si diverte da una vita. Evianne è brava a distinguere il significato delle risate, sono il suo pane quotidiano assieme ai sorrisi e alla felicità. Così, anche se detesta quell'involtino di stoffa – tradotto, il principe – sente un moto di fierezza bussare alla porta del cuore perché capisce che aveva bisogno di sentirsi leggero. Lo guarda per un lungo istante, studia il cappuccio che gli copre il viso, gli aghi che sotto i raggi del tramonto brillano come tante lucciole addormentate su un monte scuro.
«È fastidioso» confessa. Lo dice perché lo pensa, senza doppi fini. «Capisco che non possiate mostrarmi il volto, ma parlare con una persona senza nemmeno trovare i suoi occhi è difficile. Perché li abbassate sempre e non vi lasciate guardare?»
La risata si interrompe. Il principe balza in piedi colto da un tremito. Con passi scomposti cerca rifugio vicino alla finestra e lascia che tra di loro vi sia una distanza di sicurezza. Sta facendo del suo meglio per evitare che i loro occhi si incontrino. Da quando ha varcato la soglia li ha posati su ogni particolare di quella stanza eccetto lei.
«Perché dovrei guardarvi?» le chiede. «Siete una straniera, noi non siamo in confidenza. Non vi devo nulla.»
«In confidenza no, ma stavamo parlando.»
In modo cordiale e scherzoso, per quanto quell'essere incappucciato sia il nemico. Evianne è brava a entrare in sintonia con le persone, è il motivo per cui il consigliere Ordon l'ha scelta per la missione, eppure quel principe non si fida. Studia l'aura che lo circonda e si chiede come i suoi sudditi possano restare indifferenti. È travolgente, un'onda di lava che ti toglie il respiro, ma non fa male, è un calore accomodante che penetra fino alle ossa e attrae. Non ha mai sentito nulla di simile, soprattutto perché l'intensità di quell'atmosfera magica fa a pugni con la freddezza del suo proprietario.
«Parliamo allora» acconsente il principe. «Astro, il mio cavallo. Era ferito, ma appena lo avete toccato è guarito. Come avete fatto?»
Evianne si maledice perché adesso non può dirgli che ci è riuscita grazie alla rugiada magica della dea Rasa, si farebbe scoprire subito. «Penso vi stiate sbagliando.»
«Io dico di no. Lo ha morso un serpente letale ed è vivo solo grazie al vostro intervento. Lo avete detto voi.»
«Ma come? Non ero stata io ad avvelenarlo? Non è per questo che avete voluto sfidarmi a duello?»
Il principe incrocia le braccia all'altezza del petto, unico punto di luce la doppia fila di bottoni madreperlacei. La guarda adesso, la studia alla ricerca di una risposta sincera, una che da lei non potrà mai ottenere. «Perché volete diventare uno dei miei soldati? Siete tutta ossa e non eccellete nell'arte del combattimento.»
«So combattere abbastanza bene da trasformarvi in un vero tappeto, mio principe!»
Per un attimo giurerebbe di averlo sentito sghignazzare, ma non ha tempo per celebrare quella piccola vittoria. Non basta nascondersi dietro l'arma dell'ironia che ha imparato da Mildri, le serve una storia forte ed efficace per giustificare la sua presenza nella Bolla e fare in modo che il principe si fidi di lei. È scorretto e crudele, ma Evianne sa benissimo quale nome deve usare come leva per far breccia nelle sue resistenze.
«Vostra madre. La mia famiglia a Dolce Acqua era fedele alla regina Adama. Qualcuno di noi doveva venire qui per onorare la sua nuova casata. Io sono la più piccola di sei fratelli. Dolce Acqua non aveva nulla da offrire a una come me. Così appena ho compiuto sedici anni ho deciso di raggiungervi.»
L'amo è stato lanciato e l'esca ha abboccato. Il principe cancella i passi che li dividono e si riaccomoda sulla sedia a dondolo a braccia conserte. «La vostra tracolla è realizzata con seta, i bottoni sono d'oro» osserva indicando la borsetta che qualcuno ha legato alla gamba del baldacchino. «Non siete povera. Avreste potuto ottenere la dote per un buon matrimonio.»
«E se io non volessi diventare una noiosissima donna di famiglia? Se volessi diventare qualcuno di diverso? Nessuno dovrebbe scegliere per un altro o imporsi un ruolo solo perché lo vorrebbe una tradizione, non credete?»
Il principe si piega in avanti come se sulle spalle gli avessero caricato all'improvviso un peso insopportabile, un macigno che comprime i polmoni e toglie l'aria. «Non so» sussurra. «Un tempo lo pensavo anch'io.» Si alza di scatto, spinto dalla necessità di andarsene fuori da lì, forse per liberarsi di quel cappuccio che non sembra molto comodo se hai difficoltà a respirare. «Siete venuta a Fortezza Diaspro per diventare una guardia della casata reale. Per amore del popolo di mia madre, vi darò fiducia. Avrete un nuovo duello quando sarete guarita, ma per il momento...» Con passo tremolante si avvicina alla porta, non le dà nemmeno il tempo di chiedergli se si senta bene. «Fino a che non sarete di nuovo in forze, sarete mia ospite. Non avete nulla da temere.»
*
Dopo che il principe se ne è andato, Evianne crolla sul materasso con un sospiro. Troppe novità nell'arco di pochi giorni, troppi eventi su cui riflettere. Nonostante le perplessità di Snorre ce l'ha fatta, è arrivata a destinazione e ha conosciuto il suo obiettivo. È diverso da come se lo era immaginato, si aspettava di imbattersi in un despota e invece il principe le ha perdonato di averlo quasi ucciso e le ha offerto ospitalità. Anche se è un soggetto brusco e scontroso, non sembra cattivo, non merita di venire raggirato. Evianne ha sempre creduto nell'onestà. I valori che la definiscono sono la gentilezza e l'allegria, ma in quella terra straniera ha paura di perdersi, di frantumarsi in tanti pezzi, un caleidoscopio in cui si proiettano versioni di sé in cui non si è mai identificata. Forse ha ragione il Vecchio Saggio: iniziamo a conoscerci davvero solo quando la vita ci mette alla prova, perché è nelle avversità che troviamo la nostra strada.
Si guarda le mani. Sono le stesse che a breve sfileranno il cappuccio del principe e che stringeranno un indizio sul fiore viola, questa volta sul serio, non per seguire l'inganno dovuto a un'allucinazione. Non farà del male a nessuno, giura a sé stessa, sarà discreta e attenta a non ferire né il principe né gli abitanti di Fortezza Diaspro, anche se non sa da che parte iniziare. Ci penserà domani. Domani a mente fredda escogiterà un piano per concludere entrambe le missioni: quella che le ha dato il consigliere Ordon e la sua.
*
È notte fonda quando Shadee smette di rispondere alla corrispondenza e si ritira nei suoi quartieri. Dal suo arrivo a Fortezza Diaspro l'insonnia lo perseguita. Sta sempre male – capogiri, attacchi d'ansia, palpitazioni a mille – e crede di meritarlo perché per quanto provi non è mai all'altezza di Jaja e della casata. I giorni come governatore di Sabbiafine sono difficili, gli trasmettono la strana sensazione di sparire, di consumarsi all'interno della grande menzogna che sta recitando. Ha sempre definito sé stesso in relazione a Jaja, il suo carattere, i suoi interessi, il motivo per cui valga la pena svegliarsi. La casata prima di tutto. E allora perché adesso che è lui gli sembra di sbagliare tutto? Non sa come far rientrare gli ammanchi, è odiato dai Secondi, guardato con sospetto dai Primi. Ovunque interviene per risolvere un guaio, ne crea altri cento.
Come con la storia dell'oasi. Isedu dei Secondi e Firoze dei Chiomati continuano a rivendicarne il possesso, il primo come terreno abitabile per alcune famiglie locali, il secondo per il suo stabilimento tessile. A Shadee sembrava giusto tentare un sopralluogo prima di prendere una decisione, ma durante il viaggio ha perso il controllo del corpo, è stato derubato da un ladruncolo e non è riuscito a impedire che Astro finisse con la zampa nella tana di un serpente.
Shadee si toglie il cappuccio, lo butta sul letto un tempo di Jaja e si lava la faccia nella speranza di riprendersi. Se non fosse arrivata quella straniera, Astro sarebbe morto. Perché lui sa benissimo che lo ha salvato, anche se davanti a tutti ha negato. Lo sa perché sua madre proveniva da Dolce Acqua, il popolo che discende da Dagan.
"Lui ci ascolta, bambino mio. Anche il dio Zeme ama i suoi nipoti, ma Dagan ci ama più dell'immenso, ci dona sempre la magia."
Ha ragione Kemala, hanno ragione Nandi e Chenzira. La provenienza di quella straniera gli ha offuscato il buon senso. Quando l'ha vista pronta al duello, ferita e barcollante, ha sentito il bisogno di intervenire – non come doppio di Jaja, non come marionetta di suo padre, non come figlio baciato dalla maledizione di Luva – soltanto come Shadee. Si è offerto di sfidarla perché sapeva che Chenzira l'avrebbe distrutta al primo attacco, e lui non voleva che il popolo di sua madre venisse disonorato. Non ha potuto proteggere la regina dalla furia omicida del popolo, ma quella ragazzina... è forse una colpa un gesto di gentilezza? Sì, per uno Spillo che dovrebbe passare il suo tempo a decapitare dissidenti. Non si offre ospitalità a una sconosciuta senza un valido motivo, e così ha scelto la carta del duello, un terribile sbaglio, perché ha perso sul serio.
Divorato dalla vergogna srotola lo stuoino di vimini vicino agli zoccoli del letto di Jaja, quello che si rifiuta anche solo di sfiorare, e trattiene un'imprecazione rabbiosa tra i denti. Sconfitto da un mucchietto di ossa. Suo padre proverebbe vergogna, se sapesse!
Sta ancora imprecando contro sé stesso, quando Chenzira lo raggiunge e lo studia con un sopracciglio incurvato. «Non te l'hanno detto, Shadee? Un buon letto è un ottimo rimedio per il mal di schiena, funziona meglio del tuo scomodo stuoino. I troppi pensieri invece fanno venire le rughe.» Si accomoda al tavolo da tè nell'angolo della stanza. «Ibisco o carcadè?»
«Quello che ti pare» borbotta Shadee. L'umore quella sera è tetro e non ha voglia di troppe chiacchiere. Con uno sbuffo si siede davanti a lui. «Per caso hai notizie...»
Non riesce a pronunciare il nome di chi lo ha tradito solo per scansare un matrimonio scomodo. Gli avrebbe perdonato tutto, tranne di averlo abbandonato in un mondo che non comprende e che lo vuole divorare.
Pensare a suo fratello avvelena la bile e Chenzira lo sa. Rilancia l'appiglio di una nuova conversazione. «Tuo padre? È strano che non ti abbia ancora contattato per richiamarti a Spinarupe e fare rapporto.»
Con Jaja lo pretendeva. Un soggiorno a casa ogni tre mesi. All'epoca Shadee pensava fosse affetto, ora sa che era un modo per dimostrare al figlio maggiore chi stringeva lo scettro del potere. Shadee è fedele, con lui non c'è bisogno di giochi mentali o di inventarsi nuove strategie per controllarlo.
«Vedo che il re ti ha scritto» rilancia Chenzira. Grazie alla luce di una candela ha adocchiato una pila di lettere che Shadee ha dimenticato sul comodino e che vantano il sigillo di Spinarupe. «Sono tante. Perché non me ne hai parlato?»
«Lascia stare. Non ti riguarda. Sono cose che appartengono alla casata.» Scocciature, a dire il vero. Lamentele di suo padre che fatica a tenere quiete le proteste dei Secondi, ordini che gli vengono impartiti e che lui non sa come rispettare. Gli piacerebbe parlarne con Chenzira, è sempre stato bravo ad ascoltare, ma il re si è raccomandato la massima riservatezza.
Anche se lo sta tagliando fuori, il suo maestro non si offende e gli allunga una tazza di tè. «Che cosa vuoi fare con quella ragazza?»
Sapeva che prima o poi quella domanda sarebbe arrivata. Accoglierla a Fortezza Diaspro è stata una mossa azzardata, non c'è nessun ragionevole motivo per trattenerla, eppure quando è andato a trovarla nella sua stanza non è riuscito a cacciarla.
Chenzira gli rivolge un sorriso sornione. «Se ti serve una scusa, puoi sempre dire che ha provato a rubare il tuo cavallo e che ora ti deve un risarcimento.»
«Proviene da Dolce Acqua.» Come sua madre.
Chenzira soffia sulla tazza per raffreddare il tè. «Così dice.»
«Pensi che sia pericolosa?»
Chenzira riflette, beve qualche sorso di infuso, il tatuaggio del triangolo che si schiaccia sulla guancia quando alza gli zigomi in una smorfia. «Penso che qualunque essere umano abbia la potenzialità per essere pericoloso, soprattutto quando non te lo aspetti.»
Che razza di risposta è? Chenzira scuote la testa per dirgli di non pensarci. La luce della candela disegna un serpentello rossiccio tra i suoi capelli ramati. «Dormi, Shadee. La terrò d'occhio per te. Ci sto già lavorando, ma tu promettimi che adesso ti ficcherai subito in quel letto e che la smetterai di pensare.»
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