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Sei mesi dopo, Parte 2.

Disclaimer: i dialoghi in questo capitolo sono tutti in italiano, come è facile intuire dati i protagonisti e l'ambientazione. In corsivo sono rese le frasi in dialetto romanesco.

Vado a farmi una doccia,
così non capisco se sto piangendo o meno.

Bojack Horseman

Mia

23 giugno 2022, Rione Trastevere, Roma.

«Ammazza, papà, le potevi fa du gocce de più de caffè, eh.»

«Ma fallo te, no? Ormai so' abituato a fallo pe' due, no pe' quattro!»

«Va be', va, ho capito...»

Alex si alza dalla sedia, brontolando come suo solito, e va verso la dispensa. Apre l'anta destra, quella che da più di vent'anni, da quando ci siamo trasferiti in questa casa, contiene tutto l'occorrente per preparare il caffè e tira fuori il barattolo con la polvere nera. Si volta a guardarmi e mi fa un cenno.

«Ma sì, va, fanne un po' anche per me.» Mi sento lo sguardo burbero di papà addosso. «Erano du' gocce, papà, c'ha ragione Alex.»

Darcy si sente in dovere di dire la sua con un borbottio stridulo perfettamente udibile. Biascica un paio di vocali aperte e tutti gli occhi dei presenti si volgono verso di lei, compresi i miei.

«Amore di nonna, che c'è? Lo vuoi pure tu il caffè?»

Mia madre è in estasi. Da quando io e mia figlia abbiamo messo piede nella mia casa d'infanzia di Trastevere, tutte le sue attenzioni sono state per lei. Non vedeva l'ora di poter trascorrere del tempo insieme a sua nipote, anche se solo per pochi giorni. I miei genitori hanno passato il Natale e il Capodanno a Londra insieme a me, poco dopo la nascita di Darcy, ma poi non sono più riusciti a venire e io stessa ho potuto prendere un aereo solo adesso. Mi si riempie il cuore di gioia quando guardo mamma e papà giocare con la piccola, per non parlare della inconsueta tenerezza con cui Alex si rivolge a lei. Sono tutti pazzi di questa bambina. La amano profondamente.

«La vuoi un pezzo de ciambelletta, a nonno?»

«Ma te pare che se po' magnà la ciambelletta, Savè?»

«Mbè? Alex e Mia se le magnavano

Mamma stringe le labbra, limitandosi a scuotere la testa. Ha la tipica espressione di quando si trattiene dal rispondere a tono a papà per il quieto vivere. Meglio così, quei due sono capaci di mettersi a discutere per qualsiasi idiozia. Mio padre rinuncia - grazie a Dio - a dare una ciambelletta dura come il pane a una bambina di sei mesi con mezzo dente e la tira fuori dal seggiolone, mettendosela sulle ginocchia. Darcy all'inizio si lascia scappare un lamento di disappunto, ma poi si rilassa sulle gambe del nonno. Inizia a ridere quasi subito. Questa bambina è la più socievole che abbia mai visto: sta con chiunque, ride con tutti, si fa abbracciare, gioca con qualsiasi cosa, non piange mai. Spero che a nessuno venga mai in mente di rapirla, è capace di andarsene sul serio con un malintenzionato.

«A che ora hai l'appuntamento?» Mia madre, abbandonata dalla sua adorata nipote, si è alzata in piedi e si è messa a sparecchiare. Da qualche parte nel mio cervello sorge l'istinto di aiutarla, ma poi mi ricordo che la mia lotta al patriarcato me lo impedisce e allora decido di mangiare un'altra ciambelletta.

«Alle sei,» rispondo, «facciamo aperitivo a Piazza del Popolo.»

Alex mi porge la tazzina stracolma di caffè. Dal colore e dall'odore sembra molto forte. E pure dal sapore.

«Minchia, Alex, sto coso fa resuscità i morti.»

«Mica lo faccio annacquato come mamma.»

«Aò!»

«Comunque io nun capisco che senso c'ha andà a fa n'aperitivo de lavoro a Piazza del Popolo

Io e Alex distogliamo l'attenzione dal nostro caffè e guardiamo nostro padre.

«Che vuoi dire, papà?» chiede lui.

«Che se fanno gli aperitivi per parlà de lavoro? Se fà 'n pranzo, na cena, no n'aperitivo

Io e mio fratello evitiamo di guardarci. Tipico di papà.

«Ah Savè, mamma mia quanto sei antico, mo' se fa così!»

«A me nun me pare na cosa seria... Te che dici, Darcy, bella de nonno? Certo che nome glie avete dato a sta ragazzina. Darcy... Che è, 'n verbo?»

«Papà, non te ce mette pure te, eh!» Era meglio continuare a parlare dell'aperitivo poco serio. «'Sto nome è l'unica cosa su cui io e Philip siamo stati d'accordo, prima del patatrac, quindi niente commenti, grazie.»

Papà alza le mani. «E chi te dice niente!»

«Certo che te e Philip ve la potreste pure fa' na chiacchierata...»

«Ah ma, ancora?»

«Ok, ok, sto zitta!» Mamma copia suo marito, facendo lo stesso gesto. «Va be', tanto mo torni a vive qua con noi, no?»

Rimango in silenzio. Ho vagamente accennato alla mia famiglia della proposta della Lady Boss e me ne sono pentita due secondi dopo averlo fatto. Com'era ovvio che fosse, hanno cominciato a torturarmi.

«Non lo so, mamma, non ho ancora deciso. La mia è soltanto un'idea...»

«Ma scusa, perché no? Pensa a come staresti bene. Con Darcy ti aiuto io, non avresti più problemi.»

«Mamma, non posso tornare a vivere qui solo perché ci sei tu che mi guardi la bambina.»

«Ce sto pure io», si accoda papà, smettendo di dedicare attenzione a Darcy per qualche secondo. Al momento, mia figlia sta cercando in tutti i modi di agguantare gli occhiali del nonno. Il ricordo di ieri pomeriggio arriva veloce nel mio cervello, ma altrettanto rapidamente lo mando via.

«Io tre mesi e vado in pensione, eh.»

«Che culo», commenta Alex, non richiesto. «Io chissà quando la vedo la pensione».

«Con la partita IVA mai!» Mio padre ride da solo della sua battuta infelice. Mio fratello scuote la testa. Mamma liquida queste chiacchiere inutili agitando la mano destra.

«Secondo me ce dovresti pensà seriamente, Mì», conclude, con tono pratico. Chiude le ante della dispensa che ha appena finito di sistemare. Ha pulito la cucina in meno di dieci minuti, ma come fa?

«Ci penso, ci penso...» Sospiro, lo sguardo che finisce sulla schiena di Darcy, coperta da una minuscola maglietta verde chiaro. I capelli ricci sono umidi di sudore. Aveva ragione Alex, si muore di caldo, a Roma, non è abituata.

«Se proprio non vuoi stare qui con noi, potresti trovare una casetta per te e per la piccola...»

Mi ero illusa che avesse finito di discuterne. Socchiudo gli occhi e sospiro.

«Mamma, per favore, dai...»

«È pe' Philip, ve?»

È stato papà a parlare. Tutti quanti lo guardiamo. Darcy alla fine è riuscita ad appropriarsi dei suoi occhiali e sta sporcando senza ritegno le lenti con le mani appiccicaticce.

«Non posso portargli via la figlia.» Ho bisogno di un bicchiere d'acqua. Alex capta il mio bisogno e me ne versa uno.

«Non gliela stai portando via», commenta, senza guardarmi. «Stai seguendo la tua carriera. Sarebbe una svolta, per te.»

«Sì, va be', una svolta...»

Adesso non esageriamo. Non sarebbe una svolta. Credo.

«Beh, io dico di sì. Sai che vuol dire aprire una filiale di azienda? Potere, soldi, responsabilità...»

«Ecco bravo», lo interrompo. Mi gratto il naso con i polpastrelli, mi prude dappertutto. Ho lo stomaco in subbuglio e vorrei tanto che fosse a causa del caffè troppo forte. «Hai detto bene: responsabilità. Non so se le voglio e se sono in grado.»

Stiamo in silenzio. Nessuno sa cosa dire davvero. Non posso negarlo, ha ragione Alex: aprire l'agenzia in Italia significherebbe un cambiamento totale, in positivo, della mia carriera. Tuttavia, cambierebbe anche la mia vita. Dovrei abbandonare Londra e tornare a vivere a Roma. Dovrei lasciare la città che mi ha ospitata per otto anni, dovrei lasciare Lola, Jake, Taylor. Dovrei lasciare Philip e dovrei allontanare sua figlia da lui. Non so se posso farlo. Non so se voglio.

«Tiè, fuma

Mezz'ora dopo, papà è andato al lavoro per il turno di pomeriggio, mentre mamma si è chiusa in camera sua a riposare e si è portata dietro Darcy, crollata nel suo profondo sonnellino pomeridiano. Io e Alex stiamo morendo di caldo fuori in balcone e lui mi ha appena passato una canna.

«Sei matto? E se ci vede mamma?»

«Ma sta dormendo, stai tranquilla.»

«E se ci vede la Signora Rosa?»

«Secondo te quella riesce a distingue l'odore dell'erba da quello de na sigaretta?»

Touché. Aspiro il fumo, senza riflettere troppo sul fatto che tra tre ore ho un aperitivo di lavoro e sono la mamma di una bambina di sei mesi. Già al terzo tiro mi sento più rilassata.

«Quindi?»

Mi giro a guardare mio fratello. «Quindi che?»

«Che vuoi fa'?»

«Stai a diventà come mamma? Damme tregua, pure te.»

«Scusa, oh, dicevo per dire.»

Espiro il fumo dalle narici e gli passo la canna. Restiamo in silenzio per un po', mentre è il suo turno di fumare e i miei neuroni girano a ritmo più rallentato. Mi sento la bocca impastata, non fumavo da tempo.

«Non lo so che voglio fare», dico, la testa poggiata sulla spalla di Alex. «Non lo so proprio.»

«Non te la senti di fare una cosa simile a Philip?»

«Come posso farlo, Alex?»

«Nello stesso modo in cui lui si è scopato un'altra due giorni dopo la nascita di vostra figlia.»

Come dargli torto. Raddrizzo di nuovo la testa ed elimino il contatto con il suo corpo. Incrocio le braccia. Ho la pelle sudata, il caldo delle tre è insopportabile. Il sudore inzuppa la maglietta bianca che indosso. Ho bisogno di una doccia.

«Tu non sei felice, Mia. Non ce la faccio più a non vederti felice. E io sono la tua controparte eterozigota, quindi se non sei felice tu, non sono felice nemmeno io.»

Questa frase mi fa venire i brividi. Mi colpisce dritta nello stomaco e mi appare come l'unica verità assoluta. Ha ragione, io non sono felice. Ho un buon lavoro, ho una bambina stupenda e ho raggiunto degli obiettivi che non sarei riuscita nemmeno a immaginare soltanto un anno fa. Sono una madre single e ho una carriera avviata che potrebbe davvero prendere il lancio. Sono riuscita a mettere del denaro da parte, ho imparato a prendermi cura di un altro essere umano, sono diventata una super mom in carriera, pure discretamente benestante. Ma non sono felice, non come vorrei. Lo sono solo quando sto con Darcy e riesco a mettere tutto il resto fuori dalla porta. Purtroppo, non accade spesso.

«E pensi che se tornassi qui sarei felice?» gli domando e vorrei davvero che mi desse la risposta che cerco. Come sospettavo, Alex scuote la testa.

«Non lo so. Forse. Possiamo tornarci insieme.»

Inarco entrambe le sopracciglia. «Che vuoi dire?»

«Che stavo pensando di tornare anche io, a Roma.»

Non me l'aspettavo. Mi avvicino e gli metto una mano sul braccio. «E come fai con il lavoro?»

«Ho la partita IVA, Mia, posso lavorare anche qui e da qui. L'unica cosa bella di fare il freelance. E poi Milano mi ha stufato. Ci sono troppi milanesi.» Gli scappa un sorriso, che non riesce a celare la sua malinconia. Da quando si è lasciato con Francesco, più di sei mesi fa, per incomprensioni caratteriali e per corna varie, non ha più avuto alcuna relazione, o almeno nessuno che conti davvero.

«Ci prendiamo una bella casetta in affitto,» continua, «io, te e Darcy. Per qualche tempo, mesi, anni, chi lo sa. Poi vediamo.»

«Poi vediamo?»

«Pensaci: c'è stata una cosa che abbiamo programmato nella vita che poi si è realizzata?»

No, in effetti no. Non avevo programmato di trasferirmi a Londra, di restarci a vivere, di fare l'organizzatrice di eventi, di lavorare nell'ambito della comunicazione, di avere una figlia con il mio ex, di innamorarmi di nuovo del suddetto ex e di farmi spezzare ancora il cuore, di pensare di tornare a Roma. Quando provo a programmare qualcosa, finisce sempre per accadere il contrario. Sorrido d'impulso.

«No,» concordo, «ma non ci è andata troppo male, forse.»

Alex ricambia il mio sorriso. Mi passa di nuovo la canna, che io rifiuto con un gesto. Ci manca solo che arrivi fatta come una zucchina all'incontro di lavoro. Finisce di fumarla e la lancia giù dal balcone.

«A Londra se ti beccano a fare una cosa del genere sono cinquanta sterline di multa.»

Lo so perché una volta me l'hanno fatta. Non lo sa nessuno, è un segreto che mi porterò nella tomba.

Alex allarga le braccia. «Allora lo vedi che devi tornà a Roma

Scoppio a ridere e gli do una spinta. Torniamo dentro, l'afa è opprimente e ho bisogno di lavarmi. Mi volto verso Alex, impegnato a leggere qualcosa sul suo telefono.

«A che ora devi andare? Alle sei?» mi domanda, prima che possa parlare. Annuisco.

«Ti accompagno, devo andare in centro pure io.»

«A fare che?»

«Mi becco con un paio di amici.»

Questo è il massimo che riesco a ottenere dall'ermetismo del mio gemello. Faccio di sì con la testa e me ne vado in bagno, non prima di aver dato un'occhiata a Darcy che dorme beatamente accanto a mia madre. Se tornassi qui sarebbe tutto molto facile. Mamma e papà mi aiuterebbero, tornerei a vivere con mio fratello, il mio migliore amico da sempre, guadagnerei di più, farei un lavoro di grande responsabilità. Cambierebbe tutto, in meglio. O almeno credo. Non vedrei più Philip, non così spesso. Mi farei odiare da lui, perché gli porterei via la figlia. Metterei una pietra tombale su tutto quello che c'è stato tra noi. La distanza minima tra Londra e Roma è di milleottocentododici chilometri. Metterei milleottocentododici chilometri tra Philip e sua figlia. Tra Philip e me.

Il pensiero di lui mi porta ad afferrare il telefono. Non lo sento da ieri sera e non ho ancora ricevuto alcuna sua chiamata. Strano, non è da lui non chiamare o mandare messaggi. Forse sta lavorando, ma mi sembra assurdo che non mi abbia cercata per sapere come sta Darcy. Potrei chiamarlo io, ma non ne ho voglia. Ho sempre paura a chiamarlo, ho sempre timore di sentire la sua voce. Mi fa rabbrividire, mi fa sentire triste, mi fa soffrire. Mi ricorda che lo amo, ma che non lo devo amare. Pensavo che in sei mesi sarebbe cambiato qualcosa, invece non è cambiato niente.

Magari ha ragione Alex, dovrei tornare qui. Provare a ricominciare. Provare a essere felice. Anche io sono stufa di non essere più felice.

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