I giorni senza te (pagare le conseguenze)
<<Se ci fosse altro da dire, giuro che te lo direi, Mills.>>
Jaydon si alzò dalla panchina sulla quale, circa tre ore dopo la giornata che avevo trascorso in spiaggia con Alicia, ci eravamo seduti, ritrovandoci finalmente insieme, io e lui da soli. Mi aveva chiamata non appena ero tornata a casa. Avevo avuto giusto il tempo di lavarmi e mangiare qualcosa al volo insieme a mio padre. Quando avevo letto il suo nome sul display del telefono, avevo trattenuto il respiro.
Perché così emozionata, Mills? Per quale motivo? Lo consoci bene, ormai. C'è questa cosa, tra di voi, questo soffio di vento di burrasca. Sì, mi piaceva definire il nostro rapporto in quel modo.
Vento di burrasca.
Non era inappropriato, no. Affatto.
Soltanto un gelato insieme, aveva detto Jay al telefono. L'estate sta finendo, bisogna provare ad afferrarla per gli strascichi del suo abito da sera, quello delle grandi occasioni, avevo pensato forse in modo infantile io.
E così era stato. Comprammo due gelati e ci sedemmo su una delle tante panchine affacciate sulla costa di East Bay, parallele alla strada che seguiva il litorale di Portway. La vista era incredibile come sempre, eppure non mi importava.
<<Sei silenziosa, stasera.>>
Ed era vero. Che cosa diavolo avrei dovuto dirgli?
Lo guardai. I suoi capelli mossi, scuri. I suoi occhi verdi. La sua maglietta che aderiva così bene alla pelle, le sue braccia abbronzate. Aveva lo sguardo stanco, però. Come quello di qualcuno che deve aver perduto il sonno.
<<Millie, io... avevo voglia di vederti.>>
<<Perché?>> gli chiesi, sottovoce. Ripensai inevitabilmente al modo in cui ci eravamo lasciati; a quanto lo avessi supplicato di provare a mettere da parte i suoi propositi di vendetta.
<<Perché c'è questa cosa... che non so definire, o descrivere, o tenere a mente... che sono i giorni senza te. Se ne vanno lenti, uno dopo l'altro. Bruciano assieme a tutta la rabbia che mi porto dentro. Così è un incendio che non so spegnere. Non avrei mai voluto dirtelo, ma stavo diventando matto, a casa.>>
Lo guardai ed ebbi un sussulto. Spostai gli occhi verso l'oceano. Le onde si inseguivano, una dopo l'altra, cantando la loro canzone malinconica. Parlava di un amore al tramonto? Forse, forse.
<<Forse è meglio se la smettiamo, Jay>> gli dissi, in tono metallico, quasi meccanico.
A che diavolo stai pensando, Millie? È la prima volta che dalla bocca di Jay esce qualcosa di così... bello. E tu? Rispondi così? Non...
<<Non siamo due bambini, non è vero?>> continuai, imperterrita. <<Tu hai la tua vita, che giusta o sbagliata che sia rimane tua. Hai le tue idee, i tuoi piani e i tuoi progetti pieni di rancore e voglia di vendetta, e posso capirlo. Come già ti ho detto, non posso però accettarlo. Anche se mi fa male ripeterlo, adesso. Perché... il tempo che ho trascorso con te è stato il più bello della mia vita, Jay. Te lo giuro. Il più bello. Ma non posso più...>>
E Jaydon avrebbe voluto abbracciarla, baciarla, stringerla a sé con tutta la forza del mondo, con tutto l'amore di cui si sarebbe scoperto capace. Avrebbe voluto dirle che ci sarebbe stato, per lei. Che anche quei piani di vendetta, ora, sarebbero stati accantonati perché... perché...
Mi voltai e lo guardai negli occhi.
Che cosa c'era di strano? Che cosa non andava? Perché Jaydon sembrava così diverso, all'improvviso? Dov'era finita la sua rabbia, la sua voglia di...
Lo guardai dentro gli occhi e infine capii.
Lui l'aveva fatto. Qualunque cosa fosse, l'aveva già fatto. Ecco perché il suo sguardo sembrava diverso, adesso. Aveva messo in atto il piano che tanto a lungo aveva studiato, o parte di esso. Ne fui certa all'improvviso. E... sentii ogni singolo battito del cuore, ogni pulsazione violenta nelle mie vene.
Paura.
<<Jay...>> sussurrai.
I suoi occhi, lucidi, erano tristi.
<<Non avrei dovuto, Millie. Avrei dovuto ascoltarti. Oh, perché non ti ho ascoltata.>>
Scoppiò a piangere, e il ragazzo forte, bellissimo, misterioso, affascinante che mi aveva salvata in un parcheggio deserto agli inizi dell'estate si tramutò in un bambino indifeso, vulnerabile, pronto a crollare in mille pezzi.
<<Che cosa hai fatto, Jay! Che cosa hai fatto?>> gli chiesi, gridando, perdendo il controllo e la ragione.
<<Che cosa hai fatto?!>> urlai ancora, battendo i pugni contro il suo petto, con rabbia, mentre lui continuava a piangere.
Dov'era la gente adesso? Perché eravamo così maledettamente soli? Perché Portway sembrava averci isolati dal resto del mondo? Io e lui, e ciò che era stato fatto.
Due adulti da soli.
Adulti. Adulta, sì, anche io alla fine. Ma non così grande, maledizione. Non pronta a qualcosa di simile.
Pensai che di lì a poco le luci di un lampeggiante della polizia avrebbero illuminato la strada, portandosi via Jaydon e tutto il resto. Ne fui certa, perché lui non mi spiegò che cosa fosse successo. Continuò soltanto a piangere e tutto ciò mi fece pensare al peggio, facendomi capire che ormai era fatta, e sopratutto che indietro non si poteva tornare. Nessuno sarebbe più tornato indietro. Non da laggiù, non dal posto in cui lui aveva deciso di andare.
<<Devi dirmi che cosa hai fatto, Jaydon>> sussurrai, senza alcuna emozione nella voce. Subito dopo ebbi un flash della sera in cui ci eravamo conosciuti, in quel parcheggio deserto.
Forse lui stava per rispondermi o forse no, quando il rumore di un automobile ci colse di sorpresa.
È fatta, pensai. Sono loro.
Mi voltai e mi resi conto che l'auto che si era fermata accanto a noi non aveva sirena né lampeggiante, perché non era della polizia.
Ciò che accadde dopo fu talmente rapido e terrificante che quasi non riuscii a rendermi conto di nulla.
L'uomo con il passamontagna nero scese dall'automobile e dopo una frazione di secondo fu di fronte a noi.
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