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La terrazza

Aprii gli occhi e in quello stesso istante un brivido incredibile attraversò il mio corpo. Corse più veloce della luce, diede fuoco ai miei sensi e mi lasciò senza fiato.

<<Oh, Jaydon.>>

Lo guardai per un attimo e poi tornai a osservare quello spettacolo.

L'oceano si stendeva immenso di fronte a noi fino ad una linea lontanissima che disegnava un confine immaginario tra cielo e orizzonte.

Il mio cielo, il mio orizzonte.

Mi guardai intorno per qualche secondo, fino a che non realizzai in che luogo ci trovassimo.

Una terrazza. Sì, sembra proprio una terrazza.

Potevo scorgere i tetti piatti di alcune case intorno a noi, più in basso. Se rivolgevo gli occhi a est, invece, una sorta di bosco nascondeva una serie di villette che si inseguivano e che con tutta probabilità terminavano la loro corsa proprio a ridosso dell'oceano.

<<È incredibile la vista da quassù. Ma dove... dove siamo?>>

Jaydon, sempre stringendo la mia mano, fece alcuni passi in avanti e raggiungemmo così il mio bordo della terrazza. Era basso quasi quanto uno scalino.

<<Devi fare attenzione. Potresti cadere sul tetto, lo sai?>> mi disse, mostrandomi il tetto rosso che scivolava verso il basso sotto i nostri occhi.

<<La vecchia scuola superiore di Portway. Non ricordo come si chiami. Non l'ho frequentata. Non internamente, almeno.>>

Lo guardai e mi venne da sorridere.

<<Non internamente, eh? Sembra che tu conosca bene questa terrazza, invece.>>

Lui annuì.

<<Vieni>> mi disse.

Lo ascoltai ancora. Mi lasciai accompagnare dalla sua mano. Raggiungemmo una delle sporgenze più estreme, da dove i nostri occhi si potevano affacciare direttamente sull'oceano.

<<A te il posto d'onore>> mi disse, in un sussurro.

Mi sedetti sul muretto che fungeva da bordo per la terrazza e lui fece lo stesso.

Lasciò la mia mano e per qualche istante rimanemmo così, in silenzio, ad osservare la sera intorno a noi.

<<Era qui che venivo, le prime volte.>>

Lo guardai senza riuscire a capire a cosa si riferisse.

<<Ti ho detto che mio padre era un poco di buono, e che mia madre dovette crescermi da sola.>>
<<Sì>> gli dissi, avvicinandomi un po' di più a lui.

Lui annuì come se stesse parlando con se stesso.

Ci fu un altro silenzio, più lungo questa volta. Poi riprese a raccontare.

<<In fondo lo sapevo, sai. Lo sentivo. Ero certo, da qualche parte dentro di me, in una zona oscura del mio cervello forse, o del mio cuore, non lo so... ero certo che sarebbe andata a finire così.>>

Lo guardai, ancora più disorientata.

<<Non fu mai facile per mia madre. Lei era... beh, era una donna incredibile. Non sarebbe stato semplice per nessuno crescere un figlio da sola. Ma lei aveva dato tutto, da sempre, per me. Perché era così, era una brava persona, oltre che una grande madre. Ma era anche debole, al tempo stesso.>>

Esitai. Stava per dirmi qualcosa di importante. Era come se riuscissi a leggere perfettamente all'interno dei suoi occhi.

<<Non potevo saperlo, durante i primi tempi. Non potevo sapere nulla perché ero troppo piccolo quando lei aveva incominciato a farsi. Fu poco dopo che mio padre se ne andò di casa. Mi resi conto che c'era qualcosa che non andava in lei verso i dieci, undici anni. Ma ero ancora troppo piccolo per poter capire davvero che cosa fosse.>>

Sentii un nodo stringersi intorno alla mia gola. Guardai Jaydon. I suoi occhi, fissi sull'oceano, erano diventati così seri e così tristi insieme.

<<Che cosa accadde poi?>> gli chiesi, avvicinandomi d'istino ancora un po' a lui, fino a sfiorare il suo braccio destro con il mio.

<<Poi... tutto ciò che sarebbe potuto andare male andò male. Crescevo, e crescevo soprattutto per strada, Millie. Non ero pronto per quello, però. Nessuno mi aveva preparato. Non c'erano libri da studiare che insegnassero come fare per non affogare, per restare a galla. Fu un periodo duro. Avevo quattordici, quindici, sedici anni. Mia madre continuava a cercare di prendersi cura di me ma al tempo stesso lottava per non farsi battere dai demoni che si portava dentro.>>

Annuii. Avrei voluto dirgli qualcosa di confortevole, ma trovai soltanto quel silenzio da condividere.

<<Non so perché te lo stia raccontando. Non voglio rattristarti.>>
<<Te l'ho chiesto io, ricordi?>> gli dissi, appoggiando all'improvviso la mia testa contro la sua spalla.

E fu così naturale farlo. Come se lo conoscessi da sempre. Come se Jaydon fosse cresciuto con me.

<<Ci furono giorni atroci, davvero. Risse, storie di spacciatori di fronte alla nostra casa, storie di violenza gratuita, storie tristi. Non mi importava, però. Perché a un certo punto le parti si erano invertite. E da un giorno all'altro ero diventato io quello che si prendeva cura di lei.>>

Jaydon scosse il capo. Io non mi spostai. Rimasi così, immobile contro la sua spalla. Mi trasmetteva una sicurezza incredibile.

<<Poi che cosa successe?>> gli chiesi, sottovoce.

Lui non mi rispose.

Rialzai la testa, mi avvicinai ancora di più al suo corpo, fino a che il mio braccio non si posò del tutto contro il suo.

I nostri corpi si sfioravano e a nessuno di noi due sembrava strano. Se per lui lo era, non lo dava a vedere. Era una sensazione incredibile.

<<Puoi parlare con me, se ti va di farlo, Jaydon. Mi piace ascoltarti. Dico sul serio.>>

Non sapevo da dove fossero uscite quelle parole, ma mi sentii bene per avergliele dette. Era ciò che pensavo.

Mi appoggiai di nuovo a lui. La mia testa tornò a posarsi contro la sua spalla.

<<Che cosa accadde poi?>> gli chiesi, ancora una volta.

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